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Quel «tecnico» sul Soglio
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Ecco una lettera interessante:

«...Voglio dire il fiume di dolore per il libero arbitrio mal esercitato da un Papa che appariva convertito da quella figura di teologo d’avanguardia che fu durante il Concilio diciamolo “del dissesto”.

Con la sua scelta Ratzinger ha compiuto un gesto rivoluzionario… il lupo perde il pelo ma non il vizio!

Siamo tornati indietro di oltre 600 anni quando i papi erano fiaccati dalle passioni o dagli eventi politici.

A metà Cinquecento abbiamo avuto un Santo Concilio di Trento con il quale alla rivoluzione luterana rispondemmo con la Santità e la Conversione della Chiesa da cui sono sorti nei cinquant’anni successivi i Sant’Ignazio de Loyola, San Filippo Neri, San Francesco Saverio, San Carlo Borromeo, San Camillo de Lellis, un’ondata di santi amici e discepoli tra loro che fecero di Roma una Gerusalemme Celeste.

Tali furono le Grazie che ci assicurammo in quegli anni che riuscimmo a salvare la nostra cultura, il cuore dell’Europa e della Cristianità, dal dominio islamico riportando vittoria inaspettata nella Battaglia di Lepanto sotto il pontificato di un grande e santo papa, San Pio V.

Da allora il Pontefice Romano aveva recuperato la Sacralità del Vicario di Cristo, la stessa che fu tramandata nei primi secoli da San Pietro, per la quale da San Clemente a San Gregorio Magno vennero elevati agli onori degli altari molti di loro.

Per il Credo che professiamo, un mandato apostolico non è una direzione d’azienda da cui dimettersi. Una consuetudine secolare non puoi cambiarla perché sei stanco e i tempi moderni impongono efficienza… altrimenti mostri di non affidarti alla Provvidenza di Dio che dà forze inaspettate ma al Dio Modernità, idolo del sentimento religioso serpeggiante nella coscienza umana attuale.

Non sei tu Ratzinger ma Dio a dover dire se adesso convenga che arrivi un nuovo Papa. Altrimenti, a cascata, anche nel mondo profano le persone considerate “inefficienti” per problemi di salute o per diversità di vedute potrebbero essere emarginate a buon ragione in una società che divinizza la Modernità.

Il Papa, guida della Chiesa Universale istituita da Cristo e sulla quale “portae inferi non praevalebunt”, è eletto, per consiglio dello Spirito Santo, tra i Cardinali. E da secoli loro portano la veste rossa a simbolo del loro servizio “usque ad effusionem sanguinis” fino all’effusione del sangue. Se è richiesta a coloro che lo eleggono figuriamoci ad un Papa. Si è Papa per volontà di Dio... e per Sua volontà se ne viene meno.

Pio VI Braschi, di venerata memoria, fu deportato dai francesi e morì in una prigione delle Rhône-Alpes il 29 ottobre 1799… né lui né alcuno invocò mai le dimissioni ma solo la morte ne sancì la fine del pontificato. Pio VII Chiaramonti subì l’invasione di Napoleone e fu recluso a Fontainebleau fino all’abdicazione del Bonaparte, ma in quell’esilio non pensò certo alle dimissioni. Pio IX Mastai Ferretti, il Papa del cosiddetto Risorgimento, anche lui subì il confronto ben duro con i tempi moderni specialmente con l’annessione di Roma al Regno dei Piemontesi e alla reclusione forzata nelle mura leonine del Colle vaticano, ma nonostante ciò invocò e ottenne gli aiuti soprannaturali per andare avanti nella sacralità del ruolo che ricopriva.

Da tempo è manifesta a tutti la crisi attuale della Chiesa, non data tanto dal secolarismo diffuso insieme all’indifferenza della gente che si professa religiosa a modo suo perché più comodo vivere senza regole, ma piuttosto dalla pessima testimonianza resa dagli uomini di Chiesa negli ultimi 50 anni dal Vaticano II… ben diversi dai cinquant’anni che seguirono il Concilio di Trento come ricordavo sopra.

La Storia della Chiesa ha visto pontefici che subirono le persecuzioni dei primi secoli ma anche la fioritura costantiniana e poi carolingia. Ha visto papi che scansavano il peso spirituale della Cattedra di San Pietro dissipandosi tra la promozione delle carriere sociali dei figli e il potere temporale ma alla fine sono sempre riapparsi Santi Vicari di Cristo al timone della Chiesa.

Stavolta pure, diserzioni, defezioni e persecuzioni devono solo portarci a convertirci, non temiamo nulla, anche se ci volessero secoli e più di un grande pontificato futuro, ci sarà sempre l’alleanza tra Dio e l’Uomo, il pontifex custodisce dall’Incarnazione di Dio il ponte di questa alleanza.

Per tutto questo, mai Quaresima di penitenza cadde in periodo più appropriato.

Non giudichiamo l’uomo Ratzinger perché chi siamo noi per farlo, ma prepariamoci alle conseguenze di tale scelta con lucidità e oggettività sugli eventi!

Nicolas»


Nicolas è un giovane oblato benedettino: ciò, credo, rende esemplare la sua addolorata protesta, tipica dello sconcerto in cui la rinuncia di Ratzinger al trono ha gettato i credenti più seri. Simpatizzo e condivido profondamente gli ottimi argomenti di Nicolas. Però, strano, mi capita di dar ragione a tutti quelli che commentano, da posizioni opposte: al cardinal Jivisc (accontentatevi di questa grafia...) ex segretario di Giovanni Paolo II – «Non si scende dalla croce» – come ad Enzo Bettiza che vede in questo gesto un «brivido luterano» tipico di un certo cattolicesimo tedesco contaminato dal protestantesimo e affascinato dalle sue «libertà»; da chi riecheggia il grido dei discepoli sulla barca in tempesta al Cristo che dorme: «Maestro, non t’importa che moriamo?», fino (perfino) ad Hans Kung che saluta le dimissioni come qualcosa di analogo «al crollo dellUnione Sovietica».

Tutti questi interventi dicono che tutti, chi lo applaude e chi lo deplora, vivono l’evento come un «segno dei tempi»; e come un segno letteralmente escatologico, ossia finale. Ma segno di cosa?

Non posso dirlo. Anch’io riconosco in ciò un segno dei tempi, ma non amo abbastanza per interpretarlo. Io mi sono «dimesso» troppe volte dai sacramenti della Chiesa, a cominciare dal sacro inviolabile matrimonio, per poter giudicare chi «scende dalla croce». Sono ben lungi dall’amare il prossimo mio come me stesso, insomma dall’obbedire al comandamento di Cristo, figuratevi quanto poco ami la Chiesa, di cui approfitto come dispensatrice di grazia. Nella mia condizione, qualunque parere sarebbe una vana aggiunta alla chiacchiera, un giudizio temerario, oppure peggio, un contributo alla disperazione della salvezza. Indurre a disperare dell’aldiquà è il mio gusto (e vizio) di giornalista credente, come pedagogia per abbandonare la presa sul «mondo», ma far disperare la gente dell’eternità, sarebbe il peccato imperdonabile.

Perciò mi trattengo, con sforzo, dal dir la mia. Che cosa faccio? «Assisto». Non è un’idea mia, ma di Levi di Gualdo, per cui alla Messa non si deve «partecipare» ma «assistere», e non si deve «capire» ma adorare, perché si assiste al Sacrificio.

Oggi, davanti a questo evento, assisto come uno dei tanti anonimi che, sul Golgota, assistettero all’agonia di Gesù sulla croce. Molto più da lontano di quanto non fossero Maria e Giovanni, che erano proprio sotto il palo e guardavano in sù; sono uno dei tanti tenuti a distanza dai soldati. Come tanti di voi.

Salva una precisa illuminazione personale, che comunque i Vangeli non attestano, nemmeno la Madre credette allora che quel Figlio, che rantolava appeso, insanguinato come un quarto d’agnello appeso dal macellaio, coperto di mosche, sarebbe risorto. Era troppo chiaramente la fine: fine di tutto. Fine delle speranze che quello fosse il Messia, il liberatore politico o spirituale; fine della parabola pubblica dell’agitatore e del guaritore, dotato di poteri, che la folla acclamava fino ad ieri. Impossibile credere che quel miserabile appeso , slogato e dolorante, fosse Onnipotente; che quel delirante che gridava fra sé, dalle labbra secche, parole insensate, «Eli eli, lamà sabactanì», fosse Dio, come aveva preteso.

Neppure Maria e Giovanni credevano sarebbe risorto, in quell’ora tremenda: eppure lo amavano. Lo amavano più di tutti altri noi che assistiamo da più lontano. Figurarsi se io, che assisto a distanza, credo che quel malvivente risorgerà. Non ci credono i discepoli che sono tra noi nella folla, e temono di essere riconosciuti come seguaci di quel Fallito. In tanti gliel’hanno sentito dire, «Risorgerò», ed ora lo deridono («Scendi dalla croce»); mi urtano per la loro volgarità davanti a un’agonia, ma non gli so dar torto. Ascolto quelli che si gridano, eccitati: «Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!». È positivamente impossibile che un morto, e morto di croce, riappaia fra noi. E quando il legionario gli spacca il cuore con la lancia, ho tutto il diritto di dire, scotendo la testa: è finita. Basta; almeno ha smesso di soffrire per niente. I farisei, sadducei e i «dottori» della Legge, se ne vanno soddisfatti, canticchiano saltellando giù dalla scarpata. Ancora una volta l’hanno spuntata loro, come sempre. Si affrettano, perché minaccia un tremendo temporale.

Insomma, io sono lì che assisto, guardo la croce oggi svuotata; e per abitudine e vizio, tutt’al più prendo qualche appunto e notazione con lo stilo sulla tavoletta di cera, ben cosciente che sono solo in grado di toccare temi accessori, persino fatterelli che nel gergo giornalistico si chiamano «di colore», senza proporzione con l’enormità del fatto.

Perchè il fatto è enorme. Ma non ce lo dicevamo da anni? Non vedevamo e notavamo, anche qui fra noi, lo sgretolarsi bestiale dell’ordine cristiano ed umano, l’affondare soddisfatto dell’uomo nella zoologia, l’economia tramutarsi in saccheggio senza limiti e rapina dei poveri da parte dei ricchi, lo «stato del benessere» in miseria imposta senza fonda nell’Europa «giudeo-cristiana», le speranze «umanistiche» nelle magnifiche sorti e progressive in nuove inaudite ferocie ed oppressioni dei forti sui deboli? Erano i segni dei tempi satanici che già potevamo indicare. Il collasso del pilastro centrale – se di questo si tratta – non può coglierci di sorpresa.

«Il Katechon!», esclama via SMS un giovane lettore siciliano. Ebbene, anche questo lo paventiamo da tempo: che (stante la 2da Tessalonicesi di Paolo), viene il tempo in cui «sarà tolto di mezzo» quel qualcuno (o qualcosa) che «trattiene l’Anticristo» dal dilagare. Per Paolo, gli studi storici più recenti ce lo confermano, «ciò che trattiene» era qualcosa di preciso: il veto che Tiberio aveva posto sul decreto senatoriale «non licet esse christianos», e che restava vigente solo finché Tiberio viveva (infatti sarà dopo la sua morte, e dopo quella di Claudio, con Nerone, che si scatena la persecuzione). Per estensione – perché il katechon è un archetipo, gravido di senso, che indica una piega drammatica ricorrente della storia – è dunque il Romanum Imperium, lo stato come esecutore del diritto naturale, dettato da Dio, dunque della giustizia. Il Katechon non è la Chiesa né il Papa, se non – come ha notato Carl Schmitt – come «cattolico-romano», continuatore della forza politica di Roma. Non a caso, salvo errori, né come teologo né come Papa, Ratzinger ha mai dato la minima attenzione al terribile tema del katechon e ai doveri che impone anche al Romano Pontefice, specie nel crepuscolo dei tempo. Se ciò per la fondamentale impoliticità da tedesco, per «spiritualismo da cattolico adulto» o per «conciliare» svestimento di ogni potere disciplinare e gerarchico – diciamo pure: la rinuncia ad ogni maestà –, lascio decidere a voi. Certo è che Ratzinger, scendendo dal trono, ha dato un bel colpo al katechon. Ed anche se ne restava poco, l’odio che le folle possedute tributano ai residui di autorità gerarchia e ai più lievi richiami al giusto (in tema per esempio di aborto, eutanasia eccetera), che vengono dalla Chiesa, dice che ancora il katechon reggeva. Meglio poco che niente. Forse si possono qui evocare i passi evangelici sul fatto che è meglio «non spezzare la canna fessa» né «spegnere il lucignolo che fumiga»?

Uno dei fatali contraccolpi sulla società di questa caduta del katechon la indica benissimo Nicolas: «...a cascata, anche nel mondo profano le persone considerate “inefficienti” per problemi di salute o per diversità di vedute potrebbero essere emarginate a buon ragione in una società che divinizza la Modernità».

Io provo ad indicarne un altro: è facile prevedere che un giorno o l’altro un prossimo Papa, affacciandosi al balcone, si trovi subissato dal grido proveniente dalla piazza: «Dimettiti! Dimettiti!». Non credano i cardinali che vanno al conclave con le loro talari porpore e i loro anelloni d’oro che tutto torni come prima . Dopo tanta predicazione contro «il relativismo», Ratzinger ha relativizzato la funzione di Petrus. Forse – consoliamoci un po’ – d’ora in poi saremo tutti meno «papisti», come troppi di noi erano diventati dopo lo sconvolgimento conciliare: oscurate o rese ambigue tutte le certezze della fede dall’«aggiornamento», dalla «pastoralità» che di fronte alle eresie crescenti interne al mondo cattolico ha rifiutato di riaffermare solennemente la dottrina, dal potere «magisteriale» improprio preso dalle conferenze episcopali cui fu permesso di derogare dalle regole generali, dalla riduzione dell’inferno a «vuoto» e dunque alla salvezza eterna per tutti (ma allora perché Cristo è morto per salvarcene?), insomma nella grande confusione «dove il cattolico non sa neanche più qual è il valore primo del suo cattolicesimo» (1), noi semplici ci si aggrappava al Papa: quello che dice lui sarà pur la verità.

Così abbiamo tanto sperato in Ratzinger. Col Motu Proprio ha autorizzato la Messa tradizionale, e se anche i vescovi gli hanno massicciamente disobbedito, in qualche modo abbiamo creduto che lui sentisse, come noi, il problema delle liturgie brutte, sciatte e false. Ha dichiarato che il Concilio andava inteso nel senso della «continuità» (con la Tradizione) e non della «rottura» con la Tradizione medesima: d’accordo, da quel momento in poi un Pontefice avrebbe dovuto passare i suoi anni ad indicare, precisamente e particolareggiatamente e senza equivoci, su quali documenti, passi, frasi ed enunciazioni del Concilio il troppo evidente significato «di rottura», rivoluzionario, dovesse invece essere inteso come «continuità», impegnando in questa disanima la sua infallibilità e la sua residua autorità anche disciplinare contro chi si ostina a leggere il Concilio come rottura. Invece, Benedetto XVI ha occupato il tempo a scrivere libri eruditi su Gesù apparentemente destinato a professori tedeschi, il che sarà bellissimo ma non proprio il compito principale di un Papa al timone di una Chiesa sconquassata… pazienza, ci contentavamo già dell’enunciazione: continuità sì rottura no, anche se poi tutti i prelati e teologi han continuato ad andare alla rottura, anzi ad ampliarla «profeticamente». Ci pareva che, pur debole nel «comando», platealmente disobbedito dai vescovi, Benedetto fosse forte nelle asserzioni; e che avesse compreso pienamente che il Concilio è la causa della perdita dei contenuti della fede, e quindi della desertificazione delle chiese, dell’abbandono dei sacramenti (e del pericolo eterno per le anime).

Invece, m’è capitato di sentire in tv il discorso del Papa già dimissionario ai preti della diocesi di Roma, il 14 febbraio. Per 45 minuti, a braccio, il Papa ha espresso tutto il suo piacere per il Concilio e la sua parte di novatore in esso. Come uno che succhia una caramella deliziosa, ne ha rievocato di nuovo e minutamente tutte le fasi per i suoi preti, e non vi ha trovato nulla di men che perfetto. (Fede e carità si esigono a vicenda)

Esterrefatto, l’ho sentito spiegare come fosse stato un gran progresso che il Concilio avesse chiamato i cristiani «il popolo di Dio»; con ciò, lui e gli altri padri avevano pensato di darci, a noi ignari, «un elemento di continuità con l’Antico Testamento», che ci collegava ad Abramo, ed era rimasto per duemila anni «un po’ nascosto». Ora, a me non pare che, poniamo, santa Teresa la Grande o San Pio X, o San Carlo, per non aver saputo di essere «popolo di Dio», avessero perduto qualcosa di essenziale in santità e profondità della fede; e a dirla tutta, ho sempre ritenuto quella auto-definizione come presuntuosa, almeno quanto la definizione del Vaticano II come «la nuova Pentecoste», data dagli stessi padri conciliari. Si son detti da soli che era sceso su di loro lo Spirito Santo, cosa su cui perfino Paolo VI ebbe alla fine dei dubbi, visto che parlò di «fumo di Satana penetrato nella Chiesa»; allo stesso modo mi hanno arruolato nel «popolo di Dio», io che mi sento a malapena in una comunità di «peccatori perdonati»: e poi non diceva quel tale che sotto Cristo «non c’è più né giudeo né greco»?

Il Concilio è stato accusato «di non parlare di Dio»: invece l’ha fatto già al «primo atto». E come? Ma con la riforma liturgica! Che è stata «molto bene» (sic), è stata un «aprire tutto il popolo santo». Trasecolo. Difende anche il rovesciamento – esiziale – per cui della Messa s’è voluto eclissare il senso di sacrificio, dunque il collegamento alla Croce e alla Passione, per farne una «mensa», una festa e una Pasqua. Sicché il cristiano, «se prima adorava , chiedeva perdono ed offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, oggi ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio»; sicché diventa «un uomo consapevole di non dover scontare pena alcuna per i propri peccati» (2) – e dunque come stupirsi se le chiese si svuotano? Ma no, ha detto il Papa ai suoi preti, in questo modo il Concilio «ha affermato il primato di Dio, il primato della rivelazione», che sarebbe «espresso nel tempo pasquale e domenicale, giorno della Resurrezione».

Ovviamente, ha difeso la cosiddetta collegialità, ossia l’assemblearismo vescovile che punta a fare di Pietro un primus inter pares, dimidiandone il primato: la cosa «è stata al centro di discussioni molto accanite, direi un po’ esagerate», mentre «serviva per esprimere che i vescovi insieme sono un “corpo”, continuazione del “corpo” dei 12 Apostoli»...

Ha parlato di come il Concilio ha accontentato «gli esegeti cattolici», ossia i teologi di cattedra, «che si sentivano in situazione di inferiorità (negatività) nei confronti dei protestanti che facevano le grandi scoperte»: e in cosa consisteva questa inferiorità supposta? Nel fatto che i teologi si sentivano «legati» dalla Tradizione, un ceppo che li legava al passato, al contrario dei protestanti che sono più liberi. Via la Tradizione dunque! Ratzinger ha ricordato come «Paolo VI, con tutta la delicatezza e il rispetto, propose 14 formule per ribadire che la fede è basata sulla Parola e sulla Tradizione in quanto la certezza della Chiesa sulla fede non nasce solo da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa. Potevamo scegliere tra 14 formule, ma una dovevamo sceglierla».

Si può immaginare una situazione più umiliante? Il Papa che s’affatica a concepire 14 formule da inserire in un documento conciliare, sempre più accomodanti nella speranza che gli «esegeti cattolici» non si offendano, e li implora: sceglietene almeno una! Risulta dunque che il Concilio ha smantellato la dottrina, rovesciato il rapporto con Dio (per cui non siamo più noi a servirlo, ma Lui al nostro servizio), seminato la confusione e tutte le tendenze ereticali che vediamo, perché bisognava non scontentare gli «esegeti cattolici» di 50 anni fa, vogliosi di alleggerirsi dai fardelli dogmatici per competere coi teologi protestanti che facevano «grandi scoperte». Hanno poi fatto le «grandi scoperte»? Non ne saprei indicare una, non so voi.

E bisognava sentire il tono, sognante e nostalgico, con cui Benedetto XVI evocava le «grandi aspettative» del Concilio, in quegli anni «pieni di speranza, di entusiasmo, di volontà di fare nostro il progresso». È sembrato come un pittore che, trovata in cantina una sua vecchia tela, si congratula del suo capolavoro e vi dà ancora qualche piccolo tocco di pennello, non per mutarne nulla, ma per non sapersi staccare dall’opera così ben riuscita.

Ha concluso che il Concilio «sempre più si realizza come vero rinnovamento della Chiesa». Ed ha incitato i preti a «lavorare perché il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa. Speriamo che questo Concilio vinca». Preti che, tornati alle loro parrocchie, si sarebbero trovati alle prese con tutte le note piaghe post-conciliari: l’abbandono della pratica, l’analfabetismo dottrinale travolto dalla cultura della «spontaneità», la «macchina dei sacramenti», la penetrazione in parrocchia delle sette cattoliche che forse non lo sono più, la burletta umiliante degli «incontri prematrimoniali» con coppie che vanno già a letto da tre anni e che divorzieranno entro cinque, e lo schiacciante peso della burocrazia clerical-vescovile: questionari da riempire, incartamenti, direttive da leggere, incontri e piani «pastorali» fallimentari ma continui, occupazioni incessanti che non lasciano tempo per meditare e pregare, e il tutto nel quadro del tragico smarrimento della propria identità e utilità sociale...

Il Papa, sì, ha riconosciuto qualcosa: «Seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata. Miserie e problemi»; ma per lui la colpa non è del Concilio «vero», bensì del «Concilio dei giornalisti», che si svolgeva «fuori» dalla Chiesa. Per i media, ha detto, «il Concilio era una lotta politica, di potere tra i diversi poteri della Chiesa. Il vero Concilio ha avuto difficoltà a realizzarsi. Il Concilio virtuale è stato più forte del Concilio reale».

Capito? Per il Papa Ratzinger, il disastro conciliare è colpa dei giornalisti. Tutta esterna al Concilio, non interna. È una analisi, se vogliamo chiamarla così, che non fa onore alla supposta intelligenza del teologo Ratzinger; in passato ha saputo far di meglio. Fu Paolo VI, nel Discorso del 7 dicembre ’65 che chiuse il Concilio, ad esaltarlo come lo storico momento in cui «la religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione dell’uomo che si fa Dio»: non è in questo trapianto contro natura, annunciato con funesto entusiasmo, il succo del disastro conciliare? Dopotutto, i giornalisti sono proprio i portavoce della «religione dell’uomo che si fa Dio»: dunque interpretando a loro modo il Concilio, hanno esercitato il loro diritto.

Il vecchio catechismo ci insegnò che l’uomo «è stato creato per adorare Dio, amarlo e servirlo in questa vita, e goderne eternamente nell’altra». Oggi, dalla conciliare Gaudium et spes, abbiamo appreso che è Dio ad adorarci: l’uomo «è in terra la sola creatura che Dio abbia voluto per se stesso»: una lezione che monsignor Brunero Gherardini ha definita «assurda e blasfema» in quanto «sovverte i valori, sottoponendo il Creatore alla creatura» che inoltre «escluderebbe tutto il creato, con leccezione del solo uomo, dal suo fina alla glorificazione esterna del Creatore». (3)

E Gherardini è un monsignore, un teologo inserito nella Chiesa, mica un laico scanzonato e irriverente: è lui che trova «assurdo e blasfemo» quel testo conciliare. Può dunque il Concilio aver enunciato bestemmie, e il Papa non dice nulla? Né punisce Gherardini né corregge il testo? La blasfemia resta e convive con chi la rigetta; nella stessa Chiesa: com’è possibile? E tale ambiguità irrisolta, sarebbe colpa dei giornalisti?

Personalmente, voglio dirvi come e perché ho trovato imbarazzante il discorso del Papa ai suoi preti romani. Quel compiacimento verso una costruzione ritenuta perfetta , senza rapportarsi alla realtà sottostante che ha prodotto. Quell’auto-referenzialità auto-complimentantesi. Quel giudicare importantissime questioni che importanti non sono, come la dizione «popolo di Dio» al posto di Chiesa militante; quel «riformismo» da ufficio e da scrivania; quel narcisistico spaccare il capello su cose minime, tempeste in bicchieri d’acqua, cura ossessiva di elaborare terminologie il più vacue e vaghe possibile, facendosi sfuggire l’essenziale... dove li ho già visti?

Ma sì, nell’eurocrazia di Bruxelles. Negli «sherpa» che preparano gli incontri internazionali. In Mario Monti per dire uno sherpa esemplare. È l’atteggiamento mentale dei «tecnici», dovunque essi salgono sul podio.

Il giovane Ratzinger è stato un «tecnico» del Conclave; e in perfetta buona fede, è rimasto un «tecnico». Abbiamo avuto un «tecnico» in Vaticano, anche questo in omogeneità con le tendenze attuali del «mondo» ormai esausto delle ideologie, ed incapace di elaborare audace, e governare la realtà indomabile.

A me, dopo il discorso dl presto-non-più-Papa ai preti romani, è rimasto un dolore: con quella difesa estrema del Concilio, per me tramonta la speranza di rivedere – nel corso della mia vita restante – la Bellezza nel rito, nei canti, nella Chiesa e nelle chiese. Ha ragione Enrico Maria Radaelli nella sua folgorante intuizione: se la Chiesa di prima affermava la «Verità dogmatica», si può parlare anche di «Bellezza dogmatica», in quanto – come assevera Tommaso d’Aquino – Verità e Bellezza convertuntur, coincidono, fanno tutt’uno. Rinunciando alla Verità per adottare non so che «linguaggio di amore per l’uomo», il Concilio ha rigettato la Bellezza. La bruttezza dunque non è accidentale alla nuova Chiesa; è consustanziale al post-Concilio, come gli è consustanziale l’allontanamento dalla Verità incisivamente – splendidamente – definita. E il triste dramma, è che i cristiani fedeli si abituano alla bruttezza, finiscono per non vederla più – e si abituano alla falsità.

Ma chissà. Io sono solo uno di quelli che «assistono» a questo Golgota miserevole e banale, la dimissione di un Papa che «stacca» come staccano ormai dopo le 18 tutti i tedeschi impiegati (4)... la resurrezione mi sembra impossibile. Ma anche allora, a tutti sembrò impossibile.





1) Enrico Maria Radaelli, «Il domani – terribile o radioso? – del dogma». Roma 2011, pagina 81.
2) Mario Palmaro, «La Bella Addormentata», Vallecchi, 2011, 170. Il falso monaco Enzo Bianchi ha tratto le ultime conseguenze da questo atteggiamento: «Un Dio che castiga merita di essere negato, non creduto». Enzo Bianchi è superiore a Dio, che è meno compassionevole e meno ecumenico...
3) Brunero Gherardini, «Concilio Vaticano II. Il discorso mancato», Torino 2011, pagina 36-7.
4) È una mia piccola malignità gratuita. Mons. Paglia ha riferito che, in una recente udienza, il Papa è sembrato non riconoscerlo. Se fosse Alzheimer, Benedetto dovrebbe comunque stare sulla croce? Chissà quanti pontefici, nei secoli passati, hanno potuto rimbecillire serenamente dietro il Portone di Bronzo, accuditi dalle suore, mentre la Curia agiva ed operava a loro nome. Ma questo era prima della tv e dell’informazione spietata e totale. Lo spettacolo atroce della demenza progressiva, di un Pontefice che non solo non riconosce le persone, ma non ricorda più i gesti rituali, la Messa e la benedizione, ma delira scandalosamente dal balcone nelle tv, è qualcosa di semplicemente insostenibile. se questa è la veità, Benedetto XVI ha fatto (credo) bene a lasciare. certo, come dice Nicolas, è l’estremo cediemnto al dio della Modernità. Ma anche questo l’ha voluto il Concilio, l’esposizione di ciò che era prima mantenuto lontano, fuori della vista delle plebi.



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