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Qualche lezione dagli anni ‘30
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La rilettura di qualche dato sulla Grande Depressione degli anni ‘30 (i tempi lo richiedono) lascia una strana impressione di «déjà vu». Allora come oggi, la crisi abissale nacque in USA, dal capitalismo finanziario americano; e per lo stesso esatto motivo, l’espansione dissennata del credito.

D’accordo, allora non ci furono i mutui concessi a insolventi (sub-prime), non c’erano i derivati, nè i Credit Default Swaps nè i Collateralized Debt Obligations, nè le cartolarizzazioni, e nemmeno gli hedge funds. Tutto oggi è più complicato e interconnesso, e le montagne di debiti, immani (il che lascia prevedere una Depressione più grande della Grande); ma il meccanismo essenziale del crack fu identico.

Le banche, allora, prestarono soldi a chi giocava in Borsa. Prestiti a brevissimo, a vista  («call loans»), sempre più lucrosi per i creditori. I tassi medi d‘interesse di questi call loans passarono dal 3,32% nel 1925 al 7,26% nel settembre 1928; a marzo 1929, toccarono il 9,80%. Un bell’affare per il capitalismo finanziario.

Con una conseguenza oggi ovvia: interessi così alti per prestiti a vista a scopo di speculazione resero più difficile o impossibile l’accesso al credito di chi voleva indebitarsi a condizioni accettabili per scopi produttivi. Soprattutto l’industria delle costruzioni non poteva retribuire a quel livello il capitale prestato, e infatti declinò mesi prima del crack.

Ma che importava? La Borsa superava ogni giorno nuovi record. Persino le aziende industriali e commerciali si diedero a fare presti a breve; si guadagnava di più che a produrre merci e servizi. Anzi nelle ultime settimane, quando le banche - prudenti - si ritirarono silenziosamente da quel gioco, le sostituirono alla grande.

Il 31 dicembre 1924 i prestiti non-bancari ai broker di Wall Street ammontavano a 550 milioni di dollari; il 31dicembre 1927, erano saliti a 1,8 miliardi; il 4 ottobre del ‘29, sull’orlo dell’abisso, i prestiti a breve fatti dalle imprese ai giocatori in Borsa superarono i 6,6 miliardi di dollari.

Bastò che il 4 agosto ‘29 la FED, per raffreddare la bolla azionaria, alzasse i tassi dal 5% al 6%, perchè si innescasse la reazione a catena dei ribassi azionari e dei ritiri precipitosi dei prestiti; e che immediatamente (come oggi) il collasso colpisse l’economia reale: le imprese avevano perso in quei prestiti così lucrosi - denaro che produce denaro senza lavorare - i loro capitali operativi.

Fatto 100 l’indice della produzione industriale americana nel 1928, esso segnava 111 nell’agosto del 1929; a novembre, era già sceso a 96; nell’agosto del 1930, era a 83; nell’agosto 1931, lo vediamo precipitato a 71 (meno 30% rispetto a due anni prima). E il precipizio continua inesorabile: nell’agosto 1932 l’indice è a 54. Tragicamente, la produzione industriale è dimezzata.

In rapporto inverso, sale la disoccupazione. Nel 1929 pre-crisi era al 3,1%; nel 1930, è all’8,8%, un anno dopo al 16,1%, nel 1932 al 24%; nel 1933, tocca il 25,2%: 12-13 milioni di senza-lavoro.

Roosevelt viene eletto nel novembre 1932, e assume i poteri presidenziali il 4 marzo 1933: come oggi, la transizione - dunque la paralisi del potere - fu stupidamente lunga, e vide per questo una rinnovata corsa agli sportelli  per il ritiro dei depositi.

La prima decisione di Roosevelt dovette essere ordinare la chiusura delle banche. La riapertura avvenne in modo progressivo, dopo avere ricapitalizzato a spese pubbliche gli istituti, o almeno quelli salvabili.

Il salvataggio fu più oculato di quello del Piano Paulson; alle banche non furono, come oggi,  regalati i soldi in cambio degli «attivi tossici», ma la «Reconstruction Finance Corporation» (RFC, l’ente appositamente creato da Hoover) dapprima concesse loro prestiti; questo non fece però che aggravare l’indebitamento delle banche.

Sotto Roosevelt, la RFC fornì capitali in cambio di azioni. Nel 1935, quando cessò la sua attività, la RFC deteneva oltre un miliardo di dollari di azioni di 6.468 banche; altre 2.350 erano state messe in liquidazione (rappresentavano 3 miliardi di dollari di depositi). Anche allora, la crisi mise fine al dogma del non-intervento dello Stato nella finanza.

E’ dubbio che Roosevelt avesse la chiara coscienza degli immensi problemi che affrontava; era un politico, abile nel sentire gli umori dell’opinione pubblica e capace di influenzarli. Ciò che passa come il suo New Deal sembra oggi un insieme di ricette poco coerenti, un bricolage di provvedimenti di cui si stava a vedere l’effetto, per poi magari rovesciarli.

Nel maggio 1933, Roosevelt cominciò a provare con l’espansione monetaria; parve bene contrastare la deflazione con l’inflazione, per sostenere i prezzi interni. Con l’emendamento Thomas che gliene dava i pieni poteri, il presidente fissò di forza il cambio fisso dell’oro a 35 dollari; il che comportò un deprezzamento della moneta del 50-60%.

Tre  anni dopo, nel 1936, Roosevelt si allarma dell’inflazione e del deficit di bilancio che lui stesso ha provocato, e decreta una politica di severa restrizione, con rincaro dei tassi primari. Risultato: la Borsa crolla di nuovo, si instaura una più dura deflazione che provoca una rinnovata, e gravissima, recessione nella Depressione.

Dall’ottobre 1937 al marzo 1938, altri 4,5 milioni di lavoratori sono sul lastrico.

Questo rovesciamento, inquietante, dimostra che l’economia americana non è riuscita a riprendersi con le sue sole forze, che il New Deal l’ha tenuta a galla solo con massicce iniezioni di potere d’acquisto attraverso il deficit pubblico. Non sono riusciti i tentativi di economia diretta,non è servita a molto la National Recovery Administration, un pacchetto «sociale» con cui Roosevelt e i suoi consiglieri hanno intimato agli imprenditori il salario minimo (sotto il quale non si poteva andare) e ristretto la concorrenza («libero mercato»), allo scopo di sostenere salari e prezzi.

Nel ‘6, del resto, la Corte Sprema dichiarò incostituzionale il NRA come contrario al libero mercato; ma esso aveva cessato da prima di funzionare come strumento di politica economica.

La stessa fine fece l’Agricoltural Adjustment Act (AAA), volto a soccorrere il settore agricolo, disastrosamente colpito: il reddito complessivo dei coltivatori era passato,  tra il ‘9 e il ‘2, da 7,7 miliardi di dollari a meno di 3: cioè ridotto di due terzi.

L’AAA volle sostenere i prezzi agricoli, anche a spese della popolazione generale (nel pieno della deflazione, mentre tutti i prezzi calavano, in America rincarò il pane). Gli agricoltori ricevettero compensi per «non» coltivare parte dei terreni. Effettivamente, il reddito monetario dell’agricoltura aumentòdel 24 % el 1933, e del 15 % annuo negli anni seguenti. Ma di questi aumenti, le indennità per la riduzione della coltivazione costituivano, nel 1934, più dei due terzi. Anche l’AAA fu alla fine bocciato dalla Corte Suprema.

Furono lanciati, come si sa, grandi programmi di lavori pubblici pagati in deficit. L’ente apposito, la «Works Progress Administration», giunse a spendere il 75% dei suoi fondi in salari e meno del 30% in impianti e macchinari: segno che si trattava di lavori mauali, una forma mascherata di assistenza federale simile agli «ateliers nationaux»  creati dal governo comunista (la Commune) in Francia nel 1848. Oltre 3 milioni di disoccupati beneficiarono di questo lavoro sociale assistito.

Con quali risultati?

Nelle mie letture, trovo una tabella che mi pare straordinariamente istruttiva:

Tasso di crescita annuale del PIL

1922-1929                                                           1929-1937

 Stati Uniti                     +  4,8%                           + 0,1%
 Italia                             + 2,3                                + 1,9
 Giappone                      + 6,5                                + 3,6
 Germania                      + 5,7                                + 2,8
 Francia                          + 5,8                                - 2,1%
 Gran Bretagna               + 2,7                                + 2,3


Tabella davvero illuminante, in molti sensi. Anzitutto si vedano i tassi di crescita pre-crisi, quasi «cinesi» per tutti i Paesi sviluppati (con l’eccezione notevole dell’Italia: antica propensione fancazzista? Sottosviluppo?).

Si vedano i tassi di crescita durante la Grande Depressione: quello tedesco (2,8) e quello giapponese (3,6), al giorno d’oggi, farebbero parlare di boom, non di recessione. Persino l’Italia ha una crescita - nella depressione mondiale - che oggi, col nostro «zero virgola», possiamo giudicare invidiabile.

La conclusione è inevitabile: le politiche economiche e sociali anti-crisi messe in atto dai regimi autoritari nazionali funzionarono molto meglio del New Deal rooseveltiano.

Il Regno Unito non fa testo, perchè campò succhiando sostanza dal suo immenso impero. A fare peggio degli USA fu solo la Francia, e il motivo è noto: a Parigi in quegli anni era al potere il Fronte Popolare, ossia la «sinistra», e «applicò le ricette anticrisi tipiche della sinistra, dalla ipertassazione alla settimana di 30 ore, il ‘lavorare meno lavorare tutti» di bertinottiana  memoria.

Fu certamente in base a dati come questi che il Council on Foreign Relations dei Rockefeller diede a Roosevelt l’urgente consiglio, e il solo giusto, per strappare l’America dalla Depressione: entrare in guerra. Distruggere economie che crescevano tre volte di più della democrazia USA; non a caso chiamate ancor oggi «Il Male Assoluto».

(Fonte: Jacques Néré, «La crise de 1929»,  Parigi, 1973)


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