Sulla sua giovinezza siamo poco informati. Agobardo nacque
in Spagna, probabilmente nel 779, ancora fanciullo venne condotto nella Francia
Narbonense (782) e nel 792 a Lione. Il vescovo lionese Leidrado fece studiare
il giovane Agobardo avendo notato le sue qualità, lo ordinò sacerdote (804) e
quando nell’813, per ragioni di età e salute, il Leidrado si ritirò nel
monastero di San Medardo di Soissons, pur tenendo giuridicamente la diocesi di
Lione, affidò il governo diocesano ad Agobardo, nominato quale «vescovo ausiliare» dopo averlo fatto
consacrare da San Barnardo arcivescovo di Vienne, assieme ad due altri vescovi
co-consacratori. Con la morte di Leidrado Agobardo divenne arcivescovo di Lione
(816-840).
«Per intelligenza, volontà e cultura, Agobardo
si rivelò uno dei più importanti personaggi dell’impero sotto Ludovico il Pio (814-840)
e preseparte attiva ai maggiori affari ecclesiastici e politici del tempo (…).
Lottò vigorosamente contro l’eresia adozianista rinnovata dal vescovo
Felice di Urgel in Spagna; contro le
superstizioni del tempo; l’ordalia; il duello ammesso dalle leggi della Borgogna; infine contro le difficoltà sollevate dalla questione giudaica a danno
della causa cattolica (…). Agobardo morì
a Saintes il 6 giugno 840, a breve
distanza lo seguì nella tomba lo stesso imperatore, il 20 giugno 840».
Tuttavia, l’atteggiamento di Agobardo durante la crisi dell’impero lasciato da
Carlo Magno a suo figlio Ludovico il Pio fu molto delicato e criticato. La
situazione era difficile e complicata. Egli per il bene dell’unità dell’impero
che avrebbe garantito anche l’unità alla Chiesa si schierò in favore dei tre
figli dell’imperatore Ludovico il Pio (Lotario, Pipino e Ludovico). In realtà
Ludovico il Pio era debole e molti abusi e disordini si erano infiltrati
nell’impero durante il suo regno. Agobardo quindi pensò - per il bene
dell’impero che rischiava la frantumazione - di sostituire al padre i tre
figli. Nella dieta di Compiègne (833) fu alla testa dei vescovi Barnardo da
Vienne, Ebbone da Reims, sotto la direzione di Lotario, nel chiedere la
deposizione di Ludovico il Pio, che era circondato realmente da cattivi
consiglieri. Perciò si schierò in favore di Lotario, il quale godeva anche
dell’appoggio del Papa Gregorio IV, che si recò in Francia con Lotario stesso,
ma, pur avendo ottenuto (833) la deposizione di Ludovico il Pio, questi appena
due anni dopo riacquistò il trono. Agobardo e i vescovi filo-lotariani vennero
deposti. Agobardo assieme a san Barnardo fuggì in Italia con Lotario. Infine
(838), riconciliatosi con l’imperatore Ludovico il Pio che aveva riconquistato
il potere imperiale, rientrò a Lione e rioccupò la sua sede diocesana. Da
allora l’intesa con l’imperatore fu piena e perfetta.
B) Le opere
Oltre la lotta contro le eresie cristologiche redivive,
Agobardo è di massima importanza quanto alla dottrina sui rapporti Stato/Chiesa
e cristianesimo/giudaismo. Ora, questi temi si ripresentano, tutti e tre
assieme, proprio oggi, con la «Nuova
Teologia»
del Vaticano II. Quindi, il santo lionese è un faro per orientarsi in un mare
tempestoso qual è il tempo presente, fatto di paurosi sbandamenti dottrinali e
morali. Studieremo le sue opere affinché ci illumini e ci guidi sino alla meta.
I) Tre scritti di teologia
a) «Liber
adversus dogma Felicis urgellensis» (818): contro la dottrina «adozianista» del II secolo, ripresa nel
IX secolo da Felice vescovo di Urgella (Cristo non è il Figlio consustanziale
al Padre, ma solo adottivo, come ogni uomo, per la grazia santificante. Questa
eresia nega la divinità del Verbo e apre le porte al «subordinazianismo» e all’«arianesimo» - III secolo - per sfociare nel «nestorianesimo», V secolo).
b) «De immaginibus sanctorum»
(PL, CIV, col. 199 seguenti): Agobardo precisa che il culto delle immagini è
lecito a condizione di ritenerlo relativo alle persone dei Santi che vi sono
rappresentati e non all’oggetto in sé (né iconoclastia, né superstizione
idolatrico-amuletica).
c) «Liber contra obiectiones Fredegisi»
(830): in esso Agobardo si difende dalle accuse di eterodossia e riafferma la
natura divina di Cristo.
II) Scritti contro le superstizioni
a) «De grandine et tonitruis»:
spiega che la grandine, assai frequente a Lione, data la sua esposizione
geografica, non era effetto di malefizi ad opera di stregoni.
b) «Contra impia certamina»
(817): contro il duello giudiziario.
c) «Contra damnabilem opinionem putantium divini
judici veritate igne patefieri»: contro le ordalie.
Si trovano raccolti in MIGNE, PL , t. CIV, coll. 324-27
(edizione Stefano Baluze, Parigi, 1666).
Assieme a quelli dommatici e politici, sono i più importanti e attuali.
Divinità di Cristo, Nuova Alleanza che rimpiazza l’Antica e subordinazione
dello Stato alla Chiesa sono - infatti - i tre punti capitali che vengono negati
dal neomodernismo redivivo.
III) Cinque scritti sugli ebrei
Il primo scritto s’intitola: «Consultatio et supplicatio de baptismo judaicorum mancipiorum».
In esso Agobardo scrive a tre personalità ecclesiastiche
(Abalardo, Vala ed Elischar) del palazzo imperiale di Ludovico il Pio,
nell’832, riguardo al problema degli schiavi pagani (comprati dagli ebrei), i
quali «imparano la nostra lingua, cominciano a sentir parlare del Vangelo (…), donde s’innamorano del cristianesimo e desiderano diventare membri di Cristo, e rifugiandosi nelle nostre chiese
domandano il battesimo. Dobbiamo rifiutare loro questa grazia? Secondo me è
certo che ogni uomo è creatura di Dio,
il quale ha più diritti su di essi che non i loro padroni, i quali li hanno comprati come loro
schiavi. Onde se lo schiavo deve dare il lavoro del suo corpo al suo padrone,
deve offrire soprattutto il culto della sua anima solo a Dio suo creatore. Gli
Apostoli hanno battezzato gli schiavi senza attendere il permesso dei loro
padroni. (…) Ora se dei pagani
vengono a Cristo e noi invece di accoglierli li respingiamo, poiché i loro padroni non vogliono cederli, siamo crudeli ed empi (…). Certo, non pretendiamo di far perdere ai padroni ebrei il prezzo che hanno
sborsato per comprare il loro corpo,
infatti offriamo loro un riscatto secondo le leggi stabilite. Ma gli ebrei lo
rifiutano poiché sanno che godono l’appoggio
di alcuni ufficiali del palazzo imperiale. (…) Ora io mi trovo in grande imbarazzo, poiché, se rifiuto il
battesimo agli schiavi degli ebrei, faccio peccato e temo la dannazione, mentre,
se lo conferisco, temo la vendetta
umana che già mi è stata promessa,
come pure ho già subito molte vessazioni».
Si noti che il diritto civile da Costantino – Teodosio - Giustiniano, sino a
Carlo Magno e quello ecclesiastico (San Gregorio Magno), proibiva agli ebrei di
avere degli schiavi cristiani (per timore di corruzione della loro fede e
costumi). Inoltre, se i loro schiavi non-cristiani (o pagani) si convertivano a
Cristo, dovevano essere lasciati liberi dopo il pagamento di un prezzo di
riscatto legale, eguale a quello che era stato sborsato dai loro ex- padroni.
Ma gli ebrei si opponevano, sotto il regno di Ludovico il Pio, buono ma debole,
presso il quale godevano di un gran prestigio ed influsso. Agobardo non faceva
nient’altro che reclamare l’applicazione del diritto civile ed ecclesiastico,
fondato su quello divino: «Andate
predicate il Vangelo e battezzate tutte le genti, chi crederà sarà salvo chi non crederà sarà dannato».
In lui non c’è nessun sentimento antisemita o razzista, ma solo la
preoccupazione della salus animarum, che è la suprema lex. Jules Isaac ha volto
vedere in Agobardo una specie di antisemita ante litteram, ma non vi è nulla di
più falso. I tre succitati ecclesiastici presentarono la lettera di Sant’Agobardo
all’imperatore, però invano: il loro influsso era molto limitato mentre il
potere dei finanzieri ebrei era fortissimo. Nihil sub sole novi.
La seconda epistola («Contra
praeceptum impium de baptismo judaicorum mancipiorum»), non avendo sortito nessun
effetto la prima, fu indirizzata all’abate Ilduino, prelato del palazzo
imperiale e al Vala. In essa Agobardo presenta all’imperatore il caso di una
donna ebrea la quale si è convertita al cristianesimo e che è stata minacciata
e maltrattata gravemente a causa della fede. Egli lamenta il fatto che «gli ebrei si vantano di avere ricevuto un
certo editto dall’imperatore Ludovicoil Pio, che proibirebbe a chicchessia di battezzare uno schiavo degli ebrei (il
quale lo domanda), senza il consenso del
padrone. (…) Non c’è che un solo Dio e un solo Mediatore tra
Dio e gli uomini: Gesù Cristo, il
quale si è immolato per la redenzione di tutti. Chi, dunque, oserà fare quest’ingiuria alla bontà divina, limitandola mediante una legge ingiusta,
fatta secondo i piani di questi uomini ripieni
di perfidia implacabile, i quali non
solo impediscono i loro correligionari di arrivare alla fede, ma non cessano, in pubblico e in segreto, di maledire i credenti in Cristo e di bestemmiare
la loro fede. (…) Quindi se, disprezzando la legge divina ed
ecclesiastica, obbediamo a quello che
vien fatto passare per un editto imperiale, offendiamo Dio stesso; se -
invece - obbediamo a Dio e alla Chiesa,
ci attiriamo l’indignazione dell’imperatore. Infatti, il governatore ebreo non cessa di farmi sapere che manderà dei
commissari imperiali per giudicarmi su questo punto e punirmi. (…). Sono pronto io stesso a pagare il riscatto
ai padroni ebrei di schiavi che chiedono il battesimo, per non far torto né
agli uni, né agli altri». Purtroppo anche questa seconda missiva
non ebbe alcun effetto, anzi «non
contenti di aver estorto l’editto all’imperatore, gli ebrei ottennero l’invio
a Lione di due commissari imperiali per ‘inquisire’ Agobardo».
Historia (non) magistra vitae.
Il Santo scrisse, allora, una terza lettera a Ludovico
imperatore stesso («De
insolentia judaicorum») nella quale racconta come «preceduti da Eberardo, magistrato ebreo, son venuti da me Guerrico e Federico, vostri commissari imperiali, forse più per eseguire gli ordini di qualcun
altro che i vostri. Si sono mostrati tanto duri e terribili verso i cristiani
quanto dolci verso gli ebrei;
specialmente a Lione hanno dato una specie di esempio di quel che erano le
antiche persecuzioni anti-cristiane. (…)
Certo ho predicato ai fedeli di non vendere agli ebrei schiavi cristiani e di
non permettere che gli ebrei vendano dei cristiani, come schiavi, ai saraceni di
Spagna . (…) Come pure ho predicato
di non mangiare le loro carni e bere i loro vini, poiché è uso e costume degli ebrei di dare ai cristiani la carne di
animali ammalati (che non possono
essere Kasher) e di raccogliere il
vino che avanza o cade a terra in vasi speciali, per venderlo ai cristiani. Già San Girolamo parlava di ciò (…). Tuttavia non bisogna essere crudeli e
violenti nei loro confronti, ma umani
e stare ‘cautamente in guardia’ (erga eos cauti vel humani esse debeamus). E’
per questo che gli ebrei mi odiano e non me lo perdonano».
Agobardo presentò quindi un vero e proprio trattato (il quarto
trattato, «De superstitionibusjudaicis») composto assieme ad altri vescovi
(Barnardo da Vienne e Faova da Chalon) all’imperatore, per dimostrare come ciò che gli aveva detto nel terzo trattato
fosse il pensiero e la pratica costante della Chiesa.
«La Chiesa deve essere il rifugio dei fedeli dalla perfidia, la superstizione e le persecuzione del
giudaismo (…). Come, al tempo della
Passione di Gesù, Egli fu venduto da
un falso discepolo ai suoi aguzzini così, oggi - nella persona dei cristiani - Egli viene di nuovo comprato dai
giudei, a peso d’oro,
per rinnovare gli oltraggi alla sua Persona. (…) Quindi la Chiesa a partire dal IV secolo proibì, in quanto moralmente e dommaticamente
pericoloso, ai suoi fedeli di
frequentare troppo intimamente gli ebrei».
Agobardo, Barnardo e Faova
passano ad elencare gli errori contro la fede contenuti nel Talmùd e nelle
Toledòt, rifacendosi a quel che insegnavano allora i rabbini in Lione e citando
pure San Girolamo, il quale avendo dovuto tradurre la Scrittura in latino,
soggiornò in Terra Santa e conobbe gli usi, costumi e riti della sinagoga
rabbinica. Il quarto trattato finiva invitando l’imperatore a continuare nella «separazione disalvaguardia» dei cristiani dagli ebrei, ma invano. La
separazione invocata da Agobardo tra ebrei e cristiani non ha motivazioni
biologiche o razziali, ma di fede e morale, conforme alla legge civile ed
ecclesiastica, alla Sacra Scrittura e alla pratica degli Apostoli . Com’è
avvenuto - secondo il diritto civile - anche negli Stati cristiani, da
Giustiniano sino alla rivoluzione francese.
Agobardo non si dette per vinto e presentò la quinta
epistola («De cavendo convictu et societatejudaica») a Nebridio vescovo di
Narbonne, esortandolo a fare ciò che la Chiesa aveva sempre fatto nei confronti
del pericolo della perfidia ebraica.
«Bisogna
astenersi, per quanto sia possibile,
da faramicizia con gli infedeli,
non solo pagani e saraceni, ma
specialmente ebrei. Infatti sarebbe indegno dei ‘figli della luce’ essere
mischiati ai ‘figli delle tenebre’. La Chiesa di Cristo, ‘senza ruga né macchia’, perderebbe la sua fresca bellezza al
contatto con la sinagoga rabbinica,
ripudiata da Dio. Sarebbe come se una vergine casta, fidanzata solo a Cristo, volesse frequentare i banchetti della
cortigiana, onde si esporrebbe,
mangiando e bevendo, non solo ad ogni
sorta di peccato ma anche alla perdita della fede. Infatti, succede che a causa di rapporti troppo
familiari e di contatti troppo assidui con i giudei, alcuni cristiani si mettono ad osservare il sabato, a violare la domenica. (…) I profeti stessi hanno chiamato i giudei
infedeli, figli del diavolo, nazione prevaricatrice, popolo sporco di
ogni iniquità, figli scellerati, seme di
cattiveria. Il Battista li ha chiamati razza di vipere e Gesù in persona li ha
apostrofati quali serpenti,
generazione adultera e perversa. (…)
Onde giustamente la Chiesa proibisce la commistione con coloro che, a causa dei loro errori e favole
superstiziose, possono corrompere la
purezza della fede cristiana. (…) La
maledizione che grava su questo popolo infedele è come un vestito che lo
accompagna ovunque, come un olio che
entra nelle sue ossa e lo segue nei campi, nelle città, nei viaggi, nei poderi, nelle greggi, nei granai,
nelle medicine, nei festini e anche nelle
briciole che sopravanzano dai loro banchetti».
Pure questa quinta lettera non ebbe effetto, dacché vedremo Amolone, successore
di Agobardo, essere occupato dagli stessi problemi. La questione dei rapporti
tra cristiani ed ebraismo è oggi più attuale che mai, specialmente dopo Nostra
Aetate (1965) e la dottrina giudaizzante di Giovanni Paolo II (Magonza, 1980)
su «L’Antica Alleanza mai revocata»,
onde il giudaismo è diventato da «maledetto
e riprovato», il nostro «fratello
maggiore e prediletto» (Sinagoga di Roma, 1986). Come si vede,
vi è una lampante opposizione di contraddizione tra queste due dottrine, onde
una sola può esser vera, quella tradizionale e costantemente insegnata e non
quella nuova e rivoluzionaria. Quindi Agobardo condanna, implicitamente ed irrimediabilmente,
Karol Wojtyla.
IV) Tre scritti di disciplina
Hanno per fine l’istruzione del popolo e la difesa della
Chiesa. Essi sono:
a) «De modo regiminis ecclesiastici»
(816): contiene ottimi consigli di vita spirituale.
b) «De fidei veritate»: sermone di morale per il
popolo.
c) «De privilegio et jura Sacerdotii»:
è una difesa dei privilegi e dei diritti del Sacerdozio.
V) Scritti di liturgia
«De
corretione antifonarii» (839): è una prefazione al nuovo
antifonario che doveva eliminare quello romano, introdotto a Lione da Amalario
nell’835-838 (PL, CIV, col. 330).
VI) Cinque scritti di polutica
a) «De comparatione regiminis ecclesiastici et
politici»
(832). Fu diretto all’imperatore Ludovico il Pio, quando il Papa Gregorio IV si
recò in Francia per tentare di impedire la frantumazione e il crollo
dell’impero carolingio. In esso Agobardo (fautore dell’unità dell’impero)
ripete la dottrina tradizionale - già espressa da San Gelasio, San Leone Magno,
Anastasio II, Sant’Agostino e San Gregorio Magno - sui rapporti tra Stato e
Chiesa e l’applica al caso concreto: «I
due poteri sono pronti a combattere,
uno con la spada e l’altro con la
parola (…), ma è più nobile la
santità di chi è consacrato alle cose divine che la forza delle braccia armate (…). E’ molto
più alto il regno celeste ed eterno,
che quello terrestre transeunte (…).
Compito del re terreno è di mantenere e favorire la pace e l’unità della Chiesa, di modo che ogni suddito fedele possa vivere sempre più virtuosamente».
Il santo arcivescovo di Lione riafferma con forza la necessità di essere in
comunione con Roma e la suprema autorità della Santa Sede di modo che
allontanarsi dal Papa significa essere fuori dalla Chiesa di Cristo extra quam
nulla salus. Secondo lui «la
religione è l’anima della politica»
(non dice - come Maurras - politique d’abord), onde lo Stato senza la Chiesa è
un cadavere e non una persona morale viva e vivificante. Purtroppo l’episcopato
francese si divise, molti non seguirono il Papa; l’imperatore non ascoltò i
consigli di Agobardo, il quale si ritrovò in minoranza nel voler essere fedele
a Roma e all’unità dell’impero carolingio, che era stato diviso in tre parti.
«Se come uomo di azione - scrive Igino
Cecchetti - ha talvolta ecceduto, Agobardo fu però grande figura di pastore,
e ha il merito di aver difeso la purezza
della fede (…). I suoi scritti teologici e pastorali si
leggono ancor oggi con particolare attrattiva e profitto, per quell’intimità spirituale che tutti li pervade. (…) Il popolo ha tributato ben presto adAgobardo ilculto dei Santi:
l’attestano i martirologi di Lione e
di Saint-Claude». Don P. Chevallard conclude: «Certe volte Agobardo manca di dolcezza, moderazione, tratta gli avversari con durezza e asprezza, ma il suo zelo per Dio è
di un calore ammirevole, anche se
spesso è santamente violento. Il suo amore per la verità è una sorta di ‘passione’ (…). La sua fermezza d’animo è
incrollabile (…), però bisogna pur dire che - durante il suo secolo - la
moderazione non esiste quasi, si trovano soprattutto tempeste e passioni (…). Egli è un prete-soldato; anche se di carattere sarebbe stato portato, naturalmente, alla timidezza, le circostanze lo spinsero a scrivere con
forza e arditezza» .
«L’ordine del Papa - scrive il Santo
vescovo di Lione- è superiore a quello dell’imperatore, come lo spirito è sopra la materia (…). Governare le anime appartiene al Papa, all’imperatore spetta
dirigere i corpi (…). Lo spirito non
può cedere alla carne, il cielo alla
terra, le cose divine a quelle umane.(…) E’
grazie alla predicazione del sacerdozio che si mantiene la fede nella
Santissima Trinità e non grazie al governo temporale. (…). L’imperatore
non deve dimenticare di avere la stessa natura dei suoi sudditi, di essere un uomo anche lui, creato e ordinato a Dio, come tutti gli altri».
Come si evince, San Agobardo abbozza già nel IX secolo la dottrina della
plenitudo potestatis Papae, esplicitata poi da San Gregorio VII, Bonifacio VIII
e Innocenzo IV, nell’XI-XIV secolo. Dunque, Agobardo ritiene che l’autorità
temporale abbia una missione quasi «apostolica»,
di essere al servizio dell’autorità spirituale, per la salvezza delle anime.
Chi governa lo deve fare in spirito di carità verso Dio e il prossimo e mai per
egoismo o ambizione personale. Tale dottrina dopo Dignitatis Humanae (1965) è
assai importante, dacché mostra l’inconciliabilità assoluta tra l’insegnamento
del Vaticano II e quello del Magistero costante e tradizionale. Gli altri due scritti politici, più importanti, sono di
carattere più concreto e contingente: Il «Liber
apologeticus pro filiis imperatoris Ludovici, adversus patrem» (833) e «Cartula depoenitentia
Ludovici ad Lotharium» (833).
VII) Tre scritti di
spiritualità
a) Sermone al
popolo;
b) Opuscolo di
ascetica e morale;
c) Sulla
traslazione delle reliquie.
Conclusione
Queste sono le vicende terrene di un uomo coraggioso e
intrepido nel difendere i diritti della Chiesa e la salvezza delle anime, sino
a inimicarsi i «poteri forti»
di allora (re e alta finanza). Tutto ciò lo rende attuale come non mai. Fiero
oppositore della prepotenza giudaica e dell’alta finanza; strenuo difensore dei
diritti della Chiesa, nei confronti dello strapotere imperiale. Agobardo, col
suo zelo infuocato, ha combattuto la buona battaglia sino all’esilio. Ha pagato
di persona ciò che aveva predicato con la bocca o la penna. Oggi, di fronte
alla quasi «onnipotenza» del mondialismo e del
sionismo, egli brilla nel firmamento della storia ecclesiastica come una stella
che illumina il nostro cammino in questi tempi oscuri, in cui il vero è
presentato come se fosse falso e viceversa. Il suo insegnamento e la sua
coerenza di vita vissuta, sono guida sicura ai nostri passi incerti, per
giungere al Regno dei Cieli. Per crucem ad lucem. Forse, nell’ardore della
lotta, qualche volta ha esagerato quanto al modo, mai quanto alla sostanza. Ma San
Pio X ci ricorda che nella lotta contro l’errore e il male del proprio tempo è
meglio eccedere che peccare per difetto; infatti il male avanza non tanto per
il coraggio dei cattivi ma per la debolezza dei buoni.
Che San Agobardo ci
serva da esempio per combattere la buona battaglia di oggi, con ardore e
passione, senza falsa vergogna e nel rispetto della verità. Egli interceda per
noi, affinché - come lui - possiamo essere ripieni del «Dono diforza»,
il quale soltanto potrà renderci vittoriosi contro un avversario il quale -
umanamente parlando- è infinitamente più scaltro e potente di noi.
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