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Mentre Obama si accanisce contro Putin, la Cina...
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«La Cina ha fatto storia militarmente tre volte nella settimana», ha titolato il Financial Times.

Giovedì, la fregata lanciamissili Lin Yi attracca nel porto di Aden, la città assediata dagli Houti dove infuriano i combattimenti, e imbarca 225 civili stranieri, cinesi e di un’altra decina di nazioni – rigorosamente asiatiche – e li porta in salvo a Gibuti: un’operazione ad alto rischio, coi militari cinesi in assetto di difesa bellica che si sono piazzati sul molo, brillantemente completata in 75 minuti. Molto indicativo il fatto che, a tutta prima, le agenzie occidentali hanno parlato di «truppe straniere non identificate sbarcate ad Aden»: segno dell’assoluta sorpresa dell’intelligence USA, che lì ha intere flotte da guerra, due portaerei con le rispettive squadre navali. Le immagini tv di bambini che salivano la scaletta della nave battente la rossa bandiera, e di donne che baciavano i marinai, ha molto innalzato l’immagine della Cina in tutta l’Asia.



Pochi giorni prima, la tv di Stato di Pechino ha mostrato la foto – satellitare – di tre sottomarini ancorati nell’isola meridionale cinese di Hainan, in una base segreta: tre sommergibili a propulsione nucleare Tipo-093G (i più avanzati) palesemente dotati di missili intercontinentali, che cominceranno il servizio verso l’autunno.

Inoltre, la Cina ha annunciato la messa in cantiere di una seconda portaerei, ed annunciato che la spesa militare per il 2015 crescerà di un altro 10,1%. Anche l’export cinese di armamenti è cresciuto senza precedenti: del 143% negli ultimi cinque anni, il che ha fatto della Cina il terzo mercante mondiale del settore. A fine settimana il Pakistan ha firmato un accordo preliminare per l’acquisto di otto sottomarini cinesi convenzionali, per un valore potenziale di 5 miliardi di dollari — il più grosso affare della storia cinese, fino ad oggi.

Ovviamente, il Financial Times ammette che questo aumento di spese belliche è in normale rapporto con la crescita dell’economia; anzi, in percentuale al Pil, la Cina spende meno di parecchi suoi vicini. Più che i volumi, è la natura dell’armamento che è indicativa: oculatamente strategico, volto a proiettare la potenza in mari lontani.

Umiliante disfatta finanziaria

Ma la vera sconfitta che Pechino ha inflitto a Washington nelle ultime settimane non è certo di tipo militare; è finanziaria, ossia ha colpito là dove all’America fa più male. Nella sua Banca Asiatica di Infrastrutture e Investimenti (BAII) stanno entrando a frotte sempre più alleati degli Stati Uniti: dopo Inghilterra e Germania, Francia e Italia, anche Australia ed Olanda hanno bussato alla porta; la Corea del Sud ha fatto sapere che l’adesione «è necessaria per giocare attivamente la parte che il nostro paese merita nella comunità internazionale». Lo stesso giorno, la Russia ha dichiarato pubblicamente di aderire alla BAII perché vuole assolutamente essere nel progetto «Silk Road Economic Belt», che del resto attraverserà il territorio russo sotto forma di ferrovie superveloci.

Il peggio, per Washington, è che la BAII, ancor prima di essere operativa, già sta silurando l’altro ambizioso progetto americano per perpetuare la sua egemonia nel Pacifico: il TTP, Trans-Pacific Treaty. Analogo al Trattato Transatlantico che gli eurocrati e le lobbies stanno perfezionando occultamente con i delegati americani a Bruxelles e che assoggetterà di fatto le legislazioni commerciali europee a quella americane, il TTP deve riunire una lista di Paesi (Australia e Brunei, Canada e Cile, Giappone e Malesia, Messico e Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam) sotto l’ombrello americano. Come si vede, sono Paesi con un affaccio nel Pacifico, da cui gli americani hanno accuratamente escluso il più importante: la Cina.

Ebbene: la riunione di questi dodici Paesi per attuare il TTP, tenutasi alle Hawaii a marzo, s’è sciolta senza alcun accordo né promessa di rivedersi. Il lato divertente dello scacco è il motivo: il fatto che il presidente Obama, ormai anatra zoppa, non ha la capacità di ottenere dal Congresso (suo nemico) che ratifichi il TTP con un sì o un no — è quasi certo che i senatori (pagati dalle loro lobbies locali) imporranno emendamenti che, di fatto, cambieranno le carte in tavola per le controparti. Anche i più obbedienti satelliti, come Canada e Giappone, hanno pubblicamente dichiarato che «non metteranno sul tavolo le loro posizioni nel negoziato finale finché il Congresso non dà all’amministrazione Obama la Autorità di Promozione Commerciale»... il che dovrebbe incitare a confronti col servilismo di Bruxelles, che il «nostro» trattato lo sta firmando senza obiezioni. Il punto è che sarà probabilmente il prossimo presidente USA a poter ricevere dal Congresso la suddetta Autorità... se ne riparlerà nel 2017. Quando la BAII avrà già spiegato le possenti ali. Basta vedere la lista dei paesi associati, pubblicata dalla Xinhua.



Ciò ha fatto esclamare alla ex segretaria di Stato Madeleine Albright che «gli USA hanno completamente incasinato l’approccio alla BAII con la Cina»; e sempre perché il Congresso, in odio ad Obama e in piena frenesia di ostilità fanatica, ha rifiutato la richiesta cinese di avere maggior diritto di voto nel Fondo Monetario e Banca Mondiale, organizzazioni condominiali dove USA e Regno Unito si sono assegnate la quota maggiore di «millesimi», dunque il comando nelle decisioni d’investimento, mentre la Cina è praticamente inesistente.

«Uno dei motivi per cui Pechino ha creato la Banca Asiatica di Infrastrutture e Investimento è questo», ha detto la Albright. Quanto all’ex segretario al Tesoro (di Clinton) Larry Summers, ha concluso che l’ottuso rifiuto americano di «adeguare in modo sostanziale l’architettura economica globale» ha fatto perdere agli Usa «lo status di superpotenza».

Ultima, estrema umiliazione, dopo aver invano cercato di far abortire la BAII, Washington... chiede di entrarvi. Il segretario al Tesoro, Jacob Lew (decisamente sono dappertutto, questi J) ha dichiarato: «Voglio sia chiaro che gli USA sono pronti a dare il benvenuto alla BAII in quanto complemento delle istituzioni finanziarie esistenti». Ma sono proprio le «istituzioni esistenti» ad essere in pericolo.

BRICS uniti a Pechino

Anche i BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – hanno annunciato (sotto la guida di Putin) di volersi trasformare in un «alleanza politica» con un obiettivo preciso: «riformare il sistema finanziario internazionale», ossia FMI, Banca Mondiale, insomma l’ordine di Bretton Woods e l’egemonia del dollaro come moneta di riserva mondiale.

Detto fatto: i BRICS hanno creato una banca – un piccolo Fondo Monetario – fra loro, con quote paritetiche, che con 50 miliardi di capitale – poi saliti a 100 – dispone di un polmone finanziario che – come ha sottolineato il vice-moscovita Medvedev – consentirà ai Paesi soci di «dipendere meno dai processi negativi nell’economia mondiale e superare la volatilità dei mercati».

Traduzione: siccome tutti prevedono un prossimo crack finanziario come e peggio di quello del 2008, e sempre per la stessa causa, l’avventurismo sregolato di Wall Street, questa crisi imminente se la subiranno gli americani e i loro servi europei; i BRICS alzeranno il ponte levatoio, la BAII fornirà ai soci le liquidità per gli investimenti in Asia. In Asia, non altrove. Sarà l’America ad essere isolata, altro che Mosca o Pechino.

Si aggiunga che – dopo le minacce (stupide e odiose) di Londra di escludere la Russia dal sistema di clearing internazionale SWIFT – Mosca sta velocemente perfezionando un proprio SWIFT nazionale, che già unisce 91 banche. E siccome (segreto di pulcinella) SWIFT è totalmente aperto allo spionaggio economico americano (NSA sa tutto di tutte le transazioni che possono fare concorrenza alle imprese USA, e in genere gli europei gliele offrono sul piatto d’argento, spontaneamente), Londra – con la sua velleità di abusare a scopo ricattatorio e «politico» di organi internazionali che l’ordine globale vuole neutrali – è riuscita nell’impresa di aiutare la Russia a sottrarsi allo spionaggio finanziario occidentale. Non male.

Anche Teheran, nel suo piccolo...

Quanto all’accordo anti-nucleare con l’Iran, esaltato come «storico» da Obama, finirà lacerato dalle zanne del Congresso al soldo degli interessi di Netanyahu, e gli USA perderanno un’altra occasione di mostrare la qualità di benefica potenza globale. Del resto, dopo un decennio di negoziati, l’accordo è una promessa a rivedersi a giugno e firmare qualcosa... Teheran chiede almeno che le sanzioni siano sollevate tutte e insieme, una volta che le entità anti-atomiche avranno constatato la sua attuazione alle misure di riduzione (strettissime, più strette di quelle che vengono chieste ad ogni altro Paese che ha firmato i trattati anti-nucleari); Washington vuole ritardare più possibile la levata di sanzioni, il Congresso ha già promesso (a Netanyahu) di non levarle mai, il Pentagono ha fatto sapere per l’ennesima volta che «tutte le opzioni restano sul tavolo», compreso il bombardamento delle centrali nucleari iraniane con la nuova bomba da 50 quintali che distrugge le fortificazioni sotterranee.



Un comportamento che rivela nei centri del potere statunitense, più che il ben noto ottuso bellicismo autodistruttivo, la confusione e la schizofrenia, tirati come sono dalle diverse lobbies ostili ad ogni accordo e dunque all’interesse nazionale: tra gli israeliani, e il complesso militare-industriale, non si dimentichi la lobby saudita.

Perché il vero scopo dell’accordo non è impedire a Teheran di diventare una potenza militare nucleare (a cui Teheran ha rinunciato con una fatwa della Guida...) ma di frenare la sua ascesa come potenza egemone regionale. Le sanzioni costano all’Iran il 50% delle sue esportazioni di greggio che non riesce a vendere, e 100 miliardi di beni congelati. Gli interessi per mantenere questa palla al piede dello stato iraniano sono tanti e forti, ovviamente a cominciare dai sauditi per finire con gli ebrei. Ma anche qui si vede una ambivalenza e contraddittorietà delle politiche USA, che ha qualcosa di misterioso. Alcuni (Meyssan) ritengono che Kerry e la sua controparte iraniana abbiano stretto un patto segreto, prima dello «storico» accordo strombazzato, che contemplerebbe quanto segue: gli USA avrebbero bisogno di spostare le loro forze militare dal Golfo all’estremo Oriente (puntano a una base militare a Brunei), e vogliono assicurarsi che Teheran non ne approfitterà per estendere ancora la sua influenza già ragguardevole: L’Iran è lo stato protettore di Hezbollah in Libano, di Assad in Siria, del Governo di Baghdad in Ira1, e può mobilitare le minoranze sciite dell’Arabia Saudita, oppresse e abitanti nelle zone dei pozzi petroliferi. L’aggressione saudita allo Yemen ovviamente indica che questa consegna di fatto all’Iran della egemonia nell’area non è propriamente gradita.

D’altra parte, la promessa di levata delle sanzioni è collegata a così tante condizioni e restrizioni, umilianti perfino – per placare gli israeliani – che l’ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema, e quello che dietro le quinte ha più spinto per un accordo con gli USA (neutralizzando gli esponenti contrari, le Guardie della Rivoluzione), adesso s’è detto «né pro né contro» l’accordo quadro di Losanna: «È possibile – ha detto – che la controparte ci voglia imporre dei limiti nei dettagli. Non sono mai stato ottimista quanto ai colloqui con gli Stati Uniti. Anche se ero, per contro, a favore dei negoziati. Non avere alcun accordo è meglio che un accordo che rovini gli interessi e la dignità della nazione». Si capisce che Khamenei debba difendersi all’interno, per aver concesso troppo agli americani, che hanno indebolito la sua posizione.

E Teheran ha mandato la fregata Alborz accompagnata da una nave logistica al largo dello Yemen in fiamme, per proteggere, ufficialmente, «la sicurezza delle linee di navigazione e gli interessi della repubblica islamica d’Iran in alto mare». Le due navi si sono piazzate vicino alle due portaerei USA presenti, e Teheran fa sapere di star sviluppando dei droni esplosivi che possono complicare la vita alle marine che si affollano nel Golfo; inoltre, «condivide la tecnologia dei droni-suicidi con Hamas ed Hezbollah»

Ma Washington vuole o non vuole un accordo? È disposto a sollevare le sanzioni oppure no? Non si capisce, forse, nemmeno a Washington. Certo è una gran paura: quella di mettere in moto un’apertura in cui si gettino gli alleati degli USA, concorrenti nei futuri rapporti commerciali con Teheran. Nel febbraio scorso, capi di imprese francesi si sono recati a Teheran, e sono stati minacciati da John Kerry: «Se i francesi violano le sanzioni saranno puniti, e lo sanno». La Peugeot, che costruiva auto in Iran, ha avuto un danno enorme dalle sanzioni; e adesso, il mercato fa gola alla General Motors.

Le minacce americane trovano ormai docili solo gli europei. E nemmeno tutti.

Anche il presidente ceco caccia l’ambasciatore

Andrew Schapiro
  Andrew Schapiro
Il presidente ceco si chiama Milos Zeman, e il celebre castello di Praga è la sua residenza ufficiale. Il 6 aprile scorso, ha fatto diramare il seguente comunicato: d’ora in poi, «l’ambasciatore Schapiro troverà la porta chiusa al castello»: l’ambasciatore americano Andrew Schapiro aveva criticato in tv la decisione del presidente di recarsi in Russia, alla commemorazione della seconda guerra mondiale, che gli altri servi europei hanno deciso di boicottare su ordine USA, in odio a Putin. «Non vedo l’ambasciatore ceco a Washington dire al presidente americano dove deve e non deve andare», ha spiegato Zeman. Una lezione di civiltà e di educazione diplomatica, che speriamo non costi ai cechi attacco terroristico false flag. Perché, come si ricorderà, anche il presidente della Tunisia aveva cacciato fuori dal palazzo l’ambasciatore USA per dignità nazionale, e dopo pochi giorni, ecco la strage del Bardo.

In ogni caso, sono già due volte che ambasciatori USA vengono «messi al loro posto». Andrew Schapiro è – bisognava precisarlo? – un altro j. Forse a Washington dovrebbero cominciare a capire che troppi giudei nel servizio diplomatico, con la loro specifica arroganza «sionista», lo «stile Netanyahu» (o Nuland), la brutale rozza maleducazione da padroni del mondo che danno ordini agli animali parlanti, lacchè e inferiori, non sembrano dare splendidi risultati in politica estera.




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