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Frankenstein-politik (parte II)
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L’implosione dell’Italia repubblicana nata dalla Resistenza e figlia del Risorgimento determinerebbe il declino di quei circoli di potere che l’hanno generata e tenuta in vita, quelle elites che altro non sono che la continuazione dei circoli risorgimentali protagonisti di quell’infelice processo di unificazione di cui ci apprestiamo a celebrare i 150 anni: per costoro il problema del governo del Paese non è la Destra o la Sinistra (come non lo fu ai tempi del Connubio prima e del trasformismo poi). Il problema è salvare la matrice di quella forma statuale che ha attraversato con plumbea indifferenza un secolo di storia, liberale, fascista o democratica che sia stata. Ora che il comunismo non è più un problema, per le elites, che hanno fatto l’Italia contro se stessa, occorre recuperare i frammenti sparsi nella storia, prima che si affermi con Bossi e Berlusconi l’idea di rifare l’Italia, partendo dall’inizio e di rifare un’altra Italia: per ciò che riguarda Berlusconi a partire dalla Resistenza, per la Lega addirittura dall’inizio, cioè dal Risorgimento.

Come già avevo avvertito nell’articolo dell’ottobre scorso contro il processo di ristrutturazione del Paese portato avanti da questo governo, poteri forti e strutture sociali stataliste di vario tipo sono da sempre alleate, Confindustria, banche e sindacati si danno la mano, Sinistra e Destra convergono: il giornale del fascista-antifascista Scalfari ha iniziato il duello finale, chiamando a raccolta tutti gli eredi della tradizione risorgimentale e resistenziale, fascisti e antifascisti che siano.

Per questo Fini è stato arruolato. Egli rappresenta l’eredità di un’idea nazionale che costituì il compimento della rivoluzione nazionale nata dall’Italia risorgimentale. Come il mancato arruolamento del Fascismo a fianco delle altre forze occidentali, spinse Mussolini all’alleanza con Hitler, così l’inevitabile esclusione degli eredi del Fascismo dal processo fondativo della repubblica nata dalla resistenza durante il periodo del cosiddetto arco costituzionale ha arruolato in passato le truppe neofasciste sul versante reazionario.

Nel progetto delle elites laiciste del Paese solo il recupero anche di quell’esperienza (dopo quello del mondo cattolico attraverso i cattolici democratici per conto e dei comunisti) è in grado di saldare il blocco nazionale capace di completare l’unificazione italiana iniziata 150 anni orsono. E più ancora gli eredi del Fascismo appaiono in grado di interpretare creativamente e liberamente il futuro, rispetto alle cariatidi novecentesce degli eredi del comunismo o a quelle diafane e dissolventi del cattolicesimo democratico, entrambe in qualche modo bloccate dalle proprie rappresentazioni passate.

Recuperare l’eredità del Fascismo alla democrazia repubblicana, come costoro hanno in mente, significa soltanto ricondurre la rivoluzione italiana alla sua pienezza, operare e saldare in una apparente coincidentia oppositorum tutta la vasta gamma di coloro che fecero contro o senza la Chiesa la storia d’Italia a cavallo tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX.

Per completare la rivoluzione italiana è necessario recuperare il Fascismo e la sua straordinaria potenzialità rivoluzionaria, i germi di futuro libero e selvaggio, giovane ed irruento, fascinoso e libertario, ma anche gerarchico ed organico, che esso portava con sé: questa rinascita della primazia dello Stato come sintesi delle diversità e di tutte le diversità, dello Stato banditore di valori politicamente corretti altro non è che la versione soft, aggiornata, progressista, futurista della eticità dello Stato. Nella libertà del processo storico che si autodetermina a prescindere da valori preesistenti, il Fascismo costituisce persino un esito assai più avanzato e sintetico, rispetto ai prototipi liberali e socialisti, che lo avevano preceduto.

Non a caso nel pensiero di Gentile il Fascismo è non solo un ritorno all’ispirazione del vero liberalismo che fece il Risorgimento, ma anche autogoverno e vero comunismo, giacchè - come ebbe a scrivere nel 1943 - «chi parla di comunismo oggi in Italia, è un corporativista impaziente delle more necessarie di una idea che è la correzione tempestiva dellutopia comunista e laffermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo».

Per Gentile il Risorgimento vero è sì liberale, ma spiritualistico (uno spiritualismo ben diverso dal cattolicesimo tradizionale): perciò per Gentile icona del Risorgimento è Mazzini e, tra i cattolici, figure risorgimentali saranno per lui non a caso gli antesignani di un certo modernismo, cioè Rosmini e Gioberti.

L’insufficienza della rivoluzione liberaldemocratica che aveva fatto l’Italia era già stata resa palese per Gentile dalla politica crispina nell’ultimo scorcio del XIX secolo e dall’interventismo che avrebbe forgiato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale la nuova Italia. Per superare definitivamente quella insufficiente democrazia liberale, il Fascismo aveva dovuto travasare dall’esperienza bellica l’energia spettacolare della violenza, ad un tempo rivoluzionaria (cioè apportatrice di una novità storica) e statale, cioè surrogatoria delle carenze del vecchio stato liberale.

La rivoluzione fascista, che culminerà con le riforme istituzionali, con l’istituzione del Gran Consiglio e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, a giudizio di Gentile elimina nel rinnovato ecumene statuale da essa creato finanche la distinzione tra fascisti e antifascisti, entrambi unificati nella italianità.

Questa tensione unitaria, unificante e rivoluzionaria, porterà grazie alla dottrina corporativa al superamento del dualismo tra governanti e governati ed all’affermazione dell’identità tra individuo e Stato, in quella che veniva chiamata con orgoglio la libertà fascista. La dinamicità della dottrina fascista farà sì che nel corporativismo di Ugo Spirito lo stesso programma diciannovista del Sanseplocrismo troverà forme di sintesi ed equilibri più avanzati, con l’idea di comunismo gerarchico, in cui gerarchia della tecnica significava dare a ciascuno e da ciascuno ricevere secondo la sua competenza ed in cui la totalità vivente si presenta non più come organismo di classi e di istituti, ma come organismo di funzioni specializzate.

A ben vedere il Fascismo era nei suoi presupposti dottrinari ben più avanti tanto delle anticaglie liberali classiche, quanto delle simmetriche pseudoantitesi marxiste o delle moderne evoluzioni democratiche. Se il Fascismo rivendicava per sé anche l’antitesi agli immortali principi dell89 non lo faceva in nome della Tradizione, ma in forza del fatto che – come ebbe a dire nel discorso del 28 ottobre del 1925 – esso prende da tutti i programmi la parte vitale ed ha la forza di realizzarla: insomma la Rivoluzione Francese era superata da quella delle camicie nere. Il Fascismo, piaccia o meno, aveva una sua grandezza, non si attardava nel passato, non gestiva il presente e non si accontentava del domani: guardava al futuro. Il fascismo aveva un suo discutibile progetto, ma aveva un progetto. Fascismo e futuro sono in un certo senso sinonimi.

Non crediate sia un caso che il nuovo gruppo parlamentare creato da Gianfranco Fini si chiami Futuro e libertà.

Già avevo scritto riguardo a Fini nell’ottobre scorso che «futuro sarà proprio la nuova parola dordine, sia esso quello della Fondazione Fare Futuro di Fini, sia quello di Italia futura di Luca Cordero di Montezemolo. Guardare al Futuro sarà il motto che ritornerà… la nuova parola dordine per sradicare questa Italia, (popolana ed arcaica, tenacemente attaccata senza neppure più esserne neppure conscia, ad una identità in via di definitiva dissoluzione) dai propri residui caratteri identitari. Futuro: questa sarà la parola magica per portare a sinistra anche la Destra’, per fare aderire a quel vecchio progetto rivoluzionario, senza che se ne accorgano, perfino i reazionari».

E’ un programma: lucido, spietato, elitario. Lasciate perdere i battibecchi da cortile, le interviste e le controinterviste, i proclami e gli ultimatum, la politica spettacolo, gli appartamenti di Montecarlo e guardate lo sfondo. L’Italia-canaglia del duo Bossi-Berlusconi ha osato sfidare la propria storia, ha revocato in dubbio la propria palingenesi, ha ripudiato il proprio duplice processo fondativo: ha messo in discussione il Risorgimento e la Resistenza.

Fini, che di questa storia è parte integrante, ha detto no.

Il Fascismo è il figlio maturo del primo e l’antitesi dialettica della seconda, ma non ne è estraneo.

E i capibastone dei poteri forti gliel’hanno ricordato, ma soprattutto riconosciuto. E’ una inclinazione vecchia della Destra quella di smettere di guardare al passato, cioè al fascismo-reale, per generare da quella matrice forme nuove ed attuali. E’ una tentazione difficilmente repressa quella poi di affrancarsi da un sistema valoriale appartenuto al clerico-fascismo concordatario o post-bellico, quando la morale fascista incarnò il clichè Dio-patria-famiglia, declinandolo apparentemente sulla falsariga della morale cattolica. Ma in realtà  nelle vene dei fascisti veri Dio è sempre stato assai più il Dio di Hegel, che quello della Rivelazione, la patria si connotava in termini nazionalisti e la famiglia era più assai più la garanzia di continuità della stirpe, che la comunione di vita, fedeltà e amore, cara alla morale cattolica.

A Fini è stato offerto di diventare parte della nuova sintesi politica che la consunta stagione dell’antifascismo storico si appresta ormai a inaugurare: in fondo Fini s’è sfilato davvero la camicia nera dal doppiopetto, ma dice ciò che lo stesso Almirante ha sempre predicato, ovvero pacificazione nazionale, all’insegna dei valori di un nuovo patto costituente. Fini è davvero - piaccia o meno - il delfino di Almirante.

Se qualcuno guardando alle mosse di Fini pensa alla riedizione dell’esperienza di Democrazia nazionale sbaglia. Democrazia Nazionale era il partito nato nel 1978 proprio da una scissione dell’MSI: lo fondarono Ernesto De Marzio, Raffaele Delfino, Enzo Giacchero, Giulio Cesare Graziani e Pietro Cerullo, Gastone Nencioni, il segretario del sindacato CISNAL Gianni Roberti, il direttore de Il Borghese Mario Tedeschi, gli esponenti monarchici Alfredo Covelli e Michele Pazienza, la comandante militare delle ausiliare della RSI Piera Gatteschi Fondelli, gli indipendenti entrati nel MSI-DN nel 1972 come Armando Plebe e Giovanni Artieri. Secondo l’analisi di Piero Ignazi quell’esperimento politico nacque «dallinsoddisfazione, latente da tempo, per la gestione almirantiana del progetto di apertura verso lesterno e di trasformazione del partito in una destra democratica, rispettabile, priva di nostalgismi, aliena da tensioni rivoluzionarie e da amicizie pericolose» (1).

Tuttavia quel progetto, che rimproverava ad Almirante l’indisponibilità a sostenere in Parlamento il governo monocolore di Andreotti e che voleva evitare l’accelerazione del processo di convergenza tra DC e PCI, trasformandosi in una stampella (peraltro negletta) a favore della DC, non potè che fallire, nonostante a quella nuova formazione aderissero ben 17 deputati su 34, 9 senatori su 15 ed entrambi i capigruppo parlamentari, Ernesto De Marzio (vero leader dell’operazione) e Gastone Nencioni, oltreché i vertici della Costituente di Destra (una formazione moderata alla quale parteciparono personaggi come l’ex deputato democristiano Agostino Greggio (segretario generale), l’ex prefetto partigiano di Asti Enzo Giacchero (presidente), il giornalista e regista cinematografico Gualtiero Jacopetti, ex ufficiale di collegamento dell’Esercito del Sud con le truppe alleate nel ‘43/ ‘45). Inoltre pochi mesi dopo la sua nascita, a Democrazia Nazionale si unì, uscendo dall’MSI, anche gran parte della corrente Destra Popolare.

Contrariamente all’alternativa al sistema predicata da Almirante, i demonazionali, già quando erano ancora solo una corrente del MSI, auspicavano «unazione articolata con tutte le altre forze disponibili per impedire al sistema di diventare comunista», prendendo altresì posizione contro ogni totalitarismo e nell’accettazione definitiva del pluralismo politico e sociale, del metodo democratico e del principio di libertà come valore prioritario.

L’elettorato missino non li seguì (Democrazia Nazionale conquistò appena lo 0,6% dei voti) e non poteva essere altrimenti: i vertici del MSI, nel chiamare a raccolta i propri seguaci, bollarono quell’esperienza politica come un nuovo 25 luglio, ma il paragone non reggeva. La caduta del Fascismo era stato un vero e proprio golpe istituzionale, ordito dall’ala più liberale del regime in chiave anglofila e filooccidentale. Il progetto di Democrazia Nazionale era invece una patetica operazione di retroguardia, pensata in chiave anticomunista e certo invisa ai poteri forti del Paese, che invece benedicevano in chiave di ristrutturazione del quadro politico, i disegni morotei che avrebbero portato al governo di unità nazionale col PCI nuovo grande protagonista.

La riprova di ciò si ebbe quando i demonazionali si trovarono nella necessità di risolvere il problema del finanziamento. La razza padrona, cioè Umberto Agnelli disse no. I soldi, un prestito di 100 milioni, arrivarono da un imprenditore edile milanese: Silvio Berlusconi (2).

Quell’esperienza politica che secondo taluni fece di Democrazia Nazionale un’Alleanza Nazionale impaziente, era fallita perché non aveva risolto un problema politico storico, che era stato alla base della nascita del MSI: l’eredità del Fascismo. La base nostalgica di quel partito non voleva lasciare la casa del padre.

L’operazione di Fini - nonostante paradossalmente il simbolo di Generazione Italia, la Fondazione da cui è nato Futuro e libertà, sia straordinariamente simile a quello di Democrazia Nazionale - è assai più sottile ed è assai più simile nel suo progetto a ciò che accadde il 25 luglio. Dopo Fiuggi egli ha convinto i suoi a lasciare la casa del padre ed ha quindi purgato il partito dell’eredità del Fascismo storico.

Ma Fini, come i congiurati del 25 luglio, resta sottilmente figlio di quella storia, che in realtà non rinnega, ma attualizza. L’inveramento del Fascismo nel fascismo storico è stata solo una tappa della dinamica storica, cui è seguito il periodo – quello postbellico – in cui quell’idea ha dovuto contingentemente interpretare un ruolo controrivoluzionario. Purgato oggi il Fascismo della sua parentesi clericale e reazionaria, Fini, con i suoi stravaganti atteggiamenti quasi radicaleggianti, ne porta la rimanente eredità futurista e permanente a diventare parte del cemento di un assetto politico più avanzato, in cui le consuete elites giacobine convinceranno l’antifascismo più illuminato a riconoscere nel neofascismo futurista la componente dialettica del nuovo ordine democratico. Insomma nient’altro che un passo ulteriore nel compimento dei principi di Progresso e Democrazia.

Futuro e Libertà
, nuova forza laica di Destra, sarà un partito da sommare alle forze centriste cui erodere voti e potere (e con essi quei residui di cattolicesimo seppure democratico, fin qui sparso equanimemente a Destra e a Sinistra). A titolo esemplificativo la sintonia tra il neo-fascista Fini ed il radicale Della Vedova in materia di bioetica è l’agghiacciante sintesi e icona di questa Frankenstein-politik e nient’altro che il next step dell’operazione elefantino, quando al posto di Della Vedova Fini candidò in Alleanza Nazionale la voce di Radio Radicale, l’israelita Marco Taradash.

L’idea di un partito dazione di massa è da sempre il sogno segreto di quelle lobby che gravitavano attorno al quotidiano il Mondo ed al Club di Roma.

Ma fin dagli esordi della repubblica il sogno è rimasto tale: non fu possibile realizzare questo progetto con l’elitario Partito Repubblicano di La Malfa (attenzione: Pietro Armani, consigliere economico del leader dell’Edera Ugo La Malfa è stato tra i primi acquisti che Fini fece per Alleanza Nazionale e Mario Baldassarri, in passato anch’egli in orbita repubblicana, è oggi coordinatore pro tempore del Gruppo Futuro e Libertà!). A questo stesso progetto si dedica da anni Eugenio Scalfari – l’attuale guru della lobby – che, dalle colonne di Repubblica, provò a trasformare secondo quel profilo persino la DC guidata dalla corrente di Base di Ciriaco De Mita, ma incappò nella furibonda resistenza dei cattolici popolari di CL, che appoggiarono contro di lui il duo Andreotti-Forlani: ad onta dei suoi interpreti, l’opposizione cattolica generata un secolo prima dal Sillabo, era ancora in qualche modo feconda.

Fallito ulteriormente il tentativo di utilizzare per questo scopo il PDS e poi i DS, è ora il plastico retroterra di Fini il più adatto a supportare quel progetto, in una sintesi postfascista di neofascismo depurato e antifascismo smitizzato, all’interno di un quadro di democrazia nazionale condiviso e subalterno ai poteri forti occidentalisti e anglofili. Insomma per gli eredi del Duce, dopo i perfidi giudei anche l’inimicizia con la perfida Albione è archiviata, con grande soddisfazione british-israel.

Di questo progetto è certamente sodale, come avevo avvertito, una parte importante del mondo ecclesiale, quella corrente doroteo-progressista, che va da Ruini a Tettamanzi e che, figlia della peggiore cultura modernista, è ormai irrimediabilmente omologata alle ideologie di ogni contemporaneità. Abituata ad una parassitaria coesistenza con lo Stato, grazie a quarant’anni di coabitazione democristiana, questa cultura rimpiange quel modello di libertas, garantita sotto ed entro l’egida dello Stato. Quest’idea di Chiesa, chiamata a rivestire unicamente un ruolo residuale e testimoniale nella politica e nella società, è compatibile evidentemente con l’ipotesi sostenuta dai cattolici democratici ed espressa dal progetto politico incarnato da Romano Prodi. Ma essa si attaglia assai bene anche con la linea clerico-moderata del partito di Centro e con il retropensiero del cardinale Ruini, in cui il ruolo politico della Chiesa è quello di razionalizzazione moderatrice dei processi di modernizzazione e secolarizzazione sempre più accelerati.

Dietro il caso Boffo c’era - come dicevo - uno scontro politico, che Vittorio Feltri si è incaricato di rendere palese, lanciando per conto della famiglia Berlusconi un messaggio chiaro oltre Tevere. Anche qui sono i fatti a confermare quell’analisi che vi proponevo e che mi ha procurato - credo a torto - il rimprovero di essere un po’ visionario. Non era così: nell’ultimo numero di Famiglia cristiana, e precisamente nell’editoriale dal titolo La politica degli stracci, il potente settimanale paolino fa eco ai sommessi brontolii della Conferenza Episcopale Italiana e invoca con parole gelide e felpate precisamente la realizzazione di quel progetto.

Vi è scritto: «Una politica responsabile, che miri al bene comune, richiederebbe oggi, da tutti, un passo indietro, prima che il Paese vada a pezzi, e unintesa di unità nazionale (e solidale) che restituisca ai cittadini il diritto di eleggersi i propri rappresentanti (…). Manca, come ha scritto il presidente del Censis Giuseppe De Rita, ‘una cultura politica della complessità e del suo governo’. Sè perso di vista il bene prioritario del Paese, come ha ammonito il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, nellomelia dellAssunta. Anche la questione morale è ormai arma di contesa. Dalla politica ad personamsiamo al contra personam. Ma la giusta esigenza di chiarezza vale per tutti. Sia per chi ha la pagliuzza che per chi ha la trave nellocchio. La clava mediatica (o il metodo Boffo’) contro chi mette a nudo il re è un terribile boomerang, in un Paese che affoga in una melma di corruzione, scandali e affari illeciti (…). Come in passato, urge anche oggi lappello di don Sturzo ai liberi e forti’. Prima che sia troppo tardi» (3).

Lo so, cari lettori ed elettori di Destra, cari nostalgici, che ci siete restati male e me ne dispiaccio: ma non stupitevi di vedere Fini e Bersani oggi uniti nella lotta e forse domani avversari dialettici, cioè rispettabili protagonisti di un nuovo quadro politico. Se non ce la fate, è che siete solo un po’ obsoleti, niente più… come i vecchi demonazionali che pensavano ad una Destra post-fascista in chiave anticomunista o come i vecchi nostalgici che ricordano un Mussolini immaginario. O come larga parte di quel mondo della cosiddetta Destra Sociale che ha a lungo cercato nella Tradizione (fosse pure neopagana) la permanenza di valori in cui vivere e resistere a dispetto della insussistenza della contemporaneità. Forse vi dicevate fascisti, ma non lo eravate e, se siete stati abbagliati dal Futuro, forse è solo perché vi è sembrato per un attimo più simile all’Eternità di quanto non lo sia questo grigio presente.

Quanto a voi cari elettori cattolici, che magari avete guardato a quella Destra come baluardo per la difesa dei valori della Tradizione, ben lo sapevate in cuor vostro di avere commesso un errore, magari un azzardo e forse pure un peccato. Non sentitevi traditi più di tanto da Fini, divorziato, radicaleggiante e sostenitore delle nuove disinvolte teorie in materia di bioetica. Mussolini dopo molte amanti e quasi quotidiane consumazioni occasionali, non morì con a fianco donna Rachele, ma Claretta Petacci e lasciò morire senza pietà il figlioillegittimo Benito Albino. Berlusconi, almeno, le escort le paga, le riceve a Palazzo Grazioli e non a Palazzo Venezia e quanto ai figli non se la cavano malaccio, anche se, specie qualcuna di secondo letto, mentre si fa mantenere, storce la bocca.

Sui temi bioetici, poi, Fini in fondo può scandalizzare solo gli ingenui: sposa a destra il progetto Lebensborn che si sviluppò tra gli scienziati e i medici del Terzo Reich e a sinistra la vasta gamma di libertari e totalitari dediti alla costruzione del Mondo Nuovo di Aldous Huxley.

E infine voi, cattolici moderati, non meravigliatevi di vedere persino Scalfari e Bagnasco convergere verso posizioni contingentemente comuni per spirito di servizio e per il bene della nostra amata nazione: in politica l’aggiornamento impone perfino ai prelati annoverati tra  i conservatori di guardare più a ciò che unisce che a ciò che divide.

Purtroppo questa è l’Italia e questa è la Chiesa.

Per la Chiesa ci penserà il Signore. Per l’Italia non vorrei che avesse ragione Bossi: per rifarla, occorre probabilmente prima demolirla alla radice.

Domenico Savino

Frankenstein-politik (parte I)



1)
P. Ignazi, «Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano», Il Mulino, Bologna, pagina 176.
2)
R.Delfino, «Prima di Fini», Bastogi, Foggia, 2004, pagina 47.
3)
www.famigliacristiana.it/Informazione/News/articolo/la-politica-degli-stracci.aspx


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