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Premio Darwin all’Italia
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La dottrina della selezione naturale ha avuto una piccola falla qualche notte fa a Civitavecchia: quattro ragazzi da discoteca morti per eccesso di velocità e di tutto il resto, e l’unico sopravvissuto è il solo che è risultato fatto di coca; che era anche precisamente quello a cui amici a ragazzine avevano lasciato il volante. La sopravvivenza del più scemo.

Adesso i lettori sensibili non mi tempestino di proteste per la mia insensibilità, mancanza di carità, non mi accusino di sputare su dei morti: si astengano, prego. Perchè qui è confermato ancora una volta che la scemenza uccide, la vacuità mentale, l’incapacità di attenzione e di sensatezza «giovanile» sono letali. E siccome gli scemi sono refrattarii ad argomenti e ragionamenti, provo il sarcasmo: chissà, se riusciremo a farli vergognare della loro cretineria, magari qualche vita potrà essere salvata. Il ridicolo come prevenzione. Magari riuscissimo a far toccare con mano ai giovani quanto sono idioti.

A parte gli ultrasettantenni, la classe d’età tra i 17-25 anni è quella che statisticamente muore di più: e sempre per futili motivi, per quella idiozia non curata che li fa vivere come uno sciame di pirloni ridacchianti, coatti di mode dettate dal business più sporco, conformisti e superficiali fino alla morte. Meritano almeno il Premio Darwin alla memoria, quello che spetta agli incapaci nella lotta per l’esistenza.

Non sono tutti così, protesterà il lettore sensibile. Ma sono tanti. All’ospedale di Civitavecchia si son presentati per riconoscere i cadaveri ben 300 genitori, che dal sabato sera non avevano più notizie dei figli minorenni. Con tanto di foto dei loro ragazzi: spersi chissà dove, a smaltire chissà cosa, e senza comunicazione. Alla fine, solo cinque famiglie hanno vinto la lotteria della camera mortuaria.

«Perchè non si lasciano aiutare?», ho sentito dire una signora angosciata ad una radio locale; «perchè non ci lasciano almeno un numero a cui possiamo telefonare?». A quanto pare, nemmeno il telefonino – questo grande tranquillante che i genitori danno ai loro piccini dai 5 anni in sù, perchè «almeno sono tranquillo e posso controllare dove e con chi è» – serve a qualcosa. Quelli, quando vanno a fare cose pessime, il telefonino lo spengono. Questo apparato per la «tranquillità» di mamma, lo vivono come il bracciale elettronico degli arrestati domiciliari.

E forse non hanno nemmeno torto: non mi importa dove sei, con chi; basta che ti fai trovare, è il messaggio che colgono da  tutta la «libertà» che hanno strappato. Questa «libertà» senza obblighi, protetta da tutte le conseguenze che vengono dal suo uso idiota, mai punita nelle sue cretinerie, avvolta in una impotente indulgenza, li ha resi creature in stato di deprivazione emozionale, soffocate da una spessa coltre di noia da cui, per trovare «esperienze-limite», o quel che credono tali, letteralmente evadono. Come da un carcere.

premio_darwin.jpgQuei 300 genitori davanti alla morgue ci hanno fatto constatare il livello di mutismo di massa in cui si sono chiusi gli adolescenti; uno squarcio da incubo sui rapporti familiari post-moderni, o post-darwiniani. Un così ermetico mutismo ostile non può essere avvenuto in un giorno, dev’essersi instaurato a poco a poco. Devono esserci stati momenti in cui accorgersi che il «nostro» bambino o la bambina così aperta e limpida, erano diventati chiusi, sfuggenti.

Da ex adolescenti possiamo comprendere il perchè: i primi turbamenti che non si possono raccontare, le prime trasgressioni che non si confessano, e i sensi di colpa relativi. Qualcosa che la nostra età non ci aveva preparato ad affrontare, anzi che non si affronta bene a nessuna età; ci vogliono anni per imparare solo a cavarsela.

Ma l’età, oggi, è atrocemente abbassata: a 12 anni è già in agguato l’ipersessualizzazione, la stupida prova iniziatica che ti propone il cattivo compagno, le foto porno sull’MMS o su internet. Il tutto peggiorato da una indulgenza dei «grandi», premi Darwin anche loro: ragazzate, male non fa; ci sono passato anch’io...

Nel paesino in cui abito, la domenica a Messa, praticamente tutte le ragazzine undicenni hanno lunghissimi capelli biondi ondulati; certi ragazzini hanno mèches bionde. Essendo il biondismo raro nel Lazio, è chiaro che le mamme hanno accompagnato quei loro bambini e bambine dalla parrucchiera, per tinta e messimpiega. Ma sì, che male c’è?

A quell’età troppo precoce, certe «esperienze» e le situazioni in cui viene messo chi le fa, sono traumi. Continuate nella clandestinità complice della banda e del branco, guastano irrimediabilmente la volontà, il carattere. Ma peggio, a quell’età, ciò che ti ha fatto il compagno (o l’adulto attratto dall’offerta sessuale della tua tinteggiatura) o il primo sballo, non ci sono – semplicemente – le parole per dirlo.

Non è frequente nemmeno a un ventenne chiamare a casa alle tre del mattino e dire: «Papà vienimi a prendere, sono finito in un fosso strafatto di coca con la tua macchina che è distrutta». Figurarsi se una ragazzina di dodici anni può chiamare: «Mamma, mi sono fatta fare nel cesso di una discoteca pomeridiana – dove faccio la cubista a tua insaputa – da uno che nemmeno conosco, che mi alitava di birra mentre mi sbatteva in piedi: vieni a prendermi, abbracciami, perchè ho devastato la mia vita, sono vuota e sporca, mi hanno trattata come uno straccio e sono al di là di ogni salvezza».

Vi pare possibile?

Forse certe cose si possono confidare a un prete (ma i preti non sono più nel confessionale, devi andarli a cercare in sagrestia, e si adattano alla tua richiesta come a un’incombenza fastidiosa, da sbrigare in fretta); ma forse nemmeno, perchè non si ha, a 12 anni, il linguaggio per dire esperienze da adulti induriti nel male, patibolari, ma nello stesso tempo capaci di introspezione, di bilanci amari.

Una afasia atroce, da molli anime troppo presto perdute, che è colma di rimprovero inespresso: mamma, papà, cosa «mi hai lasciato fare».

Viene da qui la chiusura dei telefonini. «I miei non possono capire». I miei «sanno solo farmi la predica».

L’estate scorsa mi è capitato di trascorrere qualche giorno di ferie accanto a una giovane coppia di buona classe sociale con due figli piccoli: mi ha colpito come quei genitori, ai bambini, non parlassero mai. Sì, era un continuo e vuoto dire: «Non toccare questo», e «mangia ancora un altro cucchiaio»; continui minuscoli e vuoti rimproveri (il bambino toccava il «questo», e non gli succedeva niente), parole che passano da un orecchio all’altro. Ma un vero parlare significativo, dai giovani e sofisticati genitori, letteralmente mai. Più che genitori erano segnali stradali: svolta a sinistra, senso vietato, non buttare per terra la bambola di tua sorella (ordine ripetuto, come una cantilena, senza conseguenza alcuna). Mai, però, un discorso articolato. Mai il racconto, o la lettura di una favola.

In altra occasione ho parlato della necessità pedagogica delle favole nell’infanzia, e raccomandato che fossero le favole più antiche e primordiali. L’ideale prototipo sarebbe la fiaba – il mito – di Prometeo che ruba il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini e ne viene punito con l’aquila che gli morde il fegato in eterno, mentre contro gli uomini, Zeus manda il male peggiore: la prima donna, Pandora col suo vaso pieno di sciagure, in sposa al fratello di Prometeo, che si chiama Epimeteo. E magari, al bambino inquieto che chiede perchè, ripetendo le parole di Esiodo: «Sappi che gli dei tengono nascosto ogni bene che sostenga la vita; se no, col lavoro d’un giorno senza fatica un anno potresti campare».

Non è un insegnamento precoce: non si imparano mai abbastanza presto i duri misteri della condizione umana; che non tutto ciò che accade ha un motivo giusto, o anche solo una ragione. E’ da subito che bisogna capire che ogni «conquista», sia il fuoco o il telefonino, ha un prezzo perchè è anche, misteriosamente, una violenza. Magari può insegnare a un bambino, molto più di quanto crediate, che Prometeo significa «il previdente», Epimeteo è «colui che impara le cose in ritardo» – un cretino da discoteca – e che Pandora vuol dire «piena di doni», ma i poeti la chiamano «il bel male»...

Ma possono andar bene anche le fiabe classiche, Cenerentola, Cappuccetto Rosso: una delle loro funzioni – oltre al mostrare la fatica e il sacrificio del buon incontro, delle nozze col Principe – è di insegnare il linguaggio, quel linguaggio per l’esistenza, fatto di metafore per l’indicibile, che nessuna scuola insegna più. Magari così preparata la vostra bambina, adolescente, potrà riconoscere il lupo, sotto mentite spoglie di disk-jockey.

Capisco che non si può chiedere troppo a genitori, che non tutti possono o sanno «parlare» le favole; nulla li ha preparati al mestiere. Come quasi tutti, viviamo nella corrente psichica dominante, senza metterla in discussione; l’andare controcorrente è faticoso e a volte impossibile, è da minoranze selezionate. Specie i genitori più sprovveduti, quelli che portano le figlie undicenni a farsi la tinta biondo-miele, vanno capiti.

Per questo occorrerebbe una responsabilità superiore, pubblica, del «clima» psichico.

Uno dei 300 genitori davanti alla camera mortuaria ha chiesto: «che cosa possiamo fare, con questi ragazzi?».

Ha ragione, ogni possibile insegnamento è smentito dall’alto, dai manifesti, dalla pubblicità, dalla TV. Il fatto è che nel pericoloso, difficile esercizio di educare, non c’è da inventare. I metodi sono tutti lì, da millenni. Solo che oggi, chi proponesse di adottarli, avrebbe contro l’intera società.

Le discoteche ad esempio: dopo la tragedia della scemenza di Civitavecchia, si son sentite le solite richieste vacue, «cambiare l’orario di chiusura», «vietare gli alcoolici sotto i 18 anni»…

Nessuno che possa dire che non c’è un diritto delle discoteche ad esistere. Che le discoteche non vanno solo chiuse, vanno represse, perchè le finanzia e le crea il business del narcotraffico, per spacciare droga, e sono comprovate cause di morte giovanile.

Ma si provi un politico a proporne la chiusura: avrà contro Espresso, Panorama, l’intero universo mediatico progressista e anche no; sarà dichiarato nazista dai radicali e dalla sinistra in genere, ridicolizzato ossessivamente dalla Litizzetto e dalla Guzzanti – loro due, le nuove «agenzie educative» a cui spetta il giudizio ultimo sul mondo.

Non c’è modo di spiegare, per esempio, questo semplice fatto: che i ragazzini e le ragazzine non vanno in discoteca perchè gli piace; ci vanno perchè è il posto dove vanno i coetanei, e tutti gli adolescenti insieme immaturi e precoci (nel male) non vivono come individui, ma come «sciame»; sciame di farfalle, prigioniere del branco; non possono dire «non mi piace», perchè per dirlo bisogna avere un «io», e non ce l’hanno ancora.

La fiaba del pifferaio di Hamelin dovrebbe insegnare qualcosa, se qualcuno la raccontasse ancora: il mago che col suo piffero portava i topi a buttarsi in mare, fu ben capace di far lo stesso con i bambini.

Bisognerebbe avere rispetto e tremore per questi io incipienti, ancora informi, e sottrarli al pifferaio; ma ci lasciamo intimidire dalle Litizzetto.

Il vecchio trucco sarebbe creare una tendenza giovanile che sostituisca la discoteca con qualcosa d’altro, con «qualunque« altra cosa; se si fa diventare «tendenza» la raccolta dei pomodori in campagna, tutti i nostri topini vorranno far quello.

E’ comprovato: intere generazioni di idioti adolescenti non poterono sottrarsi alla fascinazione delle uniformi e delle bandiere, quando facevano tendenza; si arruolavano volontari, i sedicenni, come oggi accorrono dove ci sono «gli altri», quelli «come me», dal cui giudizio (idiota, come sempre) dipendono spasmodicamente. Almeno, l’idiozia sventata della gioventù spendibile fu spesa per la patria; la loro morte pianta in pubbliche cerimonie e monumenti; almeno, i genitori non furono lasciati soli e impotenti, a chiedersi perchè, come davanti alla morgue di Civitavecchia. Al loro fianco, nessuna patria. Portatevi via i vostri cadaveri privati, ciucciatevi il vostro dolore a casa vostra.

Ma si può proporre qualcosa del genere? «I bambini rieducati in campagna», per esempio?

Eppure i vari centri antidroga – i Muccioli, i Gelmini – fanno questa cura: con il lavoro dei campi, l’allevamento del bestiame cercano di recuperare i caratteri guastati, le volontà distrutte. Ma nella società sono un settore a parte, finanziato dal sistema sanitario, non il centro educativo. La società dominante fa tutt’altro.

Fateci caso: a parte i TG e Piero Angela, la TV è tutta incentrata sul modello-discoteca; un’ossessiva riproposizione di veline, cubiste, giochini a premio scemi da discoteca, sessualità in paillettes, gossip grassi, battute da avanspettacolo. Un diluvio di cacate che richiama la discoteca come Modello Assoluto, come archetipo. La TV ha una parte del tutto egemonica nell’istupidimento generale, nella educazione alla vacuità dell’attenzione, all’ignoranza e alla distrazione mentale facilista che sono una componente decisiva delle stragi del sabato sera.

Ma provate a richiamare l’industria televisiva – specie quella di Stato, ma non solo – alle sue responsabilità verso la società, specie la parte più sprovveduta; provate a dire che essa deve essere uno strumento di educazione, e dunque controllato. Tutti grideranno alla «censura», tutti vi chiameranno nemico della «libertà d’espressione», esigeranno la vostra espulsione dal consesso umano come fondamentalista, nazista, oscurantista. Tutti i Venerabili Maestri dei media, tutti gli Scalfari, tutte le Litizzetto e i Fabio Fazio, saranno contro di voi. E quel che peggio, persino tutti i genitori.

Che fare, allora?

Bella domanda. Il competente Ministero ha promesso «un aggravio delle sanzioni»: multe più dure per i morti ammazzati dalla loro e nostra idiozia. Premio Darwin anche al ministro.



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