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Chi decide per noi. E come.
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Come abbiamo visto nell’articolo precedente, il gran mercato comune Usa-UE vien fatto avanzare a marce forzate. Esso non è mai stato discusso nei parlamenti nazionali, né la decisione di attuarlo è stata sottoposta a voto, ancor meno a referendum. Il 13 febbraio 2013, il presidente Obama, Barroso e Van Rompuy hanno semplicemente annunciato l’inizio dei negoziati (a porte chiuse) per l’«Accordo di partnerariato transatlantico per il commercio e l’investimento». In quali sedi è stato deciso? Da chi?

Il lavoro vero è stato condotto da «reti» (networks): reti di relazioni e interessi fra potenti, di denaro e potere e corporations di cui l’opinione pubblica non ha il minimo sentore. Tutta l’elaborazione del partenariato pare fare capo ad un potente istituto euro-americano che si definisce appunto una rete: Il Transatlantic Policy Network (TPN). Diretto da un deputato britannico all’europarlamento – James Elles – che non vi dirà nulla, ma però risulta a capo di altre due «reti»: la European Internet Foundation e lo European Ideas Nework. Quest’ultimo ha sotto a sua volta, a cascata, «48 fondazioni in 18 Paesi»; riunisce «seicento policy-makers e opinion-shapers», ossia politici europei e formatori d’opinione, «giornalisti, uomini d’affari, consiglieri politici» uniti dalla stessa ideologia del mercato unico mondiale.

Tutta questa attività costa. Chi paga? Torniamo alla rete delle reti, il Transatlantic Policy Network: dal sito risulta che ha il sostegno finanziario di decine di multinazionali, le solite stranote: Boeing, Coca-Cola, Dow Chemical, Nestlé, IBM, Microsoft, Walt Disney, le solite grandi banche (Deutsche Bank, JPMorgan), le mega-editoriali e dello spettacolo (Time Warner, McGraw-Hill). Entità non note per elargire donazioni senza contropartita. Nel suo sito ufficiale, il TPN dichiara di lavorare «tenendo un basso profilo pubblico»...

Sul piano delle «idee» e progetti, il Transatlantic Policy Network è affiancato da «istituzioni» amiche, fra cui: il CFR (Council Foreign Relations dei Rockefeller), Chatham House (ossia il britannico Royal Institute of International Affairs: lo storico formatore delle politiche dell’impero britannico), Brookings e Carnegie Endowment (due storici «pensatoi» americani coadiutori della CIA e Dipartimento di Stato). Essenzialmente, un classico centro di influenza e dominio anglo-americano, di quelli concepiti – fin dalla seconda guerra mondiale – per egemonizzare l’Europa, in cui sono sparsi qualche think tank tedesco (Bruegel) e – rari nantes in gurgite vasto – ....l’Aspen Italia di Marta Dassù per coincidenza vice-ministra nel governo Letta. L’altra, Emma Bonino, appartiene al Council on Foreign Relations Europe, la istituzione gemella del CFR, finanziata in gran parte da Soros.

Nulla di nuovo apparentemente. Sono le stesse persone ed entità che già si vedono, complottano e decidono a porte chiuse in una mezza dozzina di prestigiosissime sedi: la Trilateral, il Bilderberg, il Davos Forum, il Peterson Institute for International Economy. Hanno ottenuto tutto il potere possibile: la banche d’affari hanno sventato ogni tentativo di regolamentazione, le multinazionali e le mega-banche sono libere di diventare sempre più grosse fino ad essersi rese «troppo grandi per fallire», comprano interi parlamenti, fanno e bocciano governi (da noi: Monti, Letta). A cosa serve dunque, specificamente questo ennesimo organismo e nodo della «rete»?

Nella pratica, il TPN attrae e conforma a sé dei politici eletti (l’8% dei suoi membri sono europarlamentari) mettendoli in contatto con i dirigenti della più potenti multinazionali e rendendoli amici dei loro interessi (1). Ciò è tipico del parlamento europeo, lontano dallo sguardo delle opinioni pubbliche e vicino alle lobby: ce ne sono 10 mila a Bruxelles che quotidianamente «informano» i parlamentari, «danno loro idee» per disegni di legge (e loro, che le idee non le hanno, restano grati) e li «convincono» della bellezza e legittimità degli interessi della Coca Cola, Disney, Nestlé, JP Morgan. Ovviamente è da questo continua mescolanza incestuosa tra la sfera politica e il mondo degli affari che nasce quasi spontaneamente quella «filosofia politica» che fa coincidere la democrazia con il mercato, e riduce l’essenza della democrazia alla libertà dei commerci. I politici vengono progressivamente istruiti a percepire le leggi nazionali – per esempio quelle che mirano a proteggere l’ambiente o la salute – come «barriere non tariffarie», da abolire per conseguire l’efficienza del capitale e la competitività; e in generale, il diritto vigente, la previdenza e lo sforzo di conseguire l’uguaglianza sociale (creazioni mirabili dell’Europa da un paio di secoli) come «ostacolo non necessario» alla libera espansione del profitto.

Le multinazionali inducono i politici a creare le basi per il loro mondo ideale: un mondo dove il lavoro è una merce (di poco valore data l’abbondanza dell’offerta), un mondo di elusione fiscale per le corporations transnazionali, dove lo Stato vede diminuire le sue entrate tributarie; un mondo, infine, in cui anche la qualità delle merci peggiora quanto conviene al profitto dei fabbricanti multinazionali.

Il TPN ha condotto per anni un lavorio per «il dialogo USA e UE» fatto di tavole rotonde ristrette, di gruppi di studio, di patti discreti fra grandi imprese e camere di commercio a decidere «armonizzazioni» di normative, riunioni di alti burocrati delle due parti. Sempre tenendo «un basso profilo pubblico». Si rivela pubblicamente (più o meno) solo quando tutto è stato già deciso. Così, nell’ottobre 2011, il Transatlantic Policy Network emana il rapporto Toward a Strategic Vision for the Transatlantic Market», (Toward a Strategic Vision for the Transatlantic Market)

In questo rapporto c’è già tutta l’architettura istituzionale da costruire per il mercato comune USA UE, e di fatto in via di costruzione da parte dell’obbediente mondo della politica. Il tono è orwelliano: «Al fine di realizzare pienamente il potenziale non sfruttato di nuovi posti di lavoro e di crescita – si legge nel rapporto – richiamiamo a una completa Iniziativa di Crescita e di Impiego Transatlantico che deve comprendere un piano di rotta per l’abolizione, entro il 2020, delle barriere non tariffarie al commercio e all’investimento tuttora esistenti, e di avanzare verso dazi zero per il commercio transatlantico».

Basta solo pensare cosa significa l’abolizione totale ed obbligatoria dei dazi per i membri della UE: è l’altra perdita di sovranità dopo quella sulla moneta. La modulazione dei dazi è sempre stata usata (anche e soprattutto dagli USA) per proteggere alcuni propri settori, fra cui l’agricoltura nazionale, che è anche protezione del paesaggio, oltre che di una certa autosufficienza alimentare. Agricoltori e paesaggio europei saranno spazzati via dai grani americani a basso costo e, inoltre, OGM.

Il rapporto del TPN era rivolto al mondo politico, non certo all’opinione pubblica. E il mondo politico risponde con eccezionale prontezza, come se quel «richiamo» fosse un comando. Abbiamo detto che il rapporto è stato pubblicato nell’ottobre 2011. Ebbene, nel novembre, un solo mese dopo, i capi di Stato e di governi europei, in processione a Washington, creano con gli americani un’istituzione che chiamano «Gruppo di Lavoro ad Alto Livello per posti di lavoro e crescita» (High Level Working Group on Jobs and Growth ) col compito di impastare e mettere in forno il Patto Transatlantico.

Chi fa parte di questo Gruppo di Alto Livello? «La lista dei membri non esiste», ha risposto la Commissione Europea a chi gliel’ha chiesto ufficialmente. Un Gruppo senza membri. Eppure ha elaborato ben due documenti: stilati da chi? «Vari dipartimenti» ha assicurato la Commissione, «hanno contribuito alla discussione e alla stesura dei rapporti del Gruppo-senza-membri. Ma «non esiste alcuna lista degli autori» per cui la Commissione si scusava di non poter essere d’aiuto. (Who’s scripting the EU-US trade deal?)

Di fatto, sembra di intuire che non c‘è stata nessuna discussione, nessun contributo e nessun membro. I due caporioni del Gruppo di Alto Livello sono l’americano Ron Kirk, Trade Representative degli Stati Uniti, e il Commissario al commercio eurocratico Karel De Gucht, che hanno applicato un ruolino di marcia già deciso da anni. Magari non da soli loro due. Hanno dalla loro elaborazioni da enti come il Dialogo Transatlantico del Mondo degli Affari (un altro coacervo di multinazionali americane...); ente che nel 2013 s’è fuso con una potente lobby di multinazionali europee, lo European American Business Council, per formare il Transatlantic Business Council, un coacervo ancora più numeroso e potente di corporations: Audi, BP, Coca-Cola, Ernst & Young, IBM, Lilly, Microsoft, Siemens, Total... Ovviamente, questo immane corpo celeste fa gravitare attorno a sé la Confindustria tedesca (e tutte le altre, «europeiste»), l’unione delle Camere di Commercio americane, lo Atlantic Council, il German Marshall Found, insomma reti su reti su reti.

Che bisogno c’è, una volta tese queste reti, di preoccuparsi dell’opinione pubblica e della politica democratica? Tutto questo network di networks è stato creato appositamente per stare al disopra delle popolazioni e decidere del loro destino a loro insaputa.

Pardon, mi correggo: il Gruppo di Alto Livello (ossia Kirk & Gucht) sostiene di aver fatto ben tre consultazioni nel 2012, in aprile settembre ed ottobre, chiedendo a «persone e gruppi d’interesse che si sentano toccati» dal Patto Transatlantico, di porre le loro osservazioni. Come? Con questionari elaborati dallo stesso Gruppo. Sui loro siti. Che non sono proprio l’agorà della democrazia ideale. Grazie a questa precauzione, il Gruppo ha ottenuto solo 48 osservazioni al suo progetto. Di queste, 34 venivano da lobbies industriali e finanziarie. Cinque da imprese private. Due da Stati (Lettonia, Danimarca), una da un’associazione di avvocati internazionali. Solo 4 sono state osservazioni venute da persone private , e solo 2 da associazioni di cittadini di base, fra cui una animalista: l’importantissimo Consiglio Transatlantico per il Benessere Animale.

Praticamente, 40 su 48 erano risposte di interessi corporati d’affari. Del resto, non esprimevano liberi pareri; dovevano rispondere a un questionario, le cui domande sono state accuratamente concepite per escludere anche solo la formulazioni di preoccupazioni di genere sociale o ambientale – (tipo: «In cosa le legislazioni non necessarie ostacolano i vostri affari? In cosa le barriere tariffarie non tariffarie ostacolano la vostra attività?.»..). Domande in neolingua orwelliana che sollecitano risposte in neolingua, ovviamente.

Vorreste dire la vostra? Spiacenti, ormai le ampie consultazioni sono chiuse. Il progetto procede. È un progetto che Max Keiser, un noto giornalista che tiene una rubrica finanziaria su Russia Today, non esita a definire «genocida», per quella normativa che mette le grandi imprese sullo stesso piano degli Stati, e gli interessi del profitto privato al disopra degli interessi generali protetti dalle leggi nazionali, con le multinazionali possono trascinare n giudizio gli stati per quelle norme. Sembra esagerato? No, se si pensa che già oggi lo fa Monsanto dovunque vuole: prima infetta con le sue spore OGM i campi di coltivatori che hanno coltivato sementi naturali, e poi li denuncia per aver usato le sue sementi brevettate senza aver pagato la licenza. Questa specie di «diritto», con Partenariato, diventerà la regola e non l’eccezione. Max Keiser dice: «il Partenariato dà tutto il potere alle entità che hanno distrutto l’economia europea, alle grandi banche che hanno gettato nel cesso l’economia. Ora, esse acquistano la capacità di citare in giudizio gli Stati per i danni che esse hanno inflitto alle loro economie, per strappare risarcimenti da sistemi economici che hanno proprio loro devastato. Immaginate ad esempio Goldman Sachs. Ha devastato la Grecia, ha sottratto miliardi alla Grecia. Ora il Partenariato gli dà la possibilità di perseguire il governo greco per maggiori compensazioni...» (Dimension génocidaire de l’accord de libre-échange USA-UE)

È la pura verità.

Come denunciò De Gaulle in una celebre conferenza-stampa del dicembre 1953, «Sono al lavoro sinarchisti che sognano un impero multinazionale; essi hanno concepito nell’ombra, negoziato nell’oscurità, firmato in segreto... a formare un governo apatride su misura della tecnocrazia...Un potere sovrannazionale, reclutato per cooptazione, senza base democratica né responsabilità democratica, qualcosa di simile a una sinarchia». E si lanciò all’attacco di questi cospiratori dell’ombra, ritardandone i disegni di almeno un ventennio. Ci sarà mai più, in Europa, uno statista capace di identificare così precisamente il potere nemico, e di opporvisi senza viltà? Non è un caso se proprio in Francia sono sorte le organizzazioni di base coscienti del pericolo e decise ad opporsi:

Confédération paysanne, Attac France, Conscience Citoyenne Responsable, Agir pour l’environnement, Union syndicale Solidaires, Minga, France Amérique latine, Artisans du monde, Mouvement régional des Amap, faucheurs volontaires d’OGM, Adéquations, OGM en Danger, Combat Monsanto, Veille au grain, Solidarité, etc.. In Belgio si sta allestendo una «piattaforma contro il transatlantismo» (www.no-transat.be/) ed www.econospheres.be. E in Italia?





1) Ciò non è che la continuazione della strategia delineata da Jean Monnet, il fondatore di tutta questa cospirazione eurocratico-bancaria: «Ho meglio da fare che esercitare il potere io stesso», scrive nelle sue Memorie (1976). «Non è forse il mio ruolo, da molto tempo, influire su coloro che esercitano il potere politico? Al momento critico, quando mancano le idee, i politici accetteranno con gratitudine le vostre, purché rinunciate a reclamarne la paternità. Dal momento che loro si assumono i rischi, che abbiano pure gli allori....Se restare nell’ombra è il prezzo da pagare per vedere le cose marciare, allora scelgo l’ombra».



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