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Il lavoro vale sempre meno
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La tabella qui sotto, da Bloomberg, è tristemente eloquente: indica il valore di un’ora di salario medio americano in termini di once d’oro (si presume che l’oro mantenga storicamente costante il suo potere d’acquisto rispetto alle fluttuazioni delle moneta ex-nihilo). Dal 1971, anni della presidenza Nixon e della fine dall’aggancio del dollaro all’oro, il guadagno medio dell’americano è calato del 90%. Poi è risalito; ma dal livello massimo del 2001 ad oggi, l’ora di lavoro ha perso uno spaventoso 81% del suo potere d’acquisto.

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I motivi di questo crollo possono essere molti: svilimento del dollaro stampato a vagonate, aumento della produttività del lavoro (sostituito da macchine), sovraccapacità produttiva, e (non ultimo) maggior prelievo del capitale finanziario sui profitti del lavoro; ma una causa primaria è sicuramente la globalizzazione che mette i salari occidentali in concorrenza con i salari cinesi-indiani, anche direttamente con la de-localizzazione. Unita, s’intende, alla trasformazione epocale dall’età industriale all’età dell’informatizzazione, che penalizza i lavoratori poco istruiti, i meno intelligenti e che restano indietro nella formazione permanente; i lavoratori con bassa qualificazione sono più direttamente esposti ai salari bassi dell’ex Terzo Mondo. Ma non è solo questo.

Siamo agli albori della rivoluzione tecnologica che più inciderà sulla dignità dell’uomo e del cittadino, oggi inestricabilmente collegata all’essere lavoratore, a dare il suo contributo alla società attraverso il lavoro. Come ha previsto la International Metalworkers Federation (Federazione Internazionale dei Metallurgici) di Ginevra nel 2006, fra trent’anni basterà il 2% dell’attuale forza-lavoro per produrre tutti i beni destinati all’intera popolazione mondiale. Si va verso la «società senza lavori» prevista e paventata dall’economista Jeremy Rifkin in «The End of Work». Che cosa far fare al restante 98% che «non servirà» più?

C’è la visione futurista-ottimista che prevede «lo sbloccarsi di un oceano inimmaginabile di creatività e di potenziale umano» liberato dal lavoro (Marshall Brain, «Robotic Nation») e il realismo di Rifkin: «La fine del lavoro può significare il decesso della civiltà come l’abbiamo conosciuta, o segnalare l’inizio di una grande trasformazione sociale e una rinascita spirituale», ma «ridefinire il ruolo dell’individuo in una società senza lavoro sarà probabilmente il tema più cogente nei decenni a venire».

Saprà la nuova gioventù senza lavoro «reinventare se stessa» come sperano gli ottimisti, e godere dell’immenso tempo libero dedicandosi alle arti, allo sport e a giocose attività, o – condannata ad una marginalità permanente e ad una povertà assistita da sussidi – alienarsi ostilmente dalla società produttiva e affollare i ranghi del teppismo da strada e della criminalità spicciola o organizzata, che offre «lavori» e paghe? Come sarà vissuta la stratificazione sempre più pronunciata in classi, anzi in caste, con le superiori «occupatissime» e molto ben pagate e quelle inferiori, numerosissime e senza utilità sociale? Le superiori ultra-istruite e intelligenti, le altre composte da falliti nella corsa sociale, semi-analfabeti? E cosa dovrà insegnare la scuola in questa nuova situazione?

I giovani sono i primi a provare sulla pelle l’alba di questa nuova era. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 2017 ci saranno nel mondo più di 73 milioni di giovani (meno di 24 anni) senza alcuna prospettiva di lavoro. La media mondiale dei giovani disoccupati, oggi sul 12,7%, salirà allora a 12,9%. Ma con enormi disparità regionali: 15,6% nelle economie sviluppate occidentali, contro solo il 10% nell’estremo oriente asiatico dove è privilegiata l’altissima istruzione, e il tragico 28,4% del Medio Oriente: una innumerevole gioventù inoccupata che alimenta le primavere arabe, ed un futuro di torbidi e rivolte.

La riforma del lavoro in Germania «Hartz IV», è forse il primo esempio di un approccio sistematico alla futura società senza-lavori. Un giorno, sarà forse anche il nostro futuro. Se sia un esempio da imitare, è discutibile.

E questo sarebbe il «modello tedesco»?

«Rent a Rentner», affitta un pensionato, è un nuovo sito tedesco dove aspiranti di 67-75 anni si propongono come lavoratori. «Trasferire ai giovani la mia esperienza» è la motivazione più spesso dichiarata da questi cerca-lavoro coi capelli bianchi. Ma le difficoltà di farcela con la pensione ad arrivare alla fine del mese, è probabilmente la più vera. Nel 2011, la pensione media nei Laender della ex-Germania Ovest era di 1.062 euro mensili, all’Est di 1.047. E dal 2000, hanno perso il 17% del potere d’acquisto ad Ovest, e il 22% all’Est. Quattro milioni di pensionati sono a rischio povertà. Di loro, circa 761 mila completano il loro assegno con un «mini-job» da 400 euro mensili. (En Allemagne, des retraités à louer)

Certo, la Germania è il Paese vincente dell’area euro. Ha un attivo di 100 miliardi della bilancia commerciale; è il massimo esportatore dopo la Cina. È «altamente competitivo» e super-produttivo, ha portato via quote di mercato all’Italia, alla Francia, per non parlare della Spagna. È il modello che ci viene proposto: anche noi dobbiamo diventare più competitivi, aumentare la nostra produttività. Ma il travolgente successo tedesco ha un altro aspetto visto da sotto, ossia dalla popolazione meno favorita.

È vero che le paghe della Volkwagen sono ben superiori a quelle dei nostri metalmeccanici. Ma è anche vero che 7,3 milioni di tedeschi ha quello che vien chiamato un «mini-job»: salario, 400 euro mensili. Si tratta di un occupato su 5, e due terzi sono donne. Di questi, 3 milioni hanno preso un «mini-job» accanto al lavoro (e salario) principale, perchè altrimenti non ce la fanno a vivere.

I «mini-job» sono la grande scoperta della riforma del lavoro varata dal cancelliere (socialista!) Schroeder: consentono insieme di mantenere basse le statistiche della disoccupazione, e di risparmiare sui sussidi di disoccupazione. Sei disoccupato, magari da lungo tempo? Accetta un «mini-job» da 400 euro, e il governo ti dà il sussidio di 400 euro. Il numero dei mini-jobber è aumentato, dal 2003, di 1,6 milioni di addetti. Lavapiatti e parrucchiere, avventizi da albergo, commesse d’appoggio per ore di punta, taxisti, muratori a part-time. Chi ha un mini-job non paga tasse né contributi, ma la sua paga da 400 euro nemmeno contribuisce ad aumentargli la pensione. Si ha quasi il sospetto che serva a mascherare la marginalizzazione permanente di una quota crescente di popolazione, poco istruita, senza qualifiche, poco abile e dunque inoccupabile nelle sofisticate attività post-moderne. Nonostante il successo esportatore tedesco, infatti, la disoccupazione è piuttosto alta: 7%. Figurarsi quanto salirebbe la percentuale, se si tenesse conto dei mini-jobber che vorrebbero un lavoro vero.

Per il resto:

- Il 20% dei salariati guadagna meno di 10,36 euro lordi l’ora.

- Solo un giovane su 5 oggi ha conseguito un titolo di studio più alto di quello di suo padre.

- Tra il 2006 e il 2010, la proporzione dei lavoratori poveri è cresciuta di oltre il 20% nelle imprese con più di 100 occupati.

- Pare diventata pratica comune, fra i datori di lavoro, «spezzare» una mansione regolare in più mini-job, assegnati a gente che, tutta insieme, viene pagata considerevolmente meno del salario orario standard per quella mansione (naturalmente si risparmiano i costi sociali), come ha rivelato un rapporto dell’Università di Duisburg-Essen (Minijob mit Nebenwirkungen)

- I salari reali sono caduti del 2,9% tra il 2004 e il 2011.

- Il 10% dei cittadini possiede il 53% della ricchezza tedesca, mentre la metà dei salariati si divide l’1% della medesima ricchezza. La disparità sociale cresce in Germania più che in ogni altro Paese europeo.

- Non c’è da meravigliarsi se i consumi interni tedeschi sono bassi e non crescono, elemento non secondario del «successo esportatore germanico»: 14 milioni di lavoratori tedeschi si spartiscono l’1’% della ricchezza prodotta. Quanta frugalità.


Questo è il modello tedesco, visto da sotto. Non si potrebbe averne un altro?



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