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Obama umiliato a Copenhagen
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Al vertice sul clima a Copenhagen, i media hanno parlato di un successo, almeno personale, di Barak Obama. L’imbeccata è (come sempre) arrivata dagli USA. Ciò che i giornali dovevano scrivere è stato dettato dal senatore democratico John Kerry: «E’ un poderoso segnale vedere il presidente Obama, il premier cinese Wen, il premier indiano Singh e il presidente sudafricano Zuma mostrare di essere in sintonia mentale. Questi sono i quattro cavalieri della soluzione del problema del mutamento del clima».

Obbedienti, i media hanno raccontato come Obama abbia «forzato la mano» ai suddetti leader, presentandosi non invitato ad una loro riunione: o presunta manifestazione di energia, intraprendenza a «comando».

Il Washington Times dà una versione diversa dell’episodio, e per nulla lusinghiera. Traduciamo:

«Dopo l’incontro bilaterale di Obama con il premier cinese Wen Jabao, il cinese ha cominciato a mandare funzionari di minor livello a partecipare a meeting multilaterali. Un frustrato mister Obama ha dunque chiesto con insistenza un altro colloquio bilaterale, che è stato fissato per venerdì alle ore 18.15. Ma altri capo dei Paesi detti BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina) si sono rivelati meno facili da impegnare. La delegazione di Obama ha cercato di fissare un incontro con il primo ministro indiano Manmohan Singh, e le è stato risposto che Singh era già all’aeroporto, pronto a partire. Anche il presidente brasiliano Lula da Silva era introvabile. Il presidente sudafricano Jacob Zuma, interpellato, ha risposto che non aveva senso riunirsi senza India e Brasile. Intanto, i cinesi hanno chiesto di rimandare l’incontro bilaterale alle 19, tre quarti d’ora più tardi».

«Ci hanno detto che uno era all’aeroporto, un altro che le delegazioni erano sparse in giro, un altro ha escluso che i BASIC  avevano idea di incontrarsi”, racconta un alto funzionario americano. Sicchè immaginate la sorpresa del presidente Obama quando, presentatosi per l’incontro bilaterale (col cinese), scopre che tutti i quattro leader sono in una stanza, già impegnati in una profonda discussione. “C’è posto per me?”, ha chiesto con un tono di voce insolitamente tagliente».

«Non abbiamo fatto irruzione in un incontro, andavamo al nostro incontro bilaterale”, ha poi spiegato sulla difensiva un attachè di Obama, ma ciò non gli ha impedito di entrare dove non era invitato».

«Al tavolo non c’era una sedia per Obama, sicchè ha annunciato che si sarebbe seduto “vicino al mio amico Lula”, la cui delegazione si è dovuta rumorosamente restringere per far posto al presidente e al segretario di Stato Hillary Rodham Clinton (…). “Dopo l’arrivo di Obama, il gruppo BASIC era praticamente in ostaggio. Avevano tentato educatamente di tenerlo a distanza, ma dal momento che era entrato, il decoro richiedeva di far buon viso a cattivo gioco…”».

Il resto è noto. A Copenhagen non c’è stato alcun accordo, ma solo tre paginette di banalità benintenzionate. Che Obama ha definito un successo: «E’ la prima volta nella storia che le economie più importanti sono d’accordo nell’accettare le loro responsabilità ed agire per affrontare il cambiamento climatico», ha esalato, prima di imbarcarsi in fretta perché su Washington era annunciata una tempesta di gelo.

Il negoziatore cinese Su Wei ha voluto puntualizzare che «non c’è alcun documento concordato nè formalmente adottato». Lula da Silva, il lunedì seguente, ha attaccato alla radio brasiliana la posizione americana.

Da questo fatto, si possono capire alcune cose: che il tentativo di Obama di saldare un G-2 (su cui l’ideologia terminale americana spera per mantenere l’egemonia USA condividendolo con uno solo, il suo maggiore creditore, escludendo gli altri) è fallita ridicolmente. Dietro le sue spalle s’é riunito un G-5 di potenze economiche emergenti (il BASIC) che hanno fatto di tutto per tener fuori l’americano, anche ricorrendo, per non incontrarlo, a scuse che si usano per un parente povero e seccatore: «Mister Singh è già partito», «Mister Lula è fuori stanza», eccetera. E quando Obama si è auto-invitato, non c’era nemmeno uno strapuntino pronto per lui.

La conclusione del Washington Times è una pugnalata:

«Sì, mister Obama ha fatto la storia a Copenhagen, ma non nel senso che si aspettava. Quando dei governanti internazionali si prendono tanta briga per evitare di incontrare il presidente degli Stati Uniti questo la dice lunga sul punto a cui è arrivato il potere e il prestigio dell’America, Il Secolo Americano è finito».



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