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Le nostre dinastie
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Gianfranco Fini ha preso le difese di Renzo Bossi la Trota, su cui si dicono troppe malignità. «Tutti devono piantarla con affermazioni che sono insulti, offese gratuite e personali. Ho avuto modo di incontrare Umberto Bossi con il figlio Renzo. Beh, il rapporto di quel ragazzo col padre è una delle cose più belle che esista».

A Radio 24, sento il ben noto Cruciani (trota anche lui la sua parte) esprimere intenerita ammirazione per questa uscita di Fini, gli pare un esempio di fair-play. Naturalmente gli sfugge (a Cruciani sfugge quasi tutto) che invece questo genere di difese della famiglia rivela un’attitudine tipica delle oligarchie: i figli dei granduchi e baroni sono sacri per tutti gli altri granduchi e baroni. E’ tipico delle oligarchie valorizzare l’affetto per la figliolanza ereditaria, metterlo in mostra, additarlo ad esempio: «Il rapporto di quel ragazzo col padre è la cosa più bella che esista».

Naturalmente il Fini difende, con la Trota affettuosa, anche la propria famiglia, quella della escort morganatica che ha portato con sè nella residenza ducale del presidente della Camera, che gli ha dato un rampollo. Il Giornale ha avuto il cattivo gusto di rivelare che la morganatica compagna del kippà,  Elisabetta Tulliani de Gaucci, ha una famiglia: la quale riceve un milione e mezzo di euro dalla TV di Stato. Il fratello della Elisabetta prima, Giancarlo Tulliani, «cognato» dunque del Fini,  «attraverso un intricato sistema di società», realizza una trasmissione TV di men che travolgente successo, su Raiuno, «la rete diretta dal finiano doc Mauro Mazza» valvassore. L’intricato sistema di società vede partecipare anche la madre di Elisabetta, non si sa bene se in ruolo di prestanome o che cosa.

Fatto sta che baron Fini ha espresso un aristocratico disgusto per certe insinuazioni che toccano il «cognato» e la «suocera». Ci ha voluto far sapere che quello che lo lega con la sua «famiglia» è il rapporto più bello che esista, paragonabile per intensità di affetti a quello che lega padre Bossi al figlio Trota.

«Quando la politica arriva addirittura ad infangare le persone sul piano personale e familiare, siamo oltre il livello della decenza – ha vibrato Fini – Tutti devono piantarla con affermazioni che sono insulti, offese gratuite e personali».



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Si vede bene in queste parole il riflesso oligarchico: per Kippà, un milione e mezzo dei contribuenti al «cognato» e «suocera» non configurano un favoritismo: trattasi di appannaggio regale, spettante per diritto divino ai nuovi prìncipi del sangue, un segno di legittimo affetto del capostipite verso coloro che gli garantiscono la continuità del lignaggio (in francese lineage). Naturalmente, il parentado ricambia l’affetto, ed è il rapporto più bello che esista. Il che significa: un rapporto infinitamente superiore a quello che unisce generi e cognati plebei, privi di gran nome, che non possono trasferire benefizii, feudi e rendite.

Claudio Scajola
   Claudio Scajola
La tendenza è sempre più pronunciata, fateci caso. Il ministro Claudio Scajola asserisce d’aver comprato il suo appartamento in via Fagutale, 180 metri quadri in vista del Colosseo, per 600 mila euro (una cabina telefonica?). E a chi dubita che un’aggiunta di 900 mila euro sia stata messa a disposizione dal costruttore Diego Anemone attraverso l’architetto-progettista di costui Angelo Zampolini (cosa che risulterebbe da indagini della Guardia di Finanza), risponde con sdegno: questa insinuazione «colpisce con violenza senza precedenti il mio privato e la mia famiglia... un attacco infondato a danno di chi lavora tutti i giorni per difendere gli interessi del Paese».

Bellissima indignazione. Luigi XIV, il Re Sole (colui che in un momento di difficoltà sbottò: «Perchè Dio non mi aiuta, dopo tutto quel che ho fatto per lui?») non avrebbe potuto dir meglio: «Chi osa sindacare su come amministro i miei feudi? Son cose private, di famiglia. E’ un attacco alla mia dinastia».

E’ un riflesso padronale che già manifestò a suo tempo la moglie di Prodi, quando si lamentò degli italiani, «dopo tutto quel che facciamo per loro». E’ uno spirito regale, di chi si sa destinato a dominare nei secoli dei secoli, e quindi guarda al «Paese» come cosa sua.

Scajola è quello che obbligò l’Alitalia a creare un volo Roma-Imperia, che serviva solo a lui. Evidentemente, uno dei benefizii e sinecure cui l’oligarca ha insindacabile diritto. E nessuno osi ferire lo Scajola granducale nel suo «privato», nella sua famiglia con cui ha il rapporto più bello che ci sia.

Lui sì, può: come quando chiamò l’appena defunto giuslavorista Marco Biagi, ancor caldo del piombo delle BR, «un rompicazzo» (il rompicazzo aveva chiesto una scorta, si sentiva minacciato). Allo stesso modo Sua Maestà il re d’Inghilterra offende Barry Lyndon, quell’arrampicatore senza nobiltà che osa farglisi presentare, se ricordate il film di Kubrick. Scajola dovette dare le dimissioni, ma per poco. Rieccolo ministro, in eterno: nessun granduca, nell’oligarchia, viene mai abbandonato al destino di lavoratore.

Berlusconi riempie il governo delle sue Favorite, le sue Maintenon, le sue Pompadour (a Versailles chiamate «maman putain»), la dinastia Alemanno-Rauti occupa una mezza dozzina di posti a Roma e in RAI, Francesco Rutelli, inaffondabile da qualunque sconfitta elettorale, piazza un cognato Paolo Palombelli nel giro dei soldi per il G-8 alla Maddalena, dove anche Bertolaso inserisce un cognato (tal Piermarini), e la moglie del margravio Rutelli, si accaparra dozzine di comparsate TV. Come la moglie di Italo Bocchino, che alla RAI ha arraffato un contratto da produttrice. Eccetera, eccetera. (Nelle telefonate moglie, cognati e figli. E i nomi di Lotito, Rutelli e Leone)

Il rapporto più bello che esista, davvero. Commovente.

I mugiki si toglievano il colbacco e cadevano in ginocchio, sorriso estasiato e lacrime agli occhi,  quando, sul landò scoperto, vedevano passare il piccolo malaticcio Zarevic in braccio all’augusta genitrice coperta di diamanti. Tremavano e pregavano come Lei per la salute dell’Erede e pensavano: «Come sono umani, le signorie loro!».

Da noi succede qualcosa del genere: un’oligarchia che spolpa il suo latifondo RAI e si dota di sfarzosi superattici regalati, che ruba per i figli il posto dei competenti e degli onesti, non può esistere senza un popolo reverente e intenerito di servi della gleba.

Claudio Scajola
   Il rampollo ripulito e pronto
Si sarebbe potuto credere che i leghisti, quelli che vogliono meritocrazia, federalismo e morte a Roma Ladrona, si sarebbero ribellati quando Renzo Bossi – la Trota secondo la stessa affettuosa definizione paterna – è stata messa in lista, 22 enne, come deputato regionale. Macchè: in quel di Brescia l’hanno votato in massa. Lungi dall’offendersi, gli elettori leghisti si sono inteneriti: d’accordo, è scemo come una pertica, dice sciocchezze, è stato bocciato tre volte e promosso dal TAR, ma che cosa conta? Merita il posto come principe del sangue. Dopotutto, la palese scemenza non ha mai impedito ai principi di Galles di diventare re, nè ai figli dei granduchi di ereditare i granducati e latifondi. Anzi: come nei levrieri, l’aria nobilmente rincoglionita è una garanzia di aristocraticità. Alla Trota è stato trovato subito un posto da 12 mila euro mensili all’Expo milanese? Casa Bossi smentisce, ma la plebe si rallegra: come si può lasciare tanto Figlio senza appannaggio? La famiglia è il rapporto più bello che esista.

Ai lumbard è piaciuto il Bossi di lotta, gli piacerà anche la Trota di governo.

Nella Case dei Valois e dei Borbone, l’erede al trono di Francia era chiamato Delfino (le Dauphin), nome di un pisciforme famoso per la sua intelligenza. E’ facile prevedere che nell’imminente  principato di Padania, l’affettuoso nomignolo con cui il Genitore ha scusato il comprendonio ottuso del Figlio, diventerà un titolo dinastico perenne.

Pregusto già il giorno in cui il figlio di Bossi  alzerà fra le braccia il suo neonato sgambettante, esponendolo alla folla col grido rituale: «Cì è nata la Trota!». Subito dotata, in fasce, delle rendite della diocesi di Malpensa, dei profitti dell’Azienda Tramviaria, dei tributi del marchesato di Legnano con tutte le sue foreste e riserve di caccia, nonchè di superattici con vista Duomo e sinecure sotto forma di contratti della RAI-TV Regionale. E il figlio del figlio di Bossi, anche lui Delfino padano: ossia Trota.

E il popolino cadrà in ginocchio e si toglierà il cappello intenerito, augurando lunga vita alla famiglia: Guarda come si vogliono bene! Che bello, questo rapporto tra padri e figli! Si indiranno festeggiamenti ufficiali ma anche spontanei, con gran concorso del volgo di Padania e Ruritania, a cui sarà distribuita fumante polenta con le rane. E manderanno doni e felicitazioni gli Scajola marchesi d’Imperia e Fagutale, la dinastia dei Fini Tulliani, gli Alemanno Rauti della Camilluccia,  i margravi Rutelli-Palombelli, gli Jervolino e i Miccichè dalle lontane due Sicilie. Poeti di corte inventeranno canzoni d’occasione per il parto della nuova Trota e della sua genitrice esausta ma felice, come Foscolo fece per Luigia Pallavicini caduta da cavallo.

Del resto, cosa credete, anche quell’altra passata oligarchia aveva origini basse. Prima di entrare nel Gotha, i Pallavicini si chiamavano «Pelavicini», nomignolo testimone della loro attività di spietati esattori e usurai. Cambiarono il nome, nobilitandolo, solo dopo aver fatto abbastanza soldi da poter andare a cavallo, e nobilmente caderne.



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