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Barile a 200? Prezzo “moderato”
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Forse una buona notizia: i giapponesi si sono stufati di comprare Buoni del Tesoro americani. Per convincersi, il Giappone, che detiene da solo il 12% del debito pubblico USA (586,6 miliardi  di dollari), ha dovuto assistere alla perdita su quei suoi presunti «valori» del 7% in soli tre mesi.

Il motivo è il deprezzamento del dollaro, che non è compensato dagli interessi pagati sui BOT americani. Di fatto, l’interesse è meno di zero in termini reali (1).

Una volta convertiti i BOT-dollaro e le azioni-dollaro in yen, secondo Merrill Lynch, anche tenuto conto dei capital-gain, gli investitori giapponesi hanno perso nell’anno scorso il 4%. Se avessero investito nei BOT tedeschi, i Bund, avrebbero guadagnato il 4,5%. Ma persino se avessero messo i soldi nei Buoni del Tesoro giapponesi decennali, che notoriamente sono quelli che rendono meno nel mondo, avrebbero guadagnato 1,50%.

Così - finalmente - i tre massimi colossi assicurativi nipponici, Dia-Ichi Mutual Life Insurance, Meiji Yasuda Life, e Sumitomo Life, nonchè alcuni grandi fondi d’investimento, hanno smesso di aumentare le riserve in dollari ed hanno aumentato la quota in euro, guadagno garantito, visto che l’euro s’è apprezzato in un anno del 15% sul dollaro.

Altri istituti finanziari stanno cautamente liberandosi dei Treasury Bills. Perchè è una buona notizia?

Perchè è solo uno sciopero dei grandi creditori verso gli USA (Giappone primo, Cina seconda) che  possa scongiurare il rincaro del petrolio a 200 dollari, come previsto da Goldman Sachs, avvicinando invece la fine della bolla speculativa su greggio e materie prime. Come?

Tutto si gioca sull’inflazione americana, incendiata dalla Federal Reserve con le sue immani iniezioni di liquidità alle banche e speculatori americani decotti. Come si sa, dal 2006 la FED ha smesso di pubblicare i dati sulla M3, la massa monetaria nella più vasta accezione, per non far vedere a quanto ha fatto salire l’inflazione.

Il solo indice che consente di indovinare  la situazione reale è quello che la Federal Reserve di Saint Louis emette dal 1991, la «money of zero maturity» (moneta a scadenza zero, che è l’M2 meno e più vari ammenicoli). Questo indice mostra che la massa monetaria è cresciuta del 9,18% nel 2007, quindi ancora «moderatamente» rispetto al 2008, quando - dai dati del primo trimestre - risulta cresciuta del 30,3%, a rispecchiare l’espansione monetaria perseguita da Bernanke fin da gennaio (2).

Mettiamo che Bernanke continui il pompaggio a questo ritmo per i prossimi quattro anni: poichè  i prezzi crescono con la massa monetaria, a quel punto i prezzi in USA sarebbero cresciuti del 236%. Il che significa che il petrolio, per mantenere il prezzo «reale» di oggi (sui 115 dollari il barile) costerà allora 386 dollari; dunque il barile a 200 sarebbe considerato un prezzo moderato, denunciante un declino del costo del petrolio in termini reali.

Ovviamente, se l’attuale politica della Banca Centrale Europea continuasse, nel 2012, per comprare un euro ci vorrebbero 5 dollari, invece dell’1,56 attuali. E’ lo scenario dell’iper-inflazione americana, stile Germania 1923. Quanto è probabile?

Può sembrare incredibile che Bernanke continui a pompare il 30% di denaro creato dal nulla per ben quattro anni. Ma egli ha già dimostrato di non temere l’inflazione, pur di «salvare il sistema» altamente speculativo basato sui debiti.

Se la misura del successo per la FED è scongiurare un crollo dei valori immobiliari, su cui tutta la piramide speculativa si regge, allora Bernanke abbasserà ancora i tassi il più vicino possibile allo zero, e la FED continuerà a «comprare» crediti sub-prime dalle banche offrendo dollari appena stampati, come già sta facendo, e a sostenere con dollari creati dal nulla ogni banca che minaccia di colare a picco.

Da novembre, una nuova presidenza con idee «sociali» potrebbe accentuare questa tendenza,  sperando di contrastare la crisi con misure di stimolo all’economia (meno tasse e minor costo del denaro), aumento del deficit già colossale, magari barriere doganali contro le importazioni  «che ci portano via il lavoro», il che non riporterebbe indietro i posti finiti in Cina, ma aumenterebbe il costo delle importazioni, intensificando la fiammata inflattiva.

Nè Obama, nè Hillary, nè John McCain hanno dato la sensazione di capire la natura e la misura della crisi americana, nè di avere idee sul come trattarla a parte gli «stimoli» inflattivi.

Una sola cosa può scongiurare questa deriva: la rivolta dei detentori dei US Bonds, ossia del debito pubblico americano. Perchè per continuare il pompaggio monetario e tener gonfie le bolle che il capitalismo terminale ha creato, gli USA devono emettere molto, molto più debito persino di quanto facciano oggi.

Deve venire un momento in cui anche le teste mediocri dei banchieri centrali asiatici e dei petroliferi del Golfo, apparentemente insaziabili prenditori di quella carta, rifiuteranno di ingollare altri BOT, il cui frutto è meno di zero in termini reali e che, denominato in dollari, si deprezza al ritmo del 30 % annuo o giù di lì. Sarebbe la dolorosa catarsi necessaria.

L’America, a secco di credito facile, dovrebbe rialzare i tassi, cominciando così la disagevole via del risanamento economico e della riduzione dell’inflazione.

Ovviamente, ciò ridurrebbe la liquidità disponibile sul pianeta e rallenterebbe la crescita mondiale, con tristi effetti su varii Paesi; ma ridurrebbe anche il capitale a prestito a disposizione degli speculatori internazionali, che sono quelli che hanno grandemente contribuito ai rincari di petrolio, materie prime ed alimenti nell’ultimo anno.

Già oggi si dice che alcuni hedge fund (speculativi) hanno dovuto limitare il loro «leverage» (indebitamento) a «solo» cinque volte il capitale proprio, anzichè le 20-30 di prima. Se i tassi d’interesse aumentassero, sia i fondi sia le banche che prestano loro il denaro dovrebbero fare i conti in un ambiente più severo; gli speculatori sarebbero privati delle «leve» con cui ingigantiscono le loro speculazioni, o avrebbero leve più corte.

La recessione-depressione globale, specie in Paesi molto esposti nella bolla immobiliare (USA e Inghilterra, Spagna e Irlanda) e in quelli emergenti che si sono troppo indebitati (est europeo, Paesi baltici) avrebbe effetti meritatamente tremendi, il che ridurrebbe la domanda e quindi il rincaro delle materie prime. Con il declino dei prezzi di tali materie, anche la speculazione se ne allontanerebbe, in parte per il fallimento (speriamo) degli speculatori.

Per le materie prime rinnovabili, come le granaglie, i rincari recenti hanno già stimolato le colture: fra 12 mesi, potremmo assistere ad un eccesso di offerta, una volta esclusa la speculazione  incenerita dai ribassi, perchè dopotutto i consumi alimentari crescono, ma abbastanza lentamente da consentire alla nuova produzione di tener testa alla domanda.
Il petrolio è un caso a sè. Da una parte, la recessione mondiale dovrebbe ridurne la domanda, e quindi il prezzo, tanto più se i tassi d’interesse alti mettono fuori gioco la speculazione. Ma è sul lato dell’offerta che sta il problema.

Nonostante i rincari, poche sono state le nuove scoperte o le maggiori produzioni: solo Iraq e Brasile hanno registrato aumenti del greggio disponibile, mentre in tutti gli altri Paesi tipo Messico, Venezuela e Nigeria i governi locali hanno imposto tali ostacoli alle compagnie (ovviamente estere) di estrazione, che la produzione in quei Paesi è calata del 10%. Anche la Russia ha una produzione declinante.

Ma quando i tassi d’interesse saranno alti e per la recessione la domanda tenderà al calo, e Paesi sgovernati come il Venezuela e la Nigeria torneranno a corto di denaro, essi probabilmente addolciranno gli ostacoli - ideologici e politici (la Nigeria tassa le compagnie straniere al 98%) - che impediscono prospezioni ed estrazioni moderne, e che sono la causa della produzione declinante.

Anche Mosca sarà indotta a meglio ricevere le compagnie che hanno tecnologie più efficienti di estrazione, oggi tenute alla porta.

Intanto, le durezze della depressione può darsi indeboliscano le resistenze (anch’esse ideologico-ecologiche) allo sfruttamento delle sabbie bituminose dell’Orinoco e dell’Alaska.

E’ possibile persino - se i creditori asiatici la smetteranno di ingoiare Us Bonds e quindi di incoraggiare l’inflazione USA - che il petrolio cali. Che torni a 70, magari a 50 dollari il barile.

Un’alba, si capisce, che sorgerà sulle rovine della recessione globale. Ma bisogna accontentarsi: questo è lo scenario più roseo oggi immaginabile.




1) «Japanese lose yen for US Teasuries», Bloomberg, 28 aprile 2008.
2) Martin Hutchinson, «Oil in 2012: $ 200 or $ 50?», Asia Times, 30 aprile 2008.


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