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Ancora un indizio del Progettista
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L’idea dei vegetali come essere viventi inferiori, in basso nella scala evolutiva, passivi e insensibili rispetto agli animali ha subito un altro colpo. Adesso i ricercatori britannici del John Innes Center hanno scoperto che una pianticella ha una calcolatrice interna (da qualche parte) con cui è in grado di fare divisioni aritmetiche: compito che, si deve ammettere, supera le capacità di non pochi esseri umani mal scolarizzati.

Il titolo della comunicazione scientifica «Arabidopsis plants perform arithmetic division to prevent starvation at night», richiede una spiegazione. La Arabidopsis thaliana (in italiano Arabetta) è una pianticella graziosamente insignificante, ma adottata dai laboratori di biologia molecolare come «organismo modello» per le sue piccole dimensioni, il ciclo di vita breve (che accelera la ricerca) e il patrimonio genetico relativamente semplice (solo 5 nucleotidi e 29 geni) che ne ha fatto la prima specie vegetale ad essere geneticamente mappata. Insomma, l’Arabetta è quello che è il moscerino della frutta nel mondo animale: una cavia ideale per le manipolazioni genetiche.

Come tutti i vegetali, anche l’Arabetta si nutre con la fotosintesi clorofilliana, captando la luce solare per fabbricare materia organica, assimilando l’anidride carbonica (CO2) presente nell’atmosfera. Di notte però non c’è il Sole con la sua energia; come fa la pianta a sopravvivere fino al mattino? Lo fa consumando le sue riserve di amidi (idrati di carbonio) che ha immagazzinato in sovrappiù durante il giorno, e con queste riserve continua a fornire le calorie alla propria crescita e al proprio metabolismo.

Si è constatato che l’Arabetta tramuta in riserva più della metà del carbonio captato durante il giorno, sotto forma di granuli amidacei nelle foglie; e lo consuma quasi tutto – esattamente il 95% – nel corso della notte. Gli scienziati inglesi hanno provato ad ingannare la pianta in tutti i modi, ritardando o accelerando artificialmente la «notte»: niente, la pianticella arrivava all’alba sempre avendo consumato il 95%, o se si preferisce con la riserva del 5% (evidentemente, il suo margine di sicurezza) ancora in corpo. Come un guidatore accorto, l’Arabetta amministra il suo serbatoio di carburante in modo da arrivare al primo distributore senza far accendere la spia rossa, e tanto meno rimanere bloccata in strada. Mai. In nessuna circostanza.

Ma come fa a sapere a che distanza di tempo si trova il primo distributore, ossia quando albeggerà il primo raggio di sole? I ricercatori britannici ipotizzano che l’Arabidopsis disponga di un meccanismo che «misura» il contenuto di amido nelle sue foglie e il tempo che resta prima dell’alba, e «divide» il primo valore per il secondo, in modo da calcolare la velocità con cui l’amido deve essere consumato nel suo modo preferito, ossia dando fondo precisamente al 95%, ma tenendo precisamente la riserva del 5. Si è pensato anche che la pianta adatti il suo ritmo di consumo via via che passa la nottata; ipotesi contraria alla prima, perché nella prima si suppone che la velocità del consumo resti costante, mentre la seconda suppone rallentamenti ed accelerazioni.

È per decidere fra le due ipotesi che i britannici hanno avviato una lunga serie di esperimenti. Le piante che in laboratorio erano state abituate a 12 ore di vita diurna e 12 di «notte», sono state sottoposte ad allungamenti o ad accorciamenti della loro giornata di luce: 8 ore, o al contrario 16 ore. Tutte le volte, la Arabidopsis si adeguava alla situazione, e giungeva al mattino con il suo solito 5% di amido. S’è visto che il 95% veniva consumato ad un ritmo costante: il suo calo, espresso nei grafici, è una linea retta discendente. Solo la «ripidità» di questa retta è più o meno accentuata in funzione della durata della notte e della quantità di amido sintetizzata durante il giorno (se il giorno è artificialmente abbreviato, la pianticella non poteva ovviamente fare il pieno). Ciò sembra confermare la prima ipotesi, ma inoltre significa che la pianta, oltre che capace di fare le divisioni, fa anche le sottrazioni. Il suo orologio interno le ha insegnato che l’intervallo fra due albe è di circa 24 ore. Se la notte cade di botto dopo 8 ore anziché dopo le abituali 12 ore, calcola che la prossima alba sorgerà fra 16 ore, anziché 12 come di solito; e adatterà il suo consumo di amido a questa notte prolungata.

Allora gli scienziati hanno provato altri trucchi: per esempio hanno artificialmente ridotto la quantità di amido disponibile non riducendo la durata dell’esposizione alla luce, bensì decurtando l’intensità della luce stessa; ricevendo meno luce, la pianta con la fotosintesi riesce a sintetizzare meno glucidi; ma ciò non le impediva di bruciare il suo carburante in modo perfettamente lineare durante la notte, e arrivare imperturbabile con il 5% di riserva al mattino. Hanno usato una Arabidopsis mutante, il cui ritmo circadiano era alterato: la pianta «credeva» che la giornata fosse di 21 ore invece di 24. Questa volta, la pianta OGM consumava tutto il suo amido tre ore prima dell’alba, avendo l’orologio guasto, s’era sbagliata nei calcoli... (fra l’altro, un’ulteriore conferma che i mutanti, lungi dall’essere i motori dell’evoluzione darwiniana, sono meno adatti alla vita). Gli accanitissimi ricercatori hanno «tagliato» la notte della pianta, inserendo un periodo di luce intercalare. Volevano vedere se questo metteva confusione nell’orologio interno, o lo azzerava: nulla di tutto questo. La pianta non s’è fatta ingannare e, al ritorno della notte, ha calcolato quanta oscurità le restava e a quale nuovo ritmo doveva consumare la sua riserva d’amido, tenendo anche conto che quella riserva, l’aveva in parte ricostituita durante il periodo breve di luce fra le due notti.

Un simile meccanismo (ritenuto di tipo chimico) opera sicuramente nelle altre piante, e i ricercatori – adesso che l’hanno scoperto – ritengono che ne siano dotati anche gli uccelli migratori che, lo si sapeva, gestiscono le loro riserve energetiche (di grasso) «a pelo»: giusto quanto basta per arrivare, smagriti ma vivi, ai luoghi di riproduzione in un altro continente, a migliaia di chilometri di distanza.

Ma noi restiamo al regno vegetale. In curiosa attesa delle elucubrazioni con cui lo scientismo spiegherà come «risultato dell’evoluzione» la presenza di questo dispositivo calcolatore, così raffinato, preciso ed «intelligente», nel regno vivente ritenuto «inferiore». Tanto più che si continuano a scoprire nelle piante – creature senza cervello e senza sistema nervoso – capacità sensoriali prima insospettate. S’è dimostrato che certe piante riconoscono la luce riflessa dalle piante vicine grazie a degli organelli fotosensibili non molto dissimili dai nostri occhi; in tal modo adattano la loro crescita alla «concorrenza» dei vicini. Che il grano è «conformista», ed ogni spiga si situa da sé alla stessa altezza di tutte le altre, perché se le superasse si renderebbe vulnerabile. Le piante hanno una qualche percezione della loro postura nell’ambiente circostante, e la adattano secondo le condizioni ambientali, per esempio irrobustendosi dal lato dove spira abitualmente il vento; anzi, esse hanno una «percezione di sé» che le aiuta a valutare le deformazioni subite dalle loro parti, e a controllare i propri movimenti – perché sì, le piante compiono movimenti autonomi.

«L’idea che un albero si tenga in postura verticale come un palo piantato in terra, solo per il fatto che è rigido, è un errore», dice Bruno Moulia, ricercatore francese, direttore all’INRA, Université Blaise Pascal, a à Clermont-Ferrand: «Si dimentica che la massa della pianta cresce in permanenza, e le sue curve, il peso e deformazioni e portamento variano nel corso della sua vita. Senza una continua informazione posturale e reazioni motorie appropriate, la posizione verticale sarebbe impossibile».

Le piante comunicano fra loro. Lo ha dimostrato un esperimento fallito in Namibia: qualche allevatore ha tentato di allevare in cattività i kudos, antilopi che si nutrono mangiando le foglie delle acacie. Ha rinchiuso decine di kudos in un vasto appezzamento piantato ad acacie; ebbene, tutte le antilopi sono morte in brevissimo tempo. Le autopsie hanno rivelato che erano morte di fame, benché a stomaco pieno. Non erano riuscite a digerire le foglie, perché queste si erano anormalmente riempite di tannino. Un supplemento d’indagine ha consentito di capire perché: quando è aggredita, l’acacia produce questa sostanza tossica come difesa, ma soprattutto emette dell’etilene, volatile, che segnala alle altre acacie attorno il pericolo; sicché anche queste si saturano di tannino. Quando sono libere nella natura, le antilopi evitano questo inconveniente brucando «controvento», attaccando via via gli alberi che non sono stati messi in allarme. I kudos la sanno più lunga degli zooloti.

Un recente, clamoroso esperimento condotto da un’equipe italo-australiana ha indagato i modi con cui le piante «comunicano» tra loro; alcuni sono noti e sono l’emissione di sostanze volatili che – nel caso del finocchio – inibiscono la crescita di vicini e competitori (come il pomodoro e il peperoncino), o addirittura li uccidono. Ma altri sono ignoti, ancorché rilevabili. Come avviene la comunicazione: magari attraverso le radici? Per altri segnali chimici, o addirittura «visivamente»? Per testare ed escludere tutte queste ipotesi, anche le più inverosimili, il gruppo ha inventato un ingegnoso esperimento che escludeva l’una o l’altra delle possibilità ipotizzata. Sono stati coinvolte una pianta di finocchio e una di peperoncino. Per farla breve, il peperoncino «sentiva» che vicino aveva il finocchio, anche quando questo era dentro un contenitore nero opaco ed ermeticamente chiuso, e approntava le sue difese. Quando lo stesso contenitore nero e chiuso non aveva dentro il finocchio, il peperoncino non dava segni di allarme, quasi sapesse che quel recipiente era vuoto. Alla fin fine, gli scienziati si sono arresi all’evidenza: il peperoncino riceveva messaggi «sonori», e rispondeva ad essi. Le piante emettono dei rumori, che non sono solo schiocchi e fruscii. Il finocchio emette onde sonore, che bastano a indurre il peperoncino ad accentuare la propria crescita, onde rinforzarsi di fronte alla pianta avversaria, quasi ad anticipare l’arrivo delle sue molecole chimiche nocive. (Out of Sight but Not out of Mind: Alternative Means of Communication in Plants)

Insomma i vegetali in qualche modo «vedono», hanno capacità proprioricettiva (la percezione di sé in rapporto al mondo esterno), «annusano», comunicano tra loro, ed adesso si è scoperto che «odono»: tutte raffinate qualità che siamo soliti attribuire al regno animale, negandole a loro, poveri esseri passivi, rozzi e primitivi. Ed abbiamo ragione, perché – ripeto – questi esseri viventi non hanno sistema nervoso è tantomeno un qualche organo cerebrale, e tutti i loro «sensi» si basano su relativamente semplici operazioni chimiche, biochimiche, ormonali. Ma a maggior ragione, si deve constatare che in natura non esistono forme di vita «primitive», o «adattate», perché tutte sono, nel loro genere, perfette e spesso sofisticatissime. E tutta l’intelligenza raffinata e geniale che esse manifestano nella loro modesta vita, non appartiene a loro, che degli organi dell’intelligenza sono prive; sarebbe bene che gli scienziati cominciassero a chiedersi a Chi appartiene, allora, quell’Intelligenza tanto complessa, previdente ed acuta – ed evidente.

No, loro diranno che questi raffinatissimi meccanismi sono il risultato di una evoluzione graduale, dovuta alla selezione casuale e cieca, come li obbliga il dogma. Deve esserci dunque stato un passato lontanissimo in cui le piante non avevano ancora il perfezionato processo di gestione di consumo notturno delle loro riserve, e arrivavano all’alba morte? Un tempo antichissimo in cui gli uccelli migratori ancora imperfetti piombavano stremati al suolo prima di giungere in vista dei loro luoghi di riproduzione? In cui le acacie non allarmavano le compagne col segnale chimico? Com’è che si sono comunque riprodotte e non si sono invece estinti, gli uni e le altre?

Naturalmente non mancheranno di rispondere. Per esempio, che i migratori non erano allora «migratori», ed hanno evoluto la faticosa e macchinosa caratteristica perché presentava un «vantaggio evolutivo»... anche se è difficile immaginare quale vantaggio rappresenti.

È un fenomeno di grande interesse evolutivo constatare come il pensiero evoluzionista veda conferme proprio nei fenomeni che dovrebbero suonare invece come smentite del dogma.

Ancora recentemente ho sentito ripetere, in una trasmissione di divulgazione scientifica, che tutti gli esseri viventi – dal protozoo all’uomo, passando per rettili, dinosauri, uccelli, insetti, peperoncini ed acacie – sono nati da un «unico progenitore»; cosa secondo loro comprovata dalla presenza, in tutti i viventi, della stessa struttura biochimica e generativa, il DNA: stessa doppia elica di desossiribosio ( uno zucchero) tenuta insieme da sole quattro basi azotate (Adenina, Guanina, Citosina e Timina); solo quattro, ed uguali in tutti gli esseri viventi. Ce le ha passate, assicurano, il nostro «antenato comune», perché altrimenti avremmo molte purine e nucleotidi chimicamente diversissimi, ciascuno nel suo DNA distinto.

Chissà perché, io tendo a vedere in questo fatto – effettivamente clamoroso – l’azione altamente ingegnosa di una Intelligenza progettuale; una geniale produzione di inverosimili, fantastiche forme viventi con la massima «economia di mezzi», e risolvendo genialmente il grande problema della natura. Non solo ha fatto eccezionali macchine energetiche, splendidi predatori, coloratissimi di penne, adatti ad ogni ambiente anche proibitivo, con calcolatori, meravigliosi apparati riproduttivi, organi di senso e percettori inclusi; ma le ha fatte in modo che siano tutte nutrimento le une per le altre.

Per questo siamo tutti fatti di sole quattro basi nucleotidiche, precursori delle proteine: per renderci assimilabili, digeribili a vicenda. Che la nostra morte sia cibo, e dunque la vita per gli altri convitati nella gran cena della natura materiale, quando abbiamo esaurito le nostre funzioni vitali e dobbiamo lasciare il posto ai successori. A me sembra molto intelligente, amoroso e non privo di humour un Progettista che ha pensato anche a questo: nessuna industria umana ha saputo fare computer di cioccolato, televisori di marzapane, auto eduli ed aerei da sbocconcellare come panini imbottiti. Sicché non abbiamo risolto il grande problema dei rifiuti; il Progettista, sì, e ciò «fin dal Principio».



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