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Se un «false flag» diventa un «blowback»
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Ricapitoliamo: mesi fa, il presidente Barak Obama minaccia il regime siriano di Assad: se userà armi chimiche «contro i suoi cittadini», supererà la «linea rossa»: la linea oltre la quale ci sarà l’intervento armato occidentale.

Passa qualche settimana, ed effettivamente varie fonti denunciano che armi chimiche (si parla di gas nervino) sono state usate: il 23 dicembre a Homs e il 20 marzo ad Aleppo. L’Onu allestisce una commissione d’inchiesta.

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Carla del Ponte
  Carla del Ponte
Arriviamo al 5 maggio. Carla del Ponte, la magistrata ticinese, ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia dal 1999 al 2007, che fa parte della suddetta Commissione Onu, dichiara alla Radio Svizzera Italiana: «Stando alle testimonianze che abbiamo raccolto i ribelli hanno usato armi chimiche, facendo ricorso al gas sarin». Viene subito smentita da un allarmatissimo comunicato del Segretariato Onu, ma ormai la frittata è fatta.

La linea rossa è spostata.

È escluso che quella di Carla del Ponte sia una «voce dal sen fuggita»: il personaggio è furbo, freddo rettiliano, controllato in ogni parola, interno ai più importanti gruppi dell’oligarchia mondialista e occidentalista. Par di intuire che, in quelle logge coperte, sia in corso una frattura: chi vuole trascinare l’America nell’intervento armato in Siria (ed ha fornito ai «ribelli» il Sarin per il necessario false flag), e chi si sforza di mandare a monte la trama, e tener fuori Washington dal vespaio siriano.

Grosso modo, si ritiene che la lotta sia in corso nella stessa Amministrazione Usa, con Obama assediato e riluttante all’attacco. Fatto significativo: il 3 maggio, due giorni prima dell’uscita della Del Ponte, un importante personaggio della politica americana se n’è uscito con dichiarazioni simili. Il personaggio è il colonnello Lawrence Wilkerson, che è stato capo dello staff di Colin Powell, quando costui fu segretario di stato dal 2001 al 2005 (e dovette far credere al mondo che Saddam aveva le armi di distruzione di massa). Questo Wilkinson, in una conferenza pubblica, a proposito delle armi chimiche usate in Siria, ha lasciato cadere testualmente le seguenti frasi: «...Può essere una operazione false flag israeliana, può essere stata una delle opposizioni in Siria, può averle effettivamente usate Bashar al Assad (il presidente siriano, ndr), ma non lo sappiamo in base agli indizi che ci sono stati forniti....». (Former Chief of Staff: Syrian Chemical Weapon Narrative Could Be An Israeli False Flag)

Lawrence Wilkerson
  Lawrence Wilkerson
Dichiarazione clamorosa, per più di un motivo. Anzitutto, l’uso dell’espressione «false flag». Dall’11 settembre in poi, nessun personaggio americano che abbia o abbia avuto una qualunque posizione governativa ha mai usato l’espressione «false flag». Il termine è proscritto – non si parla di corda in casa dell’impiccato – censurato e demonizzato come tipica locuzione dal blogger complottisti. Ufficialmente, bisogna escludere la stessa possibilità che degli Stati perfetti come gli Usa o i suoi alleati NATO possano commettere dei false flags. Ancor più positivamente è vietato collegare «false flag» alla parola «Israele»: qui il tabù è assoluto. Ed ora un colonnello vicino a Colin Powell rompe il tabù.

E nemmeno quella di Wilkinson è una voce dal sen fuggita. Forse, nel suo ambiente, è stato letto un piano della Brooking Institution (una storica «fondazione culturale» washingtoniana, che «suggerisce» politiche alla Casa Bianca, fortemente ebraica) che si domandava come indurre la superpotenza americana a scendere in guerra contro Teheran; e si rispondeva con l’idea «provocare l’Iran» con «qualcosa come un Undici Settembre iraniano, in cui l’aereo portasse simboli iraniani (...) Quale presidente americano si tratterrebbe da un’invasione dopo che gli iraniani avessero ucciso migliaia di civili americani con un attentato sul territorio stesso degli Stati Uniti?».

Il «consiglio» è così spudorato, che il lettore potrebbe non crederlo. Ma si trova nero su bianco nel documento della Brookings intitolato «Which Path to Persia?», firmato da noti personaggi della lobby ebraica. Chi ne ha voglia, può rileggerlo da noi tradotto in 4 puntate: Qual è la strada per la Persia? (parte I)

Chi cerca di attrarre il Pentagono in guerra in Siria ha fretta: sul terreno, i cosiddetti ribelli subiscono sconfitte su sconfitte e sono con le spalle al muro, se non gli si affianca il Grande Fratello; come testimonia dal teatro operativo il giornalista Robert Fisk, l’esercito siriano è ben lungi da disintegrarsi come sperato; la coscienza di battersi contro jihadisti stranieri ne ha rafforzato la determinazione: ormai, ha scritto Fisk, «combattono per la Siria, non per Assad. E possono anche vincere. Sulla linea del fronte, l’esercito del regime non è affatto nello stato d’animo della resa, e proclama di non aver bisogno di armi chimiche...».

È a questo punto che Israele interviene direttamente nel conflitto, bombardando con i suoi caccia numerose installazioni militari siriane attorno a Damasco (42 morti civili), ufficialmente perché c’erano dei missili iraniani destinati ad Hezbollah.

Magari anche Israele ha fretta, perché sta nascendo a Washington un nuovo «paradigma»?

Come ci segnala un lettore (grazie!), su Cnn International il capo americano del Council on Foreign Relations, Richard Haas, è saltato sù a dire «che l’America è stata intrappolata per 20 anni in Medio Oriente e che ora è tempo di farla finita e di focalizzarsi sui problemi a casa. L’America deve subito risolvere il problema scuola, infrastrutture, riportare il lavoro e l’immigrazione. Si parla di investimenti nella scuola, perché è il futuro del Paese e non una spesa. Si vuole che le menti brillanti facciano THINGS (merci fisiche) e non DEALS (finanza)... è giunto il momento, condiviso da tutti i CEO americani, che conviene produrre a casa e non più in Asia».

Insomma, c’è chi prova a far fallire i «false flag». Il che significa trasformarli in «blowback».

Blowback significa «ritorno di fiamma»; nelle armi automatiche, è il recupero del gas dell’esplosione per permettere al carrello, col rinculo, di mettere in canna il nuovo proiettile. Ma nel gergo della CIA, indica una conseguenza non voluta di un’operazione coperta andata a male, con sgradevoli risultati per la Ditta e la carriera dei suoi agenti. Tipicamente, un «false flag» di cui si capiscano i veri autori, finisce con un blowback (e licenziamenti, o processo interno seguito da epurazioni, a danno dei veri autori).

Un altro tipico caso di blowback è il seguente: tu prepari con grande dispendio dei «terroristi islamici» per fare attentati a Mosca (poniamo), e invece quelli ti fanno un attentato esplosivo a casa tua, a Boston, poniamo. Spesso, bisogna rimediare in gran fretta eliminando fisicamente i terroristi rivoltati, per far tacere le loro bocche per sempre e «ripulire la scena».

Ebbene – non ci si può credere, eppure pare proprio essere questo il caso dei fratelli ceceni Tsazrnaev, Tamerlan (ucciso) e Dzokar (sopravvissuto) perpetratori dell’attentato islamico nella maratona di Boston.

Lo ha sostenuto Russia Today il 30 aprile scorso, raccontando che il regime georgiano precedente (come si sa ostile a Mosca e aiutato militarmente dagli israeliani) «era coinvolto nell’addestramento di estremisti a cui ha partecipato il principale sospetto dell’attentato a Boston», cioè Tamerlan. Alla vicenda sta investigando l’attuale governo della Georgia (più filo-russo), che – nella persona del primo ministro Bidzina Ivanishvili – ha detto, il 28 aprile, che i servizi di sicurezza georgiano del precedente governo Shaakashvili, avevano preparato gente cecena in funzione anti-russa, per commettere attentati contro interessi russi. E ciò, udite, udite, con il finanziamento «di una fondazione con sede in Usa».

Una fondazione culturale!? Possibile? E quale?

Justin Raimondo (di Infowars) e Wayne Madsen sono concordi nell’additare la «Jamestown Foundation», un’appartata fondazione culturale di Washington che (per Madsen) «è stata a lungo usata per dare uno stipendio a disertori d’alto rango dal blocco sovietico, da Arkadi Shevchenko, ai suoi tempi sottosegretario generale all’Onu, fino a Ion Pacepa, alto dirigente dello spionaggio romeno. I servizi russi FSB (ex Kgb) e SVR sospettano da sempre il Jamestown di fomentare la ribellione in Cecenia, Inguscezia e Caucaso del Nord».

Nel board (direttivo) della meritoria fondazione «culturale» Jamestown siedono Zbig Brzezinsky, storico anti-russo, e Marcia Carlucci, che è moglie di Franck Carlucci, ex alto dirigente della Cia, poi segretario alla Difesa, ed oggi presidente della Carlyle, la società d’affari creata da Bush padre, ormai divenuta multinazionale, specializzata nello spaccio di armamenti e compravendita di ditte di armi. La Jamestown, in Georgia, ha contribuito a fondare una «Georgian International School for Caucasuus Studies», il cui programma aperto è rinfocolare sentimenti anti-russi nel Caucaso, conducendo programmi di studio come il seguente: «Politiche zariste e sovietiche nelle pulizie etniche condotte nel Caucaso del nord nel 19mo e 20mo secolo». Tamerlan Tsarnaev, abitante in Usa, era andato appunto in Georgia per partecipare a simili «corsi di studio».

Tamerlan Tsarnaev
  Tamerlan Tsarnaev
I servizi di Mosca l’avevano notato, e – come ormai sappiamo – avevano segnalato Tamerlan come terrorista pericoloso all’FBI; sappiamo che l’FBI s’era infischiato dell’avvertimento, ed ora capiamo meglio il motivo. Sappiamo anche che dopo l’attentato a Boston, ci sono volute precise indicazioni giunte da Mosca per portare la polizia americana sulle tracce dei fratelli Tsarnaev... il maggiore dei quali è stato poi necessario uccidere prima che parlasse ad un processo (c’è stato un tentativo anche di ammazzare il minore: fallito. Un blowback nel blowback).

Nella formazione di Tamerlan Tsarnaev come terrorista ceceno (pardon, ribelle anti-Putin) entrano anche altre benemerite entità statunitensi, come l’USAID (che Putin ha espulso della federazione russa l’anno scorso) e il Open Society Institute di George Soros.

Scrive Madsen:

«Coopera con la Jamestown, e non solo nelle sue operazioni d’informazione nel Caucaso Sud e Nord, bensì anche in Moldavia, Bielorussia, e negli affari uiguri e uzbechi, l’onnipresente Open Society Institution di George Soros... (...) Il Central Eurasia Project di Soros ha sponsorizzato un insieme di seminari con la Jamestown... Soros e le sue ONG hanno dato il via alla «Rivoluzione delle Rose» che (in Georgia) portò al potere Shaakashvili».

È quel Michail Shaakashvili il quale, con sostegno militare israeliano e l’istigazione americana, nell’agosto 2008 cercò di occupare con i carri armati l’Ossezia del Sud, piccola enclave russofona che si dichiara parte della Federazione Russa e non vuol integrarsi con la Georgia. Le armi giudaiche subirono allora una cocente sconfitta dalla armata russa (ne avevamo parlato diffusamente all’epoca in 3 articoli: qui, qui e qui).

Ma apprendiamo che i tentativi di aizzare i secessionismi anti-Mosca non sono affatto diminuiti. Anzi. Scrive Madsen:

«Nel marzo 2010 la Georgia, con fondi CIA, Soros e MI6 (i servizi britannici) ha organizzato una conferenza intitolata “Nazioni Occultate e Crimini Continui : i circassi e i popoli del Caucaso del Nord tra passato e futuro” (‘Hidden Nations, Enduring Crimes: The Circassians and the People of the North Caucasus Between Past and Future’.): parte dello sforzo di “CIA, Soros e i servizi britannici di sostenere con denaro il secessionismo di minoranze etniche in Russia, compresi circassi, ceceni, ingusci, balkarii, kabardini, abazi tatari, talish e kumiks”».

Tamerlan Tsarnaev aveva appunto partecipato anche alla suddetta conferenza. (Tamerlan Tsarnaev’s links to CIA operations in Caucasus)

E a proposito: pochi giorni fa abbiamo ricordato la forte e antica «amicizia» che la nostra attuale ministra degli esteri Emma Bonino ha con George Soro e la sua Open Society, e come sieda nel Council on Foreign Relation Europe pagato da Soros; il suo sostegno al terrorismo ceceno anti-russo è addirittura un fiore all’occhiello suo, e del partito radicale. Il quale ha subito approfittato del fatto di avere al potere, senza il disturbo di essere votata, la sua Numero Due, per lanciare alla grande la sua campagna di pressione per la legalizzazione dell’eutanasia , anche questa una battaglia molto interessante per Soros.

Hanno anche loro molta fretta. Speriamo in un blowback.



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