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Inghilterra «islamica»
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«L'arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ritiene che sia “inevitabile” introdurre nel sistema giuridico britannico alcuni aspetti della Sharia, la legge islamica. Un giudizio che pesera' in un dibattito più che attuale -sia in Gran Bretagna, dove i musulmani sono circa 1,8 milioni, sia all'estero- sulla tolleranza religiosa e sul dialogo tra le diverse fedi monoteistiche. Il leader spirituale della Chiesa Anglicana, di cui e' capo la regina Elisabetta II, ha sottolineato che le leggi britanniche hanno gia' recepito istanze di altre confessioni ed è quindi opportuno "un adeguamento costruttivo" della sharia in materie come il diritto di famiglia e materie finanziarie. "Alcuni aspetti della Sharia sono riconosciute nella nostra societa' e nelle nostre leggi, quindi non stiamo parlando di una cosa aliena ne' di un sistema antagonista". Il prelato ha tuttavia sottolineato che "nessuna persona assennata può pensare che in Gran Bretagna si assista a quel genere di disumanita' spesso associato con l'applicazione della legge islamica in alcuni Paesi musulmani, come la pena capitale e l'atteggiamento verso le donne", ha detto l'arcivescovo». (1)

 È paradossale che proprio lo stato «laico» per eccellenza, l’Inghilterra, si volga al pensiero islamico, come parametro giuspubblicistico di riferimento per la regolazione della vita sociale.
Ma evidentemente e a ben vedere non esiste un reale paradosso.
Il protestantesimo, denso di fideismo e totalmente privo del ministero sacerdotale, incapace di comprendere la realtà e profondità del cristianesimo, perché volutamente apostata contro la verità del diritto naturale, così come fece da apripista al razionalismo ed all’irrazionalismo filosofico, adesso getta un ponte verso la concezione islamica dello stato.
Gli estremi si toccano e gli opposti si conciliano, insegnerebbe la catechesi massonica.

La matrice che muove le ideologie sottostanti è la medesima: il rifiuto, come detto, della validità del diritto naturale.
Il protestantesimo, in particolare di origine luterana (che tanta eco ha avuto anche in Inghilterra), ha sicuramente un approccio pessimistico e debilitante nei confronti della natura umana.
L’uomo, peccatore, incapace di compiere il bene, condannato alla reiterazione del peccato, si salva soltanto per una fede forte.
Questa eresia si muove proprio contro il medesimo mistero dell’Incarnazione; infatti non lo capisce affatto.
In esso Dio prende la natura umana, tutta, e la eleva alla sua partecipazione: l’esisto della divinizzazione scaturirà proprio dal rendere viva tale redenzione in ognuno, attraverso la cooperazione personale alla Grazia.
La natura umana è così nobilitata al di sopra di ogni immaginabile previsione: è niente meno che una delle due nature del Verbo incarnato.
Le opere che danno vita alla fede sono quindi imprescindibile riverbero della luce interiore del cuore salvato.
Non ci si salva con la sola fede: perché la fede senza le opere è sterile e morta: vivere santamente deve essere imprescindibile conseguenza del credere fortemente.
Il cristianesimo infatti è trasformazione della persona, cristificazione, non intellettualismo arido né frenesia precettista, quasi fosse un codice etico da adempiere.

In questo contesto, appare difficile dare fiducia alla ragione, che, da sola, come insegna la Chiesa Cattolica, può arrivare alla conoscenza dell’esistenza di Dio, personale, trascendente, legislatore e giudice; la sola fede amministrerà la verità.
Tale assioma di partenza può quindi inevitabilmente degenerare, appunto, in due fattispecie filosofiche aberranti: il razionalismo (come rifiuto ragionevole di una fede troppo invadente) e l’irrazionalismo (che ben si accorda col fideismo, ossia con una totale sfiducia delle acquisizioni razionali).

Ma la filosofia cristiana autentica, basata sul «realismo» tomista, insegna che fede e ragione sono complementari; ed anche se la Rivelazione (alla quale si deve aderire con la fede, costituendone il contenuto) è sicuramente il faro che deve illuminare la medesima luce dell’intelletto, essa non sarà mai contro il dato razionale, ma lo supererà comprendendolo in sé: la fede è metarazionale, non irrazionale.
L’uomo, pertanto, deve vivere questa sua duplice realtà, subordinando tutte le proprie potenze e facoltà alla verità rivelata, che è la verità di Dio stesso.
Se dimentica la propria dimensione razionale, come accade nel protestantesimo, è costretto quasi inconsciamente a rigettare ogni evidenza emergente dal diritto naturale.
Ora, tornando alle parole dell’arcivescovo inglese, la concezione islamica non differisce molto dalle posizioni protestanti.
Non per nulla l’Islam nega l’Incarnazione!
Anche se è profondamente vero il contrario, essendo il rapporto esiziale incentrato proprio nel fatto della misconoscenza del Figlio di Dio che si fa uomo.
Questo comporta una negazione di ogni valore al diritto naturale.
La sharia infatti è normazione di uno stato teocratico che nulla attinga dal diritto naturale.
La ragione nulla può insegnare alla verità; lo slancio fideistico è totale; la figura di Allah, pur infinitamente trascendente e completamente distante, al punto che neppure il paradiso ha a che fare con la divinità ( a differenza del paradiso cristiano, dove invece essenzialmente il Cielo è Dio stesso e la partecipazione amorosa e totale che sia ha di Lui) è tuttavia – per contrappasso inevitabile - invadente nel creato e nel suo divenire, al punto da mettere in seria crisi la libertà del muslim, sottomesso; e succede questo perché se Dio non è conosciuto per come è, che solo Luce e Amore ha per confine, si trasforma in un tiranno capriccioso o in un’indistinta forza anonima.

Il cattolico sa, al contrario, che Dio è Padre e che lo ama e quindi è impossibile sia distante da lui; sa che lo stesso mistero Trinitario trova migliore definizione nelle parole di San Giovanni, «Dio è amore» (1 Gv 4,16), piuttosto che nei 99 nomi di Allah.
Sa che quindi la sua natura ferita dal peccato, è comunque capace di bene, anche se non può divinizzarsi senza la mediazione di Gesù e la sua opera salvifica; sa ancora che, benché infranto dal dramma del peccato, il suo stato è quello di essere creato ad immagine e somiglianza del Creatore. Questa dignità dell’uomo – fondata su Dio stesso e su un ineliminabile teocentrismo - è tale da non svalutare alcuna delle sue capacità o facoltà.

Questa dimensione terrena deve vedersi realizzata anche in un contesto organico di estensione sociale e cristiana, che persegua, anche razionalmente (sotto la guida della fede), il bene comune.
Niente di più lontano dall’inganno democratico.

Stefano Maria Chiari



1) da www.repubblica.it/news/ired/ultimora/esteri/rep_esteri_n_2892895.html
 
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