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Qualcuno che lo dica
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Sul «Messaggero», Gianni Boncompagni commenta con lode il fatto che le bambine di 11-13 anni dell’Oxfordshire potranno chiedere a scuola la «pillola del giorno dopo», anche per SMS, anche per numero verde «durante il week-end quando la scuola è chiusa»; e passa a deridere una immaginaria «Associazione Bacchettoni Italiani»  che condannerebbe l’iniziativa «coraggiosa e volendo spregiudicata» (volendo) degli inglesi.

Nello stesso giornale (ed io credevo che il Corriere fosse orrendo...) si dà notizia di «baby-spacciatori» arruolati da adulti a Grottaferrata per spacciare dentro le scuole, e di come gli scolari in questione «mentono con gli occhi che se ne scappano dai tuoi» mentre negano, «sì lo fanno tutti per cazzeggiare, tipo rilassarsi», ma non a scuola; anche se «cioè, sono canne, mica droga».

Si danno notizia di vari stupri di minorenni da parte di papà e fratelli, romeni, amici e conoscenti; di altri stupri denunciati falsamente da minorenni per «nascondere le loro marachelle» sessuali; si dà conto dei seguiti giudiziari dello «stupro della Caffarella»; la quattordicenne violentata dai romeni, apprendo, aveva regolari rapporti sessuali col fidanzatino coetaneo, col consenso dei genitori.

Siamo invitati infine a sdegnarci sul fatto che «6 milioni e 743 mila donne sono vittime di violenza nel corso della vita».

Noi però ci rifiutiamo di indignarci. Non vogliamo essere annoverati fra l’Associazione Bacchettoni Italiani; il ridanciano Boncompagni ce lo vieta preventivamente. E così ha campo libero lui e quelli come lui: il personaggio, noto per una sua predilezione privata per le ragazzine impuberi, concepisce e macina spettacoli televisivi. L’educatore, al comando del più potente mezzo educativo, è lui.

Bene. Magari un barlume d’intelligenza dovrebbe notare che da quella educazione discendono le conseguenze di cui il Messaggero è pieno? Tutti quegli stupri di ragazzine, di menzogne di ragazzine che denunciano stupri? Magari anche i cocktail di psicofarmaci ed alcol usati da dodicenni, su cui lo stesso giornale «lancia l’allarme»? Magari, il problema del «bullismo», dello «stalking» che spesso si conclude con l’assassinio della donna, vengono dall’ideologia che Boncompagni promuove con ridanciana irresponsabilità, tra l’approvazione generale? Magari anche quegli sguardi fuggenti di ragazzini già delinquenti senza averne coscienza, verranno dal precoce esercizio della sessualità, dal risveglio artificiale della sensualità, che devasta i caratteri, li fa così viscidi e mollicci, arroganti e vili, incapaci di sincerità e franchezza? Sarà almeno permesso notare che la deliquescenza della società, così favorita e promossa, è – oltre che ripugnante – pericolosa e suicida per la società stessa? Che stiamo costruendo anime perse non solo per l’aldilà, ma per l’aldiquà di una vita decente, virilmente produttiva, franca e legale?

Forse dovrebbe preoccuparci un pochino un fatto: che nell’intera società italiota non ci sia più alcuna istanza che si opponga all’ideologia-Boncompagni. Anzi, non dico che si opponga (non vogliamo essere «repressivi»): ma che almeno dica la cosa opposta. Che ricordi ai bambini precocemente risvegliati alla sensualità che fare certe cose è «male». Non male morale (per carità), ma male per il carattere, per lo sviluppo della volontà che servirà loro da grandi ad affrontare le durezze e le sconfitte della vita.

Sopra, incontrastato, dilaga il liquame televisivo-spettacolo, della pubblicità, della pornografia facilmente raggiungibile sul web e sul telefonino. Bene. Ma sotto, chi ha la forza di ricordare ciò che è «male»?

La scuola, lasciamo perdere. I genitori, quelli migliori, confessano la loro impotenza ad «imporre» ai figli qualche divieto contrastante con la moda e l’andazzo, e le imposizioni-ricattatorie della banda coetanea (che per i giornali diventa il «branco», quando delinque). E poi ci sarebbe parecchio da dire sulla neo-sessualità dei genitori essi stessi «liberati» dai famigerati «tabù». I nonni, che una volta invitavano ad evitare «le cattive compagnie»?

Ahimè, da quando vivo in provincia devo constatare che la scoperta del secolo – il Viagra – ha dato ai nonni una lugubre nuova vita: sull’orlo della tomba sono privati dell’antico beneficio che portava la vecchiaia – pensare all’anima, prepararsi – e si dedicano a badanti e serve romene di quarant’anni meno di loro, non di rado sposandole, ossia comprandole con la promessa della pensione vedovile, una piccola fortuna al loro Paese.

Bene, approviamo tutti: viviamo nella inedita civiltà del cosiddetto «amore», Viagra, pillole e preservativi sono lì a ripararci dalle conseguenze sgradite. Quelle dirette, almeno, come le gravidanze delle dodicenni. Sulle conseguenze indirette e generali, sul carico di sopraffazioni e violenze, schiavitù, sofferenze, infelicità e inferni veri che il sesso può comportare come «vizio», la censura impone il silenzio. Il sesso è, ufficialmente, «felicità», «benessere», «successo». Non ci è consentito nemmeno pronunciare la frase che accompagna, per obbligo di legge, la propaganda dei più innocui purganti da banco, e che uno speaker dalla parlantina fulminea legge più in fretta che può: «E’ un medicinale: seguire attentamente le istruzioni». Oppure: «Non superare le dosi prescritte».

Almeno dirlo, ai bambini. Almeno, potessero ascoltare qualcuno che fa loro presenti gli effetti collaterali – non quelli che si possono parare con la pillola del giorno dopo, ma quelli che rovinano il carattere e minano la volontà, che li rammolliranno e ne faranno delle amebe mollicce, ma capaci di ammazzare la fidanzata che «li ha lasciati» (perchè «non potevo vivere senza di lei»), di mettersi in branco a «farsi» la compagna o a bastonare il compagno debole o senza lo zainetto di moda; a investire innocenti per poi fuggire, o a massacrarsi di ecstasy il sabato sera.

Giusto perchè qualcuno lo dica – in qualche modo a futura memoria – citerò qui un personaggio di cui dirò il nome solo alla fine. Si vedrà allora che non si tratta di un moralista bacchettone, tutt’altro.

Dirò che è un personaggio straordinario, vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900, cresciuto nel Caucaso, allora crocevia misterioso di influenze spirituali strane e diverse. Nacque nella minoranza etnica greca, e il suo primo maestro fu un prete ortodosso, che ricordò sempre volentieri. Perchè quel prete, padre Borsh, non era nemmeno lui un bacchettone. Lo esortava a mantenere la purezza sessuale, ma «fino ai 18 anni».

Diceva:
«Se un adolescente soddisfa la propria concupiscenza, non fosse che una volta sola, prima della maggiore età, gli capiterà come Esaù: quello che per un piatto di lenticchie, vendette il suo diritto di primogenitura, cioè il bene di tutta la sua vita... perde per tutta la propria vita la possibilità di essere realmente un uomo degno di stima.

Soddisfare la propria concupiscenza prima della maggiore età ha lo stesso effetto che versare dell’alcol nel mosto. Come il mosto nel quale si è versata anche una sola goccia di alcol può diventare soltanto aceto, così la soddisfazione della concupiscenza prima della maggiore età fa dell’adolescente, sotto ogni rospetto, una specie di mostro. Quando l’adolescente diventa adulto, egli può fare tutto ciò che gli aggrada, come il mosto diventato vino, che può sopportare ogni dose di alcol...».
Non male per un prete, sia pure greco. Padre Borsh aggiungeva, credo a mo’ di spiegazione:
«Fino alla maggiore età l’uomo non è responsabile di nessuna delle proprie azioni, buone o cattive, volontarie o involontarie; sono responsabili quelli fra i suoi parenti che si sono assunti, consciamente o per circostanze accidentali, l’impegno di prepararlo alla vita adulta. Gli anni della gioventù sono per ogni essere umano, di sesso maschile o femminile, il periodo dato per sviluppare fino a maturazione completa il seme concepito nel seno della madre.

A partire da quel momento, cioè da quando tale sviluppo è compiuto, l’uomo diventa personalmente responsabile di tutte le proprie azioni volontarie e involontarie.

Come i saggi dei tempi passati avevano riconosciuto, questo termine è stato fissato dalla natura, conformemente alle leggi, per acquisire un essere indipendente, pienamente responsabile. Purtroppo nei tempi attuali non se ne tiene nessun conto: questo secondo me deriva dal fatto che l’educazione trascura il problema sessuale, il quale invece ha una parte importantissima nella vita di ognuno. In fatto di responsabilità, la maggior parte degli uomini contemporanei che hanno raggiunto e superato la maggiore età possono, per quanto strano sembri a prima vista, non essere responsabili di nessuna delle proprie manifestazioni».
Spero si colga la profondità di queste parole, e il loro collegamento con tutto ciò che abbiamo detto della deliquescenza della nostra società, dove nessuno le dice più. Da adulti (ammesso che siamo indipendenti e responsabili) possiamo anche fare la tara su questo insegnamento, relativizzarlo – l’incontro col sesso e le «cadute» sono inevitabili nell’adolescenza – ma occorre che a un ragazzino o a una ragazzina, questo venga fatto credere come verità assoluta; o che almeno qualcuno l’avverta seriamente del rischio che corre, il rischio di Esaù che per le lenticchie perse la primogenitura. Il rischio di diventare «una specie di mostro», del resto, è così evidentemente vero...

I giovanissimi non è bene che siano relativisti, e non solo in questo campo; valgono per essi degli accorgimenti pedagogici di cui magari da adulto potrà ridere. In questo senso, persino l’avvertimento che esagerare negli atti impuri «fa diventare ciechi» – frase che susciterebbe gli sgignazzi da tutti i teleschermi – aveva un suo valore educativo. E una verità più profonda di quella letterale: dopotutto, non esiste solo la cecità degli occhi materiali.

Il personaggio da cui ho ripreso queste righe avrebbe parlato di blocco dei «fattori spritualizzanti». Questo personaggio, è bene dirlo, non si fece prete, e smise anche di essere cristiano. A suo dire – era un gran raccontatore di storie, mai sapremo quanto inventate – trovò vecchi rotoli antico-armeni in cui si parlava dell’«Egitto di prima delle sabbie», e si mise in viaggio per incontrare chi ne sapesse di più. Mantenendosi nei modi più ingegnosi (sapeva fare mille mestieri e parlava molte lingue), a piedi, a volte solo a volte con compagni incontrati per via, viaggiò in quel mare di terra allora senza vere frontiere che si apre oltre il Caucaso, fino al Pamir e al Tibet, dove resistevano nicchie umane di civiltà spente, centri spirituali monifisiti ospitati in monasteri lamaisti, asceti, sufi contaminati da influssi babilonesi, accadici, buddhisti, o da elementi dello sciamanesimo siberiano. Il nostro etnologo Giuseppe Tucci lo incontrò casualmente a Lhasa, dov’era ritenuto una spia dello Zar.

Fatto sta che il nostro uomo, agli inizi del ‘900, appare a Parigi annunciando una via di salvezza che s’era costruito lui, a forza di quelle esperienze di cui non disse mai tutto, e forse mai nulla di non-inventato. Il centro della sua dottrina era: «Non avete un’anima immortale; troppo comodo; dovete fabbricarvela»; credo fosse una forma molto originale e personale di buddhismo.

Affittò una tenuta lussuosa a Fontainbleau, dove prese a insegnare a fabbricarsi l’anima a chi era interessato; fra i suoi allievi, un bel pezzo della cultura euro-americana: per snocciolare solo i nomi che mi vengono in mente, la scrittrice Katherine Mansfield, l’architetto americano Frank Lloyd Wright, Renè Daumal (l’autore del «Monte Analogo»), il pianista Keith Jarrett, Louis Pauwels futuro redattore-capo del Figaro e autore de Il Mattino dei Maghi, e il filosofo russo Ouspenskij, che fu il più devoto dei suoi allievi e forse il meno infedele dei suoi interpreti.

Insegnava esercizi fisici, che avevano a che fare con la musica e con la danza, di difficilissima, scoraggiante esecuzione – miravano a far muovere in modo indipendente arti e muscoli che usiamo in modo simultaneo o inconscio – forse al solo scopo di far «sentire» ai suoi allievi quanto poco fossero degli «io» autonomi, e quanto degli automi che credono di vivere e invece «sono vissuti» da altre forze, oscure e inferiori. Altri esercizi miravano ad ottenere l’assoluta presenza dell’«io», senza distrazione nè torpore.

Le sue cene erano festini pantagruelici, alla russa, molto innaffiati di vodka e cognac, durante i quali i suoi allievi dovevano sopportare il suo spirito sarcastico e le sue umiliazioni (forse pedagogiche). Ovviamente, c’era chi lo adorava come un guru e chi lo considerava un ciarlatano. Si faceva pagare carissime le sue lezioni; ma quando scoppiò la guerra mondiale e molti dei suoi allievi si trovarono in difficoltà, fu lui a mantenerli – dovette allora spesso assentarsi per «affari» –.

Sul letto di morte, nel 1949, disse ai pochi che non lo avevano abbandonato, sarcastico come sempre: «Vi lascio tra buoni guanciali». Se volesse intendere che erano riusciti a «fabbricarsi l’anima» è dubbio. Forse s’era dato a quell’insegnamento perchè il suo stesso lavoro per «fabbricarsi la propria anima» richiedeva, ad un certo punto, per il proprio perfezionamento, di portare altri più in alto, di aprirne i «fattori spiritualizzanti» paralizzati dalla modernità occidentale. Forse una forma sui generis di compassione buddhista, forse chissà cosa. Certo era un uomo di carattere e di volontà.

Non lasciò indifferente nessuno che lo incontrasse: la sua mera presenza dava la sensazione di una personalità  allegramente, sovranamente padrona di sè fino ad ogni fibra, vino che poteva sopportare qualuqnue gradazione di alcool.

Era, come alcuni avranno già intuito, Georgers Gurdjieff, non proprio un bacchettone.



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