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Vogliono l’ultimo sacrificio umano
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Forse non c’è prova più definitiva del fatto che viviamo sotto un regime inumano che ha tutti i caratteri che la storia, la propaganda e la fantasia narrativa attribuiscono al nazismo, del processo a  John Demjanjuk apertosi in Germania.

Un vecchio di 89 anni, ucraino di nascita, cittadino americano fino a quando è stato privato della cittadinanza, oggi reso apolide, ed ora sottoposto a giudici tedeschi. Da un tribunale straniero ed estraneo. In base a quale norma del diritto? Non vale più l’elemento giuridico fondamentale europeo, che un imputato va giudicato dal suo giudice naturale. Un vecchio può essere deportato da una parte all’altra del mondo così, e ai media non sembra orrendo.

Viviamo sotto un regime più spaventoso e spietato del Reich. Sotto un regime che allestisce «tribunali speciali» dove gli pare, e a nessuno pare odioso.

I giornali non hanno il minimo senso di pietà, anzi partecipano al linciaggio con voluttà – come fanno sempre quando ne hanno il permesso: «Il torturatore Demjanjuk in aula – L’ira dei sopravvissuti dell’olocausto», titola il Corriere: ha fatto già il processo e pronunciato la condanna, tanto si sa che un’assoluzione è comunque fuori questione, nei tribunali del nuovo regime spaventoso. «Alla sbarra il nazista Demjanjuk, processo all’ultimo criminale nazista», gongola La Repubblica.

Danno spazio e compassione ai pianti e alle rabbie dei «sopravvissuti», i media. Ma non trovano lo spazio per informare che John Demjanjuk è stato già processato trent’anni orsono in Israele, sotto la stessa accusa di essere il Boia di Treblinka (o di Sobibor: col tempo, hanno cambiato un po’ l’accusa) ed è stato assolto. Assolto in Israele.

Meccanico della Ford in pensione, Demjanjuk fu estradato dagli USA su richiesta di Israele nel 1983 per essere giudicato dagli ebrei. Nel 1986 cominciò il processo che doveva durare fino all’aprile 1988.

Demjanjuk_1.jpgAnche allora una folla di «sopravvissuti dell’olocausto» volle testimoniare contro di lui. Tra questi, la testimonianza più toccante fu quella di Elijahu Rosenberg, reduce da Treblinka, che riconobbe in Demjanjuk il sadico guardiano detto Ivan il Terribile, e puntò il dito tremante sull’imputato. La difesa produsse un documento, per l’esattezza una dichiarazione giurata rilasciata da Rosenberg, in cui Rosenberg attestatva che «Ivan  il Terribile», l’operatore delle camere a gas, era stato ucciso dai prigionieri a colpi di badile durante la rivolta avvenuta a Treblinka nel 1943.

Quale delle due testimonianze sotto giuramento era vera? Quale era «narrativa»?

Altre deposizioni giurate furono prodotte, tutte confermanti che il vero Ivan il Terribile era stato ucciso nel ‘43. Fra questi un tale Avraham Goldfarb, nel frattempo defunto. Al suo posto chiese di testimoniare Ytzak Arada, il direttore del museo Yad Vashem: il quale testimoniò che il defunto Goldfarb non aveva visto coi propri occhi, nel ‘43, il cadavere di Ivan. Testimonianza  smentita di un testimone ormai non più in grado di testimoniare, che fu ritenuta per buona. Molti altri sopravvissuti non furono in grado di riconoscere Ivan come Demjanjuk in una serie di foto loro presentate, benchè la foto di Demjanjuk fosse di formato più grande e perfettamente a fuoco, e le altre sfocate.

L’accusa trasse fuori allora la prova regina: un documento d’identità rilasciato dalle SS a Travniki un campo di addestramento di collaborazionisti da usare come aguzzini, con la foto di Demjanjuk giovane, indicato come guardiano, e le firme di ufficiali nazisti.

I difensori hanno ritenuto di aver comprovato che questo è un documeno falso, fabbricato dai sovietici per scopi persecutori contro la comunità ucraina americana, fortemente anticomunista. L’accusa ritenne questo documento autentico, la prova che Demjanjuk – il quale sostiene di aver accettato di arruolarsi nell’Armata Vlasov ed aver combattuto i sovietici in questo esercito anticomunista – s’era invece arruolato con le SS come aguzzino.



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Che sia un falso è stato accertato tempo fa negli Stati Uniti: guardando i dettagli evidenziati si nota che la foto con relativa timbratura è stata aggiunta in un secondo momento




Demjanjuk fu condannato, ed aspettò per cinque anni – cinque anni – l’esecuzione per impiccagione in Israele, in cella d’isolamento, in attesa del processo di appello. Nel 1993 la Corte Suprema israeliana rovesciò il verdetto. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, erano saltate fuori testimonianze scritte e giurate di due altri guardiani di Treblinka, che identificavano Ivan il Terribile come «Ivan Marchenko» e non Demjanjuk; e soprattutto, era risultato che le autorità USA che avevano concesso l’estradizione dell’operaio, avevano sottratto queste testimonianze a discarico. Anche queste testimonianze scritte venivano dagli archivi dell’URSS; erano deposizioni raccolte dai  sovietici – possiamo immaginare con quali metodi – nella loro caccia agli ucraini che erano passati dalla parte dei nazisti; tutti questi «testimoni» erano stati anche «liquidati» dal KGB, sicchè non potevano confermare nè smentire.

Persino la corte suprema giudaica ha dovuto ammettere che l’identificazione di Demjanjuk con «Ivan il Terribile» era dubbia, e resa più dubbia dai nuovi documenti (che la giustizia USA aveva sottratto): «Ivan Demjanjuk viene da noi rilasciato», si legge nella sentenza, «a causa del dubbio... Questo è ciò che devono fare giudici che non possono scrutare i cuori e le menti, ma solo ciò che i loro occhi vedono e leggono».

La corte respinse ulteriori «prove» che furono portate in un secondo tempo da «sopravvissuti» che volevano ad ogni costo la morte dell’operaio, sulla base del principio che non si può giudicare un uomo due volte per la stessa accusa; «prove» ulteriori di altre colpe furono portate per far riaprire il processo: Demjanjuk era il boia di Sobibor. La Corte rifiutò, sulla base del principio che Demjanjuk era stato estradato per rispondere degli atti attribuiti ad «Ivan il Terribile» a Treblinka, non per accuse alternative. In qualche modo, i principii del diritto erano ancora riconosciuti validi (1).

Rilasciato, Demjanjuk tornò in USA. Nel 1993 il tribunale d’appello americano riconobbe che l’uomo era stato vittima di «frode giudiziaria». Era un atto d’accusa contro l’Office of Special Investigation, il corpo pseudo-giudiziario speciale creato per dare la caccia ai sospetti ex-nazisti e colpevoli dell’olocausto: il tribunale regolare sancì che l’Office of Special Investigation aveva nascosto gli indizi a discarico, commettendo con ciò frode giudiziaria.



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Demjanjuk nel 1993



Ma lo spaventoso regime sotto cui viviamo non rinuncia mai a un sacrificio umano. Nel 1999 il ministero della Giustizia USA denuncia un’altra volta Demjanjuk: non per essere stato «Ivan il Terribile» a Treblinka (la vecchia accusa non viene nemmeno menzionata) bensì per essere stato un guardiano nei campi di Sobibor e Majdanek in Polonia, e per giunta a Flossenburg. Si afferma che, comunque, Demjanjuk era un membro di una unità guidata da SS che «aveva preso parte alla cattura di due milioni di ebrei in Polonia».

Nel 2004, l’operaio viene di nuovo privato della cittadinanza americana; nel 2005, un decreto emesso dal servizio immigrazione ordina che Demjanjuk, ormai apolide, sia deportato «in Germania, Polonia o Ucraina».

Interessante il cavillo escogitato: Demjanjuk non viene espulso con l’accusa di essere un criminale nazista, ma di aver mentito nel compilare la sua richiesta di visto d’entrata negli Stati Uniti nel 1945, quando si consegnò agli americani in Baviera.

Chiunque abbia visitato gli USA ha dovuto compilare questa «visa application», e rispondere alla domanda di dove si trovasse e cosa facesse dal 1939 al 1945. Tutti avranno fatto dello spirito su questa apparentemente ingenua richiesta: chi scriverebbe «sono stato una SS ed ho servito ad Auschwitz»? Ma non c’è nulla di ingenuo: una dichiarazione su quel documento, se ritenuta falsa,  configura un reato grave in America. Uno spergiuro alle autorità.

Demjanjuk ammise già dal 1981 di aver mentito nella sua «application». Perchè?

L’ha spiegato: se avessi scritto la verità, ossia che ero un soldato dell’Armata Rossa, ero stato catturato dai tedeschi, ed avevo poi accettato da loro di farmi arruolare nell’Armata Vlasov anticomunista, gli americani mi avrebbero «rimpatriato», ossia consegnato agli aguzzini di Stalin, come avvenne realmente per centinaia di migliaia di uomini in quella che gli Alleati chiamarono «Operation Keelhaul». Tutti questi rimpatriati (fra cui almeno 300 mila cosacchi con le loro famiglie) furono immediatemente eliminati per ordine di Stalin. Demjanjuk s’inventò dunque di essere stato prigioniero di guerra e di aver lavorato sotto questa condizione in una fattoria in Polonia, per scampare la vita. Si era fatto anche togliere il tatuaggio sotto il braccio col suo gruppo sanguigno, che era di rigore per le Waffen SS dell’Est europeo.

Questa abrasione è oggi un motivo d’accusa contro di lui: voleva nascondere il suo passato. Già: di essere stato un fuscello della immane, inenarrabile, tragedia est-europea in cui milioni di ucraini, polacchi, russi e bielorussi prigionieri dovettero scegliere sotto quale dei due totalitarismi restare, e scelsero quello che non li ammazzava subito. L’Armata Vlasov era fatta di soldati dell’Armata Rossa che, fatti prigionieri dai tedeschi, avevano accettato di combattere contro i sovietici al comando del generale russo Vlasov; era chiamata «l’armata dei dannati», perchè il loro destino era comunque segnato, sia che fossero ricaduti in mano di Stalin, sia che fossero morti combattendo per un Reich a cui non potevano che mettersi al servizio.

Patrick Buchanan, che ha seguito il processo a Demjanjuk per anni, è sicuro della innocenza dell’imputato. Nel 2005 ha scritto un memoriale contro la nuova deportazione di Demjanjuk, sostenendo che le testimonianze contro di lui sono false (2). E ritiene di averne dato la prova.

La prova è data dal 1978, quando l’Office for Special Investigation decretò l’espulsione di un altro ucraino-americano, Fedor Fedorenko, sulla base di testimonianze degli stessi sopravvissuti che accusano Demjanjuk. Al contrario di Demjanjuk, Fedorenko ammise di essere stato a Travniki e a Treblinka, e perciò fu consegnato ai sovietici nel 1978 (e sparì nel Gulag). Senza questa confessione, i giudici della Florida non avrebbero potuto farlo; perchè, ammisero, le testimonianze d’accusa dei sopravvissuti risultavano «piene di conflitti e di incertezze, e dunque non conclusive».

Sono gli stessi che accusano Demjanjuk, dice Buchanan, e gli rovinano la vita da vent’anni.

Fra gli altri, il testimone Epstein. Davanti ai giudici della Florida, Epstein asserì di aver personalmente assistito ad un asssassinio commesso a sangue freddo da Fedorenhko, «una circostanza che non aveva mai menzionato nelle sue precedenti deposizioni. Sottoposto a contraddittorio (cross examination), Esptein ha cominciato a contraddirsi e, com’ebbe a notare il giudice Norman Roettger, a ‘contorcersi e ad agitarsi sul banco dei tetsimoni’. Un altro testimone che accusa Demjanjuk, Josef Czarny, si dimostrò altrettanto dubbio. Nel processo a Fedorenko, il giudice lo ha descritto come ‘una figura istrionica, il meno credibile dei testimoni sopravvissuti’. Un terzo testimone, Turowski, richiesto di identificare il guardiano del lager Fedorenko, puntò il dito contro un uomo del pubblico, di mezza età ...».

Conclude Buchanan: «Questi sono gli uomini la cui testimonianza ha distrutto la vita di Demjanuk e da cui dipende la sua sopravvivenza. Hanno smentito se stessi sotto giuramento. Si sono smentiti a vicenda. Sono stati smentiti da testimonianze di terze parti. Sono stati smentiti da testimonianze di prima mano provenienti da Treblinka, e rilasciate nell’immediato della distruzione del lager nel 1943. Essi ricordano molto quegli 11 testimoni sopravvissuti che deposero sotto giuramento - e falsamente - di riconoscere Frank Walus come il ‘Macellaio di Kielce’, mentre prove inconfutabili dimostravano che Walus era un prigioniero che lavorava a quel tempo in una fattoria, che era troppo giovane, di statura troppo bassa, della nazionalità sbagliata (polacco) per appartenere alla elite della Gestapo. E nessuna sanzione morale nè legale è stata imposta a questi 11 cosiddetti testimoni, che hanno con le loro falsità devastato e ridotto alla rovina un innocente americano».

Buchanan ha qualcosa da dire anche sulle otto fotografie preparate dal dipartimento della Giustizia USA e dalle quali i sopravvissuti seppero indicare Demjanjuk e Fedorenko.

«Una copia di quella preparzione fotografica è davanti ai miei occhi in questo momento. Le foto di Demjanjuk e Fedorenko sono di misura doppia rispetto alle altre; sono chiare, mentre le altre sono sfocate o annebbiate. Il tribunale della Florida a suo tempo dichiarò che questa esposizione fotografica era ‘intollerabilmente suggestiva’ e ‘tale da non poter essere semplicemente ammessa in base al diritto americano’».

Ma intanto, il diritto è cambiato abbastanza, sì da far sottoporre all’ennesimo processo un apolide novantenne sulla base di simili testimonianze. Leggo che anche nel nuovo processo la prova regina è la supposta carta d’identità nazista che fu esibita nel 1986 in Israele, opera dei servizi sovietici.  Già da decenni dovrebbe essere stato dimostrato che la foto con relativa timbratura è stata aggiunta in un secondo momento. Ma varranno le testimonianze dei «sopravvissuti» di cui sopra, i quali nel frattempo sono deceduti.

Viviamo sotto un regime spaventoso.




1) Si veda la voce «John Demjanjuk» su Wikipedia. Evidentemente scritta da servizi e contributors  israeliani, la voce non riesce a dar conto dell’assoluzione di Demjanjuk da parte della Corte suprema. Si arrampica sugli specchi.
2) Pat Buchanan  ha pubblicato questa difesa sulla rivista «Ucrainan Weekly» il 30 dicembre 2005.
Il sito originale dell’articolo (http://ukar.org/buryan.html) è stato molto tempisticamente cancellato. Parti dello scritto di Buchanan sono ancora reperibili (per quanto?) nel sito
http://www.whitecivilrights.com/?p=314. Buchanan giunge a dubitare che un «Ivan il Terribile» di Treblinka sia mai esistito, che esso sia un prodotto della «narrativa» sull’olocausto, proliferata nei decenni di sempre nuovi particolari. «Did ‘Ivan the Terrible’ ever exist? In my judgement, ‘Ivan the Terrible’ is probably a composite of Ivan, the gas chamber operator mentioned by Wiernik, the ‘enormous brute’, the ’sadistic giant’, of Jean-Francois Cohen-Steiner’s ‘Treblinka’, (1966), the huge mesomorph that Polish villagers remember - a monster of a man who wenched and drank in their village near Treblinka, and who either died in the August uprising or perished in the Balkans with other Nazi survivors of the death camp. The other half of the composite is, I believe, a German, a Nazi, a middle-aged veteran of Hitler’s ‘euthanasia’ program, a man Alexander Donat describes as a ‘hot-tempered, brutal individual and ruthless careerist’, seen ‘running through the camps brandishing his whip and his gun, shouting and cursing’, a criminal one SS historian described as a ‘conceited ogre’. His name was Christian Wirth, but he was known to inmates by a nickname - ‘Christian the Terrible’. Wirth was killed by partisans near Trieste on May 26, 1944 (...). Moscow had to be virtually dragooned into producing the only piece of documentary evidence against Demjanjuk: An I.D. card, the authenticity of which has yet to be fully established. Confronted by competent counsel in Ft. Lauderdale - as they were not in Cleveland - the Demjanjuk witnesses collapsed into a cacophony of contradictions. The Polish government is preventing Demjanjuk’s counsel from visiting villagers near Treblinka whose testimony - that the guard ‘Ivan’ was a man twice Demjanjuk’s age in 1943 and half again his size - could exonerate the accused. And the Israelis held Demjanjuk six months before lodging charges. Some airtight case».


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