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Beppe Grillo, una vecchia storia italiana
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Beppe Grillo alla Bildt: «sono contento se la Germania ci invade». Angela Merkel: «I Paesi dell’Eurozona devono prepararsi a cedere la propria sovranità, se vogliono davvero superare la crisi dei debiti e riacquistare la fiducia degli investitori esteri».

Ciò mi ha ricordato qualcosa...

Federico I Hohenstaufen, detto Barbarossa, designato dai grandi elettori Imperatore del Sacro Romano Impero nella Dieta di Costanza del 1153, scese in Italia con l’esercito. Conscio dell’alta, sacra responsabilità che gli conferiva l’investitura, e animato dal più alto ideale dovere di ricostituire l’impero universale, veniva a reclamare i suoi diritti imperiali dai Comuni italiani, che li avevano via via erosi, per giunta arricchendosi. Convocò a Roncaglia i rappresentanti dei Comuni del Nord e comunicò il nuovo ordine europeo: i governanti locali non dovevano più essere eletti dalle cittadinanze, bensì nominati dall’imperatore – o almeno affiancati da funzionari imperiali di sua fiducia. Era loro vietato batter moneta, imporre tasse e dazi, e nominare giudici: si trattava infatti di iura regalia (detti anche regalìe) che attenevano esclusivamente all’imperatore. Anche la difesa, sacro compito imperiale, doveva tornare al Sacro Imperatore: consegnassero dunque i Comuni, i castelli e le fortezze che avevano edificato per le loro guerricciole comunali, dove sarebbero state insediate guarnigioni del sovrano.

Barbarossa non contemplava negoziato, compromessi o accordi, né flessibilità politica. Perché avrebbe dovuto trattare? Era per il bene terreno e soprannaturale dei sudditi che obbedissero all’impero, e quel che reclamava erano, puramente e semplicemente, diritti della Corona.

A questo scopo, interpellati, i dottori della scuola giuridica bolognese (i saggi, i tecnici) avevano effettivamente ritrovato nei vecchi codici che tali diritti spettavano, inequivocabilmente, a lui. Anzi avevano stilato una minuziosa Constitutio de Regalibus, costituzione sulle prerogative regali, che gli dava ragione. Cosa avrebbe dovuto negoziare? Lui aveva ragione, loro torto: era questa la netta, limpida visione politica e morale del germanico Hohenstaufen detto Barbarossa.

Si opponeva dall’altra parte che da molti decenni le città padane, abbandonate dall’impero, avevano dovuto governarsi da sé, da sé riscuotere imposte e provvedere alla difesa, e battere moneta? Ma la Constitutio de Regalibus ribadiva il principio fondamentale che i diritti dell’Imperatore non potevano decadere per desuetudine, né essere invalidati da consuetudine contraria. Non c’era per loro che una via: rinunciare alla propria sovranità – del tutto abusiva – e vivere poi felici sotto il generoso e benefico impero. Era anche il loro bene.

Naturalmente, come sarebbe avvenuto sempre anche dopo, immediatamente gli italiani si dilaniarono e tradirono a vicenda, dando sfogo ai loro odi municipali. Di fatto, erano stati i Comuni di Lodi, Pavia e Como ad inviare delegati a Costanza per implorare l’imperatore di liberarli di Milano, prepotente concorrente, che limitava la loro «crescita»; l’idea di impero universale parve loro la via perfetta per realizzare i loro particolarismi. Di colpo, si sentirono «imperiali» e parteciparono con gioia alle distruzioni, e con soldi a finanziare, le guerre del Barbarossa contro i comuni renitenti. Rase al suolo Asti e Chieri, e le restituì (almeno, i resti fumanti) al marchese del Monferrato, suo vassallo fedele, a cui s’erano ribellate. Distrusse dalle fondamenta Tortona, alleata di Milano, disperdendone gli abitanti.

La guerra continuò per quasi un decennio, devastando città e campagne, rovinando raccolti, portando miseria dov’era stata prosperità, morte fame. Il conflitto fu condito di gustosi episodi di italianità: nel 1161 ad esempio i cittadini di Cremona raccolsero spontaneamente ben 11 mila marchi d’argento con cui pagarono l’imperatore, perché li aiutasse a liberarsi di Crema, che a 40 chilometri di distanza, ne disturbava gli affari. Così finanziato, l’imperatore pose l’assedio a Crema; non senza il fervido aiuto dei cremonesi, che quando catturavano dei prigionieri cremaschi, troncavano loro le teste e le lanciavano di là dalle mura; i cremaschi dal canto loro squartavano, dalle mura, i prigionieri, onde gli assedianti potessero assistere allo scempio.

All’assedio di Milano parteciparono tutte e quasi soltanto le città italiane «imperiali», dato che le truppe germaniche, finito il loro periodo di ferma feudale, se ne erano tornate a casa. Vercellesi, comaschi, novaresi e pavesi si prodigarono in focosi attacchi, ancorché sempre respinti. Furono le truppe imperiali rimaste a Barbarossa a sopraffare i milanesi di Porta Romana e Porta Orientale (la resistenza avveniva per rioni), conquistando il Carroccio, ammazzandone i buoi e prendendo lo stendardo comunale; l’intervento delle milizie presidianti le altre porte scongiurò in extremis la penetrazione, chiuse la falla e contrattaccò così valorosamente, da costringere l’imperatore ad abbandonare a Milano numerosi prigionieri e un ragguardevole bottino, e a ritirarsi: nella fedelissima Como dapprima, e poi nella ancor più fedele Pavia, più vicina alla città assediata. La primavera gli portò truppe fresche dalla Germania, e l’assedio divenne feroce. Una volta, il Barbarossa selezionò sei prigionieri milanesi, a cinque fece cavare gli occhi, al sesto ne lasciò uno (ma in compenso fece troncare il naso) perché potesse guidare gli altri e portare a Milano l’ambasciata imperiale: Arrendetevi! Siete circondati!

A Milano, fra le altre disgrazie, un incendio aveva consumato un terzo dell’abitato, allora di legno. La fame, la superiorità numerica delle forze nemiche e l’impossibilità di avere soccorsi, consigliò il governo cittadino a chiedere la resa. Barbarossa pretese una completa soggezione. I consoli e notabili milanesi dovettero andare a Lodi per consegnare all’imperatore le chiavi della città; in ginocchio dovettero pentirsi pubblicamente di aver preso le armi contra Romanorum imperatorem, dominum nostrum naturalem. Dovettero consegnare le 36 bandiere dei rioni e il Carroccio, simbolo della libertà cittadina; il gonfalone fu gettato a terra.

Implorarono pietà, ma invano; il Barbarossa – su un trono fastoso, circondato dai suoi armati e duchi con le spade sguainate – rimase con la faccia di pietra come scrisse un testimone oculare (faciem suam firmavit ut petram): dopotutto, agiva in vista dell’idea di impero universale, il diritto era dalla sua – tenne presso di sé 4 mila ostaggi milanesi d’alto rango, e comandò agli altri di smantellare le mura difensive e colmare i fossati sul perimetro della città disfatta.


I milanesi implorano il Barbarossa


Come scrisse lo storico Bonvesin della Riva, i milanesi «costretti alla penuria di viveri e fiduciosi che la città non sarebbe stata distrutta dall’imperatore, i cittadini consegnarono sé e la loro città a Dio e all’imperatore». Invece fu proprio quel che avvenne. Il Barbarossa ordinò all’intera popolazione milanese di lasciare la città e le loro case entro otto giorni. L’avevano suggerito le città italiane: avendo comprato con chili d’oro ed argento l’ordine imperiale di cancellare dalle carte geografiche Milano, non si contentavano di meno. I milanesi avevano già mostrato più volte di poter rialzare il capo e riprendere l’antica potenza. Barbarossa lasciò che fossero i cremonesi, i comaschi, lodigiani e pavesi a compiere la cancellazione – erano loro che avevano pagato per questo. Costoro vi si dedicarono con gioia e passione; casa per casa, saccheggiarono violentarono, pestarono, uccisero minuziosamente. Si calcola che solo una casa su cinquanta restasse in piedi. L’imperatore, come già avevano fatto i Romani su Cartagine debellata, fece spargere sale e passare l’aratro sulla terra che era stata Milano, onde restasse per sempre sterile. E cominciò a datare i suoi documenti ufficiali non più dalla nascita di Cristo, bensì «dalla distruzione di Milano», 11 marzo 1162.

L’impero universale europeo regnava finalmente: su rovine fumanti, case spopolate, campagne devastate. In breve, anche le città favorite dal Barbarossa e messesi al suo servizio cominciarono a trovare troppo gravose le esazioni dell’impero, per le loro tasche depauperate dal conflitto.

Una cronaca del tempo racconta la progressiva presa di coscienza: «È un fatto che i Lombardi, che godevano tra le altre nazioni di un singolare grado di libertà, per invidia nei confronti di Milano, rovinarono se stessi come avevano contribuito a rovinare Milano e si assoggettarono miseramente alla servitù nei confronti dei Tedeschi». (Factum est quod Lombardi, qui inter alias nationes libertatis singularitate gaudebant, pro Mediolani invidia cum Mediolano pariter corruerunt, et se Theutonicorum servitute misere subdiderunt).

Papa Adriano IV
  Papa Adriano IV
Ma sarebbero stati incapaci di costituire fra loro un’alleanza, superando gli odi e il fossato di diffidenza che avevano costruito fra loro, se non ci si fosse messo il Pontefice. Papa Adriano IV scomunicò il Barbarossa, liberò tutti i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà verso l’imperatore, e organizzò il primo nucleo di quella che sarebbe stata la Lega Lombarda. Essa non nacque a Pontida come si crede, bensì ad Anagni in Ciociaria: dove nell’estate del 1159 il Papa radunò il primo coagulo della Lega – i delegati di Milano, Brescia, Crema, Piacenza e Mantova – e li organizzò per un’offensiva coordinata ed ordinata, onde rafforzare la forza spirituale della scomunica con la forza delle armi sul terreno. Undici giorni dopo, papa Adriano moriva, ma la sua bandiera fu raccolta dal successore Alessandro III, che diede alla Lega Lombarda l’investitura ufficiale e sacrale, con apposita bolla pontificia; e alla coalizione si aggiunsero Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, e da ultimo persino Pavia, l’irriducibile anti-milanese. Ci sarebbero voluti altri sedici anni, ma infine si giunse alla battaglia di Legnano che sconfisse definitivamente il Barbarossa. Sotto il Carroccio e il vessillo crociato milanese, combatté un forte contingente di laziali, inviati dal Papa.

È interessante sapere, credo, che papa Adriano IV, l’organizzatore primo dell’autodifesa de Nord-Italia, non era un italiano: fu l’unico papa inglese della storia, e al secolo si chiamava Nicholas Breakespeare.


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