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Il razionalismo ci ha ingabbiati
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Una citazione: «Vivere, in quanto soggetto poetico, non è fare quel che si sa fare; è fare ciò che non si sa fare, e così sentire e vivere la rugosità del vivente, generare incontri ed atti inattesi, creare e far vivere delle relazioni che ci aumentano, che ci fanno autori, vivere e creare storie».

E’ una citazione di un poeta inglese di nome Kenneth White.

Mi pare colga il motivo profondo della nostra decadenza occidentale: tutti vogliamo fare solo ciò che sappiamo fare. E’ il male oscuro della professionalizzazione, della specializzazione, dove gli specialisti tendono a fare solo ciò che sanno fare, non oltre. E’ la burocratizzazione della vita e il dominio soffocante della burocrazia, perchè «burocrazia» significa esclusivamente attenersi alle procedure accertate, fare quel che si sa fare e nulla di più.

Quanti giovani, al primo appuntamento di lavoro, dicono: ... ma questo non lo so fare, non l’ho imparato. Accade così che non siano impiegabili, perchè non hanno le qualificazioni che il mondo del lavoro richiede: e manco le imparano, questo è il punto. E’ un miscuglio di superbia e di viltà, che ci rende tutti più piccini, e fa arretrare la civiltà. Ci chiudiamo nei metodi certificati, nella razionalità accettata, che diventa la nostra prigione collettiva.

Viene naturalmente in mente lo slancio di Cristoforo Colombo, che fece ciò che non sapeva fare, e il suo grandioso errore: voleva raggiungere Cipango e trovò le Americhe. Magellano non sapeva attraversare il Pacifico – non aveva nemmeno idea di quanto fosse immenso, insuperabile – e non lo superò, lui trovò la morte in un’isola delle Filippine, quasi tutti i suoi uomini morirono di fatiche, scorbuto, tempeste. Della sua flotta di cinque navi, ne tornò solo una, con pochi scheletrici superstiti; aveva circumnavigato la Terra, e si chiamava «Victoria». A bordo c’era un italiano, Antonio Pigafetta, che non era nemmeno un marinaio: toccò a lui raccontare la storia vissuta e creata.

Tutti i grandi navigatori erano dei dilettanti, il contrario di specialisti e professionisti. Palesemente, non sapevano fare ciò che vollero fare; non sapevano che i loro cibi conservati erano inadatti a tanto lunghe navigazioni, perchè mancavano di vitamica C; si misero in mare su imbarcazioni inadeguate, caravelle e galeoni, patetiche casette galleggianti, a vele quadre, col baricentro troppo alto. Solo più tardi, la necessità di vivere negli oceani, della corsa e della caccia alla balena, trasformò le navi in macchine marine, con velature, sartie ed opere vive e morte adatte agli uragani e alle boline, e l’arte del navigare in una tecnica precisa e accertata. Ma senza ciò che insegnò lo slancio, il coraggio e le sofferenze inenarrabili dei primi navigatori, tutto ciò non ci sarebbe stato.

Dalla storia della navigazione, dai rischi sconosciuti affrontati e che si è imparato per necessità a controllare, si vede qual è il posto che deve avere nella vita la «razionalità»: un posto strumentale, subordinato. La razionalità come utensile, ma che non sostituisce l’intuizione, la convinzione, il «senso» del mare e del vento che fa i veri navigatori, la solitudine, responsabilità e il coraggio di cui sono impastati i comandanti – tutto quell’indicibile slancio a cui Conrad ha dedicato ogni sua pagina.

Oggi, temo, abbiamo adottato la razionalità come primum ed ultimum dell’intelligenza. Ignoriamo che la razionalità, del navigare come della scienza e dell’organizzazione (anche Pasteur, anche Koch, anche Newton e Schliemann furono dei dilettanti, che si misero in testa di fare ciò che non sapevano fare) è venuta «dopo» lo slancio vitale del «navigare necesse est, vivere non necesse»,
come suo strumento. Abbiamo ereditato da quegli eroici incompetenti tutto un insieme di procedure, di sistemi, di modelli – magari matematici – e ci siamo convinti che bastino a leggere il mondo, i suoi misteri e i suoi pericoli.

E’ l’estremo esito dell’illuminismo: la comparsa dello stupido razionale. Specializzato. Professionale.

Si sarà notato che White parla del «vivere come soggetto poetico». Attenzione, qui non si tratta di letteratura, di estetica. White si rifà ad Aristotile e alla sua espressione «nous poietikòs»: che significa «intelligenza della poiesis», ossia intelligenza del fare. Quella che nasce dal fare – dall’imparare a fare ciò che non si sa. E’ questa, dice White, «lintelligenza fondamentale, lintelligenza veramente primaria. Ein questo senso che uso la parolapoetica’, e questa intelligenza si può applicare a tutti i campi: alla letteratura, alla filosofia, alla politica».

La politica? «I greci hanno inventato la politica», risponde, «ma la politica si disseccherebbe, sarebbe politicantume, senza la poetica di Omero, che è oceanica, che irriga il terreno della politica».

Capito? Ricorre ancora la metafora della navigazione oceanica, creatrice di «intelligenza poetica». Omero è l’oceano degli Elleni, che diede loro la sete di gloria, di tentare cose mai tentate, perfezioni e bellezze impossibili. Ogni greco imparava a leggere sull’Iliade e sull’Odissea, e da adulto, da politicante, gli restava dentro un seme di eroi, una aspirazione alla magnanimità, all’amicizia fra combattenti anche nemici; curiosità e ingegnosità ulisside: ecco il «nous poietikos» nel suo senso pregnante, che significa anche «intelligenza poetica», perchè la poesia, per gli antichi, era incantamento, evocazione, il «far vivere qui» ciò che non è visibile o possibile.

Temistocle l’astuto, i trecento alle Termopili contro l’oceano umano persiano, Platone, ogni navigante levantino, Fidia lo scultore, sono irrigati da Omero, poeti in armi e in scalpello. Nemmeno il disastroso Alcibiade potè essere un politicante come quelli che oggi abbiamo sul collo. Che sono «professionisti», professionisti della politica: fanno esattamente quel che sanno fare. E si vede, dai risultati.

White gira il coltello nella piaga della nostra decadenza occidentale: «La cultura, ad esempio. La cultura è stata portata da tante cose disparate, attraverso i secoli e i millenni. E stata portata dal mito, dalla religione, dalla metafisica, alla fin fine dalla Storia. Oggi, non si vuole più questo. Oggi la cultura non è più portata da niente, si può dire. Cè una produzione culturale, non ce nè mai stata tanta, ma esagerando appena un posi potrebbe dire che è una produzione culturale senza cultura».

E’ precisamente così. La razionalità imperante, da illuminismo terminale, ha smascherato il mito, deriso la religione, scartato la metafisica come inutile e superata: il risultato è che ha gettato nella discarica la cultura. Ossia l’anima dell’Occidente. Che non può vivere di «ragione pura», ha bisogno di farsi portare da oscure forze, liocorni, sirene, animali araldici sullo scudo di Aiace o del cavaliere crociato, magia della musica che ammansisce le fiere (e che nessuno mai sentirà), dèmoni striscianti sui capitelli romanici a insidiare il fedele, che ne viene avvertito; e racconti di mare e di guerra, gatti con gli stivali e tropici conradiani.

Senza questo, cosa s’è perso?

Il «nous poietikòn», l’«intelligenza poetica». L’intuizione sopra-razionale o a-razionale che insegnava ai Magellano e ai Colombo, a «presentire» il vento, a vedere nell’increspatura la tempesta: anche oggi, un velista da diporto sa di non essere un marinaio, senza questo «senso», senza sentire il mare che «parla», mitico Oceano. Lo sciatore non diventa maestro senza «il senso di Smilla per la neve», e nemmeno il coltivatore, il muratore, l’artigiano diventa eccelso nella sua arte, senza il senso affinato del fare, la rugosità della materia, la resistenza della terra arata, il rispetto per le antiche divinità che mandano la grandine o la pioggia: tutte cose che non si possono insegnare se non «facendo», perchè non possono essere razionalizzate. E non lo saranno mai, in quanto si tratta di esperienze «viventi».

Gli antichi dicevano che ad insegnare agli uomini come costruire un forno da pane, il primo arco, l’arte del navigare a vela ed ogni altra «arte», erano stati gli angeli. Ma questo vale anche per la scienza esatta: si pensi gli esperimenti mentali di Einstein, fantasia poetica esatta, sul tempo come dimensione dello spazio. Persino la matematica, pura razionalità astratta, non si può esercitare che in modo mediocre (come Odifreddi) senza la genialità, il «senso» dei numeri che visita, come un angelo, coloro che hanno provato a fare ciò che non sapevano fare, Pascal, Fermat, ed altri annusatori del vento di quei mari algebrici.

Solo la dimenticanza (o il rifiuto) del «nous poietikon» ci dà, oggi, giovani che dicono «non lo so fare», e quel che sanno fare, la società non lo richiede. Ma c’è di peggio: magistrati senza il minimo senso del diritto, medici senza senso clinico (e senza senso di umanità), generali senza senso strategico e convinti che le guerre si vincano coi computer, politici di professione senza cultura, senza dignità e senz’arte nè parte oltre alla «legalità», alle «normative» (e ai mille modi per violarle legalmente).

Per questo la scienza non avanza, la cultura e la poesia muoiono, la musica occidentale è stata abbandonata per il rock, il rap e il pop: altre lingue, di schiavi, di tribali, non di elleni che hanno imparato a leggere su Omero e dunque sono concretamente poetici. Tutta gente che fa solo quello che sa fare – così non corrono rischi, i colleghi non ti deridono, la cattedra è assicurata. E non si scopre più nessuna America; persino quando la si ha, torreggiante terra incognita, sotto gli occhi.

Qualche giorno fa la economista principale della Federal Reserve di Richmond (una delle dodici FED), dottoressa Kartik Athreya (una signora d’origine indiana) ha trovato il tempo di denunciare i blogger che si occupano di economia (il loro numero è molto cresciuto, causa crisi) come dilettanti pericolosi per l’ordine pubblico.

«Chi non ha fatto un master di un anno in un corso post-laurea in un decente dipartimento di scienze economiche non può dire la sua. Leconomia è una scienza difficile, molto difficile; pochi hanno lidea di quanto sia difficile. I blogger non-qualificati la fanno facile. Staremmo tutti meglio se ignorassimo questi pagliacci».

La professoressa Athreya si degna di spiegare: ogni volta che un economista professionale e laureato dice una cosa, lo dice perchè fa riferimento a modelli matematici troppo complessi perchè l’uomo comune possa capirli, ma profondamento concepiti, duramente provati al computer; modelli accertati, mica sciocchezze dilettantesche.

E’ appunto questo il guaio. I modelli matematici degli economisti con master sono la causa del disastro economico-finanziario attuale. All’università si insegna oggi che, per essere economisti, bisogna ignorare la realtà e studiare algoritmi, equazioni, modelli. Come dice Evans-Pritchard del Telegraph rimbeccando piccato alla signora della FED, «lerrore fondamentale della moderna accademia è di pretendere (o di credere, il che è anche più imperdonabile) che leconomia sia una scienza, soggetta alle leggi di Newton».

Invece economia è anzitutto «storia» dell’economia, degli errori passati; e di «senso» economico, ossia della realtà sociale, antropologica, psicologica che determina i fatti economici. Nè Adam Smith, nè David Ricardo, nè Friedrich List (l’inventore dell’economia politica, dimenticato a nostro danno) e nemmeno Keynes (laurea in matematica) avevano fatto il master in economia in una università di nome. Maurice Allais, Nobel per l’economia, è un ingegnere: forse per questo gli economisti accademici non l’hanno sentito, quando – da vent’anni – gridava che il sistema finanziario e monetario instaurato dalla globalizzazione e dai modelli matematici era «una cumulo di piramidi di debiti luna sullaltra», che sarebbe crollato disastrosamente.

I blogger non sono tutti privi di rami di follia. Ma la soluzione, se c’è, potrà venire da questi dilettanti che esplorano vie vietate dal pensiero accademico, censurate dai Giavazzi cattedratici, e arrischiano rotte sconosciute.

Abbiamo gran bisogno di uscire da questa razionalità che è diventata la nostra gabbia, di annusare il vento con timore e coraggio dal ponte di un brigantino, sentire di nuovo «la rugosità della vita», scoprire genti nuove, e riscoprire il «senso» che si acquista solo in un modo: facendo quel che non si sa fare.

E come sloggiare dalla gabbia i giovani che non trovano lavoro perchè «questo non lo so fare»? Nei miei deliri riformatorii, instaurerei un sistema educativo del tutto contrario a quello attuale che trasmette – nel migliore dei casi – modelli, procedure, «normative» e «legalità». Sognerei una scuola che facesse ripercorrere ai giovani le fasi che i nostri antenati hanno compiuto e superato per giungere all’oggi razionale e tecnologico.

Per cominciare, li farei coltivare un piccolo orto, allevare una capra o una gallina, o lavorare in un’azienda agricola o aiutare un pastore: i più impararenno almeno quanta fatica e sapienza richiedano la terra e le bestie, e che il cibo non viene dai supermercati; anime più fini potranno magari trovare lì il loro «senso» delle stagioni, del cane e del gregge, e dunque un mestiere onorato, un vero saper-fare. Tutti, almeno, dovrebbero intuire che le cose più importanti di quei mestieri (di tutti i mestieri) sono quelle che non si possono trasferire nè leggere sui libri, che bisogna imparare facendosi i calli sulle mani.

Poi, un anno o due presso artigiani, come apprendisti. E un anno ancora su un peschereccio, lontani da mammà e vicini all’urlio delle onde bianche, a rizzare cime molli d’acqua gelida, insultati dal mastro perchè non capisci gli ordini in lingua nautica, che è precisa come un laser. Se non altro, impararebbero la bellezza, l’utilità e il sollievo del tornare sui libri per perfezionare con la teoria quel che si è imparato nella pratica, e il rispetto per la gente umile che sa fare quel che fa, ed anche di più.

Ma naturalmente è solo un sogno.



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