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USA: fra secessionismi e dittatura
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C’è voluto un giornale australiano, The Sidney Morning Herald, per  segnalare «la rabbia folle degli americani»: colpita dalla crisi e dagli scandali finanziari, con la disoccupazione al 17% e la prospettiva di dover pagare con le tasse i salvataggi delle superbanche d’affari, l’opinione pubblica di base ribolle contro il governo centrale e Wall Street, gli immigrati, il sistema sanitario nazionale (malamente) instaurato da Obama, le lobby abortiste, le femministe, e quelle dei gay... (Paranoia grips US, prompting fears of another Oklahoma)

Il tono della collera è inequivocabile: «Siamo nel pieno delle più significative ribellioni populiste di destra della storia americana», dice al giornale Chip Berlet, analista di una fondazione di sinistra, il Political Research Associates. Non è solo la galassia del Tea Party, che applaude indiscriminatamante Sarah Palin o Ron Paul o i telepredicatori più forsennatamente filo-israeliani,  chiedendo «ancora meno Stato» e ancora più mercato, e magari più guerre (per salvare «l’onore della patria» in pericolo in Afghanistan e Iraq), formato da bianchi di classe media che hanno votato repubblicano e ne sono rabbiosamente delusi, e sicuramente faranno emergere alle elezioni di medio termine di novembre candidati simili a loro. Ci sono anche i gruppuscoli razzisti, suprematisti, survivalisti bianchi che rinascono come funghi: 360 di questi gruppi, sono nati solo nel 2009, il numero totale è di oltre 500, e fra questi ci sono 127 milizie armate, secondo il Southern Poverty Law Centre, un’organizzazione per i diritti civili.

L’ex presidente Bill Clinton, apparentemente più conscio di Obama (che ci tiene ad apparire «cool», tranquillo e distaccato, secondo alcuni fin troppo) dell’umore popolare, ha paragonato questo umore a quello che portò all’attentato di Oklahoma City, operato da suprematisti bianchi, all’inizio della sua amministrazione: «Allora erano i talk show delle radio locali estreme ad attizzare il clima, oggi è internet».

L’aria è tale che Clinton teme apertamente per la vita di Obama.

«Un presidente afro-americano, figlio di un keniota, la cui madre ha sposato in seconde nozze un musulmano», Obama «simbolizza la sempre più pronunciata diversità dell’America». Ma, ha aggiunto l’ex presidente, «è come se Obama simbolizzasse la perdita di controllo, di certezza e di chiarezza di cui un sacco di gente ha bisogno per sentirsi bene psichicamente».

Ansietà, risentimento, paranoia che – nella loro confusionaria, anzi contraddittoria pluralità di bersagli – configurano la più grande crisi d’identità collettiva mai vissuta dagli Stati Uniti. E’ la perdita della certezza ideologica di essere «la città luminosa sulla collina» evocata a suo tempo da Reagan e da Bush figlio, l’oscuro sentimento di non essere più nè la superpotenza nè «l’impero del Bene», di aver perso porzioni immense della propria storica «liberty», politica e individuale a vantaggio di lobby che eterodirigono la nazione.

«Sento la gente che chiama le radio», dice Noam Chomsky, l’antico guru della sinistra americana, «e mi spavento. E’ gente che si chiede: che cosa mi sta succedendo? Ho fatto tutto bene. Lavoro duro per la mia famiglia, Sono un buon cristiano. Credo nei valori della nazione, e la mia vita sta crollando. Ho una pistola...». (Noam Chomsky Has ‘Never Seen Anything Like This’)

«Non ho mai visto nulla di simile», aggiunge Chomsky: «Sono abbastanza vecchio da ricordare gli anni ‘30. Tutti i membri della mia famiglia erano disoccupati, le condizioni erano più disperate di oggi, ma c’era speranza. I sindacati si organizzavano. Nessuno ama ricordarlo, ma c’era un partito comunista che era all’avanguardia nelle lotte per il lavoro e per i diritti civili».

Oggi invece, per Chomsky, l’umore collettivo comporta «odio per le istituzioni senza alcuna organizzazione costruttiva», il clima della repubblica di Weimar.

Il guru della sinistra storica paventa una forma emergente di «fascismo» o nazismo. E giunge a rallegrarsi che «non sia sorta alcuna figura di leader carismatico e onesto (sic). Ogni figura carismatica oggi è così palesemente un imbroglione (a crook) da autodistruggersi, come i telepredicatori. Ma se sorge una figura carismatica e insieme onesta... ci verrà detto che dobbiamo difendere l’onore della nazione, che lui ha una risposta, che lui sa indicare il nemico... Gli USA possono diventare molto più pericolosi della Germania».

Questo è certo. Ma per quanto l’analisi di Chomsky non manchi di acutezza, la tendenza della rabbia, del risentimento e della paranoia americane in corso sembra meno puntare verso una dittatura nazionalizzatrice delle masse (fascismo) che verso fenomeni di disgregazione e particolarismo.

Per una società educata all’individualismo e alla critica allo statalismo, non esiste nemmeno il linguaggio ideologico per esprimere il proprio malessere e guidarlo verso scopi collettivi di senso «fascista». Ciò che i malcontenti di massa – ma ciascuno individualmente – sanno immaginare, è nel senso di una frattura ben nota negli Stati Uniti: la secessione dallo Stato centrale federale, descritto come «tanto intrusivo e potente da minacciare in modo immediato i diritti e la libertà personale dei cittadini»: secondo un sondaggio della CNN, sono 56 americani su 100 ad approvare questa frase oggi. Erano il 39% 15 anni fa, ai tempi dell’attentato di destra ad Oklahoma City.

Il giornalista Chris Hedge valuta in «una ventina» gli Stati dove stanno assumendo rilevanza politica movimenti secessionisti, che cercano di promuovere referendum per separarsi dalla Federazione. Molti sono nel Sud che fu già Confederato, ma non mancano i territori già per sè geograficamente marginali, Hawaii, Vermont e Alaska, oltre il Texas. (The New Secessionists)

Thomas Naylor
   Thomas Naylor
Fatto significativo, questi movimenti predicano che «la vecchia divisione fra progressisti e conservatori è diventata insignificante», dal momento che «le grandi banche hanno messo a segno un colpo di Stato». Thomas Naylor, il fondatore del movimento secessionista in Vermont (Second Vermont Republic) dice: «Il nostro punto di partenza è che abbiamo due nemici: il governo federale e l’America del business. L’uno possiede l’altro».

Significativamente, la Second Vermont Republic è nata all’indomani delle imponenti proteste avvenute nello Stato contro la guerra in Iraq nel 2003, che unì pacifisti di sinistra ed isolazionisti di destra. Oggi, il movimento accusa delle futili e costosissime guerre imperiali il sistema industriale-militare, come della rovina economica accusa Wall Street, l’alta finanza speculativa.

L’economista Naylor elenca con rabbia i segni del declino degli USA fra le nazioni industrializzate: agli ultimi posti nella partecipazione al voto, nella sanità, nell’istruzione; ai primi per il tasso di omicidi e di mortalità, per criminalità giovanile, per le minorenni incinte, per la disparità sociale, e – inoltre – per inquinamento nonostante l’industrializzazione.

«Quaranta milioni di americani vivono sotto il livello di povertà e lo Stato federale ci ha accollato trilioni in debiti che non potremo mai pagare».

La secessione, dice, è l’alternativa più umana e meno violenta rispetto alla ribellione e alle rivolte che covano.

«Il solo modo di fermare queste guerre è smettere di pagare per esse. Il Vermont dà 1,5 miliardi di dollari al bilancio del Pentagono. Non vogliamo solo l’indipendenza del Vermont, vogliamo la dissoluzione pacifica dell’impero. Il governo USA ha perso la sua autorità morale».

Il movimento promuove l’autosufficienza agricola e l’uso di energie sostenibili. Ha un quindicinale ed una radio, Radio Free Vermont, il cui direttore-proprietario, Dennis Steele, s’è candidato a governatore con  la secessione come programma. Gente che la pensa come lui sta concorrendo alla carica di vice-governatore, ad otto seggi del Senato e a due della Camera locali.

Il Texas Nationalist Movement «è cresciuto impetuosamente dopo i salvataggi della banche ad opera della FED e del Tesoro», secondo il suo fondatore Daniel Miller. Noi del Texas, dice «siamo la vacca da mungere a favore degli Stati indebitati. Il Texas viene penalizzato dalle leggi federali sulle emissioni di CO2 come da quelle sugli immigrati; ce l’hanno contro il nostro modo di vita, ci offendono». Il movimento sta raccogliendo un milione di firme da presentare per l’apertura della legislatura di Stato, gennaio 2011.

In Vermont come in Alaska e in Texas, i secessionisti ammettono di non avere ancora un seguito paragonabile al movimento Tea Party. Naylor tuttavia è convinto che molti nel Tea Party  trasmigreranno nei movimenti scessionisti quando capiranno che non possono cambiare le strutture di potere dello «stato delle grandi imprese» (corporate state) attraverso il normale processo elettorale.

«Per ora, pensano ancora che il sistema possa essere aggiustato. Ma quelli che hanno votato Ron Paul ed hanno constatato come è stato trattato dal sistema, capiranno che non c’è modo di avere un partito libertario, o dei republicani libertari, nè al Senato USA nè alla Casa Bianca».

Naylor e il suo movimento si vuole non-violento. Ma stanno prendendo forza altre entità secessioniste, il Southern National Congress e l’ancora più a destra League of the South, che inalberano la bandiera dei Confederati, cominciano le riunioni cantandone l’inno (Dixie), e propugnano il ritorno al «potere bianco e maschio».

L’America non è solo New York dalle larghe vedute (o del politicamente corretto), una buona metà – com’era prevedibile – non si lascia docilmente governare da un presidente negro, senza sentirsi ribollire il sangue.

Per Naylor, questi movimenti sono un pericolo, perchè un loro atto violento potrebbe giustificare una repressione militare del secessionismo. Già diverse voci alla Casa Bianca e al Congresso hanno cominciato a definire la galassia deli arrabbiati «un pericolo simile al terrorismo» di Al Qaeda.

Frattanto, i politici locali stanno esaudendo i desideri della parte più irrazionale degli arrabbiati, la «frangia dei lunatici» (lunatic fringe) nelle sue richieste più paranoiche e complottiste, ma più innocue. In Georgia, sta passando una legge voluta dai repubblicani locali, che vieterà «di impiantare un microchip, un sensore, una trasmittente o un apparato di identificazione nel corpo di una persona contro la sua volontà».

Per quanto sembri strano, California, North Dakota e Wisconsin hanno già leggi del genere. A chi fa notare che il governo federale non sta effettivamente impiantando microchip nelle persone, il senatore georgiano Ed Setzler, presentatore del progetto, replica: «E’ una misura preventiva».

Mark Cole, il senatore repubblicano locale della Virginia, sta promuovendo la stessa legge nel suo Stato. Dice: «I microchip possono essere usati come ‘il marchio della Bestia’ descritto nel libro dell’Apocalisse».

Forse il vero pericolo è questo, che la folle rabbia degli americani venga incoraggiata e aizzata dai politici nei suoi aspetti più fantasticamente paranoici. La paranoia non ha mai disturbato Goldman Sachs nè il sistema militare-industriale. Anzi.


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