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L’impero del Caos: caos dentro, caos fuori
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La protesta sconvolge le metropoli e le provincie, da New York a Los Angeles, da Cincinnati a Oackland e Chicago: in 130 città di 37 Stati, i negri fanno barricate, si scontrano con la polizia, devastano e incendiano. La (vergognosa) sentenza di Ferguson, che ha assolto il poliziotto assassino del giovane negro ha innescato la rivolta periodica. Può diventare una rivoluzione? Un manifestante con un cartello che recita: «Abbiamo ogni diritto di distruggere un sistema che distrugge noi».

È il programma di una rivoluzione. Ma guardate come è scritto il cartello: a mano col pennarello su un vecchio cartone.



Confrontatelo con i cartelli delle nostre manifestazioni sindacali, quelle dove i parassiti pubblici scendono in piazza per avere l’aumento sotto l’egida di «Cisl-Cgil-Uil»: come sono ben scritti e ben stampati. In realtà, a scendere in piazza contro gli statali dovrebbero essere i contribuenti, a cui i salari sono stati falcidiati dalle tasse, dalla crisi o azzerati dalla recessione: ma loro non sono organizzati, i parassiti invece sì.

Ciò che dice il cartello americano fai-da-te è: la protesta va organizzata, e in quella di Ferguson non c’è organizzazione. Nessuno organizza la protesta del malessere dei negri americani traditi, abbandonati e in miseria, ma troppo (completate voi la parola) per accettare un organizzatore.

Potrebbe essere una primavera colorata USA, se solo ci fosse un’organizzazione. Se solo ci fosse una ingerenza straniera, come quelle che l’impero americano ha istigato ed organizzato in Ucraina, Egitto, Tunisia, Libia, Siria... Invece sarà la solita ricorrente jacquerie afro. I negri saccheggiano le bottegucce degli asiatici… Infatti, la prima neve a Ferguson ha raffreddato la primavera nera. D’estate le rivolte negre durano di più. Il potere del Caos non ha nulla da temere.

Di nascosto Washington arma Kiev

«400 carabine da cecchino, 2000 mitragliatori d’assalto, 720 lanciagranate, circa 200 mortai e oltre 70 mila proiettili da mortaio, 150 missili Stinger antiaerei a spalla, 420 missili anticarro». È un elenco degli armamenti che gli USA hanno fornito alla giunta di Kiev, durante la visita del presidente Joe Biden il 20 novembre scorso. L’hanno rivelato degli hackers russi – probabilmente i servizi di Mosca – che sono venuti in possesso di documenti stilati dal Dipartimento di Stato sugli «aiuti» al regime ucraino. I documenti sono stati pubblicati integralmente.

Fra cui spiccano le lettere con cui i comandi ucraini militari tendono il cappello per aver soldi dagli americani per i loro alti ufficiali, bisognosi di quattrini, dicono, per partecipare all’esercitazione congiunta Trident. «Si prega versare 548.280 hrwinie (oltre 30 mila euro) sulla carta bancaria del vice-comandante Denis Stupak» che è della Marina da guerra, inesistente in Ucraina. Perché sul suo conto privato? 30 mila euro sono un sacco di soldi in Ucraina. Del resto John Kerry, in un altro documento, stacca un assegno da 20 milioni di dollari da fornire in beni e servizi per sostegno urgente militare, alla giunta. Segue l’elenco dell’armamento fornito.

Il punto è che si tratta di armi letali (particolarmente allarmanti gli Stinger con cui si possono abbattere velivoli). A giugno, il presidente Obama aveva stanziato 5 milioni di dollari (una briciola per l’ingordissima giunta) in aiuti militari, promettendo esplicitamente che sarebbero state armi non letali: giubbotti antiproiettili, radio portatili, visori notturni. Ancora una volta, l’America mente. Violando convenzioni internazionali che condannano l’armare le parti di una guerra civile. E fa un passo in più verso lo scontro bellico con Mosca. La famosa escalation.

Kiev accoglie filiali di Guantanamo

Fra i prezzi in cambio dell’aiuto militare americano, il regime di Kiev s’è impegnato ad accettare lo stabilimento di diverse carceri segrete sul suo territorio, dove la CIA potrà detenere e interrogare (torturare) «terroristi islamici» ed anche «nemici della democrazia» catturati qua e là nel mondo. Ovviamente vi potranno sbattere anche i prigionieri catturati nei combattimenti contro i difensori russofoni del Donetsk: un prezioso know-how in fatto di torture potrà venire trasferito.

In realtà si tratta d un grande ritorno. Nel 2006 il giornalista russo Arkady Mamontov rivelò che l’allora presidente Viktor Yuscenko aveva dato il permesso alla CIA di aprire filiali di Guantanamo e Abu Ghraib anche in Ucraina. La CIA aveva già centri di detenzione segreti per le sue «renditions» in Egitto, Romania, Kosovo Macedonia, Bulgaria, Lituania, Polonia, Katar... Non c’era una vera necessità, ma Yuscenko provò il bisogno di mostrare la sua lealtà agli USA anche in questo modo (era ben pagato). Quando andò al potere Yanukovitch, nel 2010, i centri di detenzione furono chiusi. Adesso sono riaperti. L’Ucraina si è impegnata ad accettare 150 individui – occorre spazio, dato che ciascun ‘terrorista’ va tenuto in isolamento – ma per fortuna le celle vuote abbondano: per combattere i ribelli del Donbass, il Consiglio di Sicurezza Nazionale di Kiev ha formato diversi battaglioni composti e comandati da criminali comuni detenuti, liberati per la bisogna. Per scongiurare fughe di informazioni, i centri saranno gestiti da una unità speciale del Ministero dell’Interno affiancati da funzionari della CIA; le autorità ucraine potranno detenervi chi vogliono, senza processo, per periodi indefiniti — come già fa la CIA. Sembra proprio che l’Est non possa fare a meno di ricreare qualche Gulag, stavolta con il know how americano.

Kerry a Lavrov: «Fregatene di Obama»

Questa l’ha raccontata durante un’audizione alla Duma il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Recentemente, è stato contattato da John Kerry: pare che il Segretario di Stato americano gli chiedesse una mano sulla questione del nucleare iraniano e sulla crisi con la Corea del Nord, viste le buone relazioni di Mosca con Teheran e Pyongyang. Ma il presidente Obama aveva appena dichiarato al mondo, davanti all’assemblea generale ONU a settembre, che tre erano le minacce alla pace globale: Ebola, la Russia «aggressiva che ha invaso l’Ucraina», e il gruppo islamico terrorista IS. Lavrov dunque domanda a Kerry: «Che cos’è questa cosa di mettere la Russia come seconda minaccia mondiale dopo Ebola ma prima di IS?».

A questo punto Kerry ha detto al pari-grado russo: «Pay it no mind». Locuzione che significa, sul registro educato, «non farci caso», «non metterci attenzione», ma data la sfumatura di disprezzo che contiene, anche «...e tu fregatene», perché quel che dice quello non ha alcun significato. Il fatto è che Kerry stava chiedendo un aiutino diplomatico alla «seconda minaccia globale» che «ha invaso l’Ucraina». Impagabile il commento di Lavrov, very british: «Non è appropriato per una grande potenza avere un tale atteggiamento da consumatore verso i partners: quando abbiamo bisogno di te, aiutaci; quando non ci servi, obbediscici».

Gli occidentalisti hanno sputacchiato Putin a Brisbane, l’hanno trattato come un paria, e come un appestato, e poi – risulta – gli hanno chiesto una mediazione con il regime della Corea del nord. Putin è andato in Corea del Nord, accolto come un salvatore. Ma non per conto degli occidentali. Subito, il Washington Times (il secondo giornale della capitale) ha strillato: Putin si è alleato con Kim Jong Un... Bene, la narrativa continua.

Obama ha obbedito a Kagan: licenziato Hagel

Tutti d’accordo i commentatori (non quelli mainstream): Obama, licenziando il Segretario alla Difesa Chuck Hagel, ha fatto atto di sottomissione ai neocon. E prelude ad una politica estera ancora più bellicista di quella attuale: Hagel, figura sbiadita, ha dato l’impressione di opporsi talora ai peggiori avventurismi del Dipartimento di Stato (le sottosegretarie, fra cui Victoria Nudelman in arte Nuland). Nell’agosto 2013, si disse che avrebbe minacciato le dimissioni in caso di attacco USA alla Siria O piuttosto ha rappresentato debitamente il Pentagono che ha sempre un po’ fatto da freno alle avventure peggiori dei neocon — sicché la cacciata di Hagel si configura anche come una vittoria del Dipartimento di Stato contro i militari.

Che bisogno ha Obama di cedere ai neocon in questo modo? Anche se le elezioni sono andate male, ha davanti il suo ultimo biennio dove non deve più temere conseguenze elettorali, dunque non ha da dipendere dalle lobbies israeliane. Se lo domanda angosciato Robert Parry su Consortium News. Parry è un giornalista molto ben introdotto e con ottime fonti confidenziali alla Casa Bianca; ora, confida, nemmeno le sue fonti riescono a spiegare l’enigma della sottomissione di Obama a Robert Kagan.

Robert Kagan
  Robert Kagan
Già: Robert Kagan. È il giudeo marito della Nuland, oggi esponente della Brookings Institution, ma ieri co-fondatore del Project for a New American Century – il think tank ebraico che previde ed auspicò «la nuova Pearl Harbor» dell’11 Settembre come pretesto per invadere l’Iraq, con effetti disastrosi per gli Stati Uniti – e ancor prima, ai tempi di Ronald Reagn, uno dei pericolosi mestatori delle operazioni coperte in Centro America.

Questo Kagan è anche l’inventore della frase: «Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere», per dire quanto sia un profondo pensatore. È successo che Kagan a settembre ha scritto un lungo saggio su New Republic, e articoli sul Wall Street Journal di Murdoch, criticando la politica secondo lui troppo pacifica dell’Amministrazione Obama, «la pericolosa avversione ai conflitti» (sic) di cui darebbe prova l’America. «Le superpotenze non vanno in pensione», ammoniva il marito della Nuland.

Ebbene: invece di infischiarsene, Obama ha invitato a pranzo alla casa Bianca questo Kagan, rivela Parry. «Un pranzetto intimo a due, che alcuni che l’hanno osservato hanno definito ‘un incontro fra eguali’». Si indigna il povero Parry: tra eguali?! C’è da vomitare (a taste of vomit on the back of my throat). Eppure – ed è un’altra rivelazione del giornalista-insider (molto addentro) – «le mie fonti mi dicono che Obama capisce la stupidità dell’attuale Establishment USA, e talvolta si consulta con esponenti ‘realisti’ che gli danno consigli pratici su come risolvere i più scottanti problemi che gli Stati Uniti hanno nel mondo. Ma lo fa in segreto, in modo tale da poterlo smentire..».

Insomma: parla con Kissinger e gente simile, ma poi non ne segue i consigli e si mette a rimorchio dei neocon, lui democratico, oltretutto gente di estrema destra di dubbio credito. Perché lo fa?

Parry dice: perché nonostante la sua intelligenza, Obama è un ragazzo negro con famiglia africana, e dunque «non ha mai avuto il coraggio di sfidare personaggi avvolti nelle grandi credenziali — quelli che sono andati alle università più chic, che lavorano per le grandi firme finanziarie, che hanno vinto premi prestigiosi e sono membri di famosi think-tank». Scusa disperata da parte di un sostenitore di Obama: non molto credibile. Resta il fatto che Obama e la sua politica estera soggetta ai neocon è un enigma anche per gli insider (molto addentro). Figurarsi per Lavrov.

L’altro fatto è che ora a fare il burattinaio per i prossimi due anni sembra essere Robert Kagan, il marito della Nuland: quella che ha speso 5 miliardi di dollari per portare l’Ucraina al punto in cui è. Risultato:

Io al Pentagono? No grazie

Obama ha qualche difficoltà a trovare uno che rimpiazzi il defenestrato Hagel alla poltrona più alta del Pentagono. Michele Flournoy, ex sottosegretaria alla Difesa con Clinton, una democratica che ha fondato e dirige il Center for a New American Security (CNAS), che doveva essere la risposta democratica al Project for a New American Century neocon e formare dei diplomatici pro-Obama da inserire nell’Amministrazione, ha risposto gentilmente di no: vuole stare al CNAS. Il secondo candidato, il senatore Jack Reed, democratico di Rhode Island, laureato a West Point, ha detto che non è interessato al lavoro. Adesso pare che Obama stia tastando l’attuale Ministro della Homeland Security Jeh Johnson: togliere un Ministro da lì per metterlo là, rivela che Obama non ha più nomi da scegliere. La poltrona massima del Pentagono non ha ambiziosi. Nessuno fra i democratici arde dalla voglia di aiutare un presidente anatra-zoppa che fra due anni non esisterà più, a recitare la parte di capo del Pentagono, ossia ad eseguire le politiche dettate dietro le quinte da Robert Kagan, da sua moglie, e da tutta la cosca giudaica che ha portato gli USA nelle guerre senza fine.

Proprio prima di congedare Hagel, Obama ha firmato un ordine esecutivo segreto che prolunga il dispiegamento di truppe in Afghanistan, in funzione di combattimento, almeno per tutto il 2015. Una cosa non propriamente popolare nell’opinione pubblica. Il futuro capo del Pentagono dovrà: 1) coinvolgere ancor più le truppe USA nella guerra a Putin in Ucraina, e b) estendere la «guerra all’IS», come reclamano a gran voce Kagan e complici, i quali tuttavia non hanno elaborato una vera strategia su come condurre la guerra e magari non perderla; al Pentagono ne hanno già troppe al fuoco di questi conflitti non vincibili (unwinnable, vedi Afghanistan) per desiderare anche questo impegno — e alla fine prendersi le colpe dell’insuccesso, quando andrà male.

E l’alleato saudita disobbedisce

Dopo che Washington ha organizzato insieme ai Sauditi il crollo del greggio per danneggiare Putin («mesi di trattative dietro le quinte» è costata la manovra al povero Kerry, secondo il Wall Street Journal), le major americane hanno scoperto che il calo del prezzo danneggia anche loro: specie la per ora fiorente industria dello shale gas, che ha altissimi costi di estrazione. Il greggio ora ad 80 può cadere a 60, e le imprese del settore, piene di debiti fino al collo, vanno a pallino. Ma guarda, chi l’avrebbe mai detto.

Dunque, contrordine: gli americani hanno fatto pressione nell’ultima riunione Opec perché i sauditi tagliassero la loro produzione in modo da far rialzare il prezzo del greggio. Il Ministro competente Ali al-Naimi non se n’è infischiato delle pressioni («nessuno ridurrà la produzione, e il mercato si stabilizzerà da sé»), ma ha anche aggiunto con sfida: «Perché dovrebbe essere l’Arabia Saudita a tagliare? Adesso anche gli USA sono grandi produttori. Perché non tagliano loro?». Già: a forza di estrarre shale gas, gli USA hanno per il momento quasi superato la quantità estratta giornalmente da sauditi. A Ryad vedono che l’Alleato ha voluto diventare un concorrente, invece che un cliente. E ciò cambia molte cose.

Un altro successo della diplomazia di Kerry.



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