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Pensiero pitagorico e pensiero massonico
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Pitagora di Samo (VI secolo avanti Cristo), migra a Crotone, per contrasti politici, dove fonda la scuola dei pitagorici, una sorta di setta, con connotazioni politiche, filosofiche e religiose, segnata da percorsi di iniziazione e rituali di appartenenza, di carattere manifestamente aristocratico.

Tra le note caratteristiche: ascetismo marcato, contraddistinto da vegetarianismo assoluto.

Le più note dottrine pitagoriche (frutto di un’evoluzione che si origina in Pitagora, ipse dixit) sono quelle della credenza (di marca orfica) nella trasmigrazione delle anime per espiazione delle loro colpe; visione dualistica della natura umana, considerazione negativa del corpo, visto come prigione dell’anima. Sappiamo inoltre da Aristotele come i Pitagorici fossero dei pluralisti: all’origine della vita del cosmo vi sarebbero più princìpi (i numeri), considerati essenza di tutte le cose: tutta la realtà può essere letta e studiata sulla base di rapporti matematici, attraverso applicazioni pratiche al mondo circostante: il numero viene elevato a principio universale di interpretazione, esteso dall’ordine aritmetico a quello geometrico ed infine all’ordine fisico.

Lo studio astronomico è parte integrante dell’interesse di questa scuola filosofica: l’universo, al centro del quale vi è una sfera di fuoco, perno fisso per la rotazione degli astri, è caratterizzato da una costante ciclicità, che investe anche la natura umana e che vive l’acme di perfezione nell’armonia totale del superamento degli opposti. La conoscenza dei numeri e quindi la matematica (oltre al percorso ascetico e rituale), rappresenta un ineludibile momento per la salvezza e la purificazione. Tuttavia sembra che le notizie riportate da Aristotele si riferiscano ai Pitagorici a lui coevi, perché solo con Filolao di Crotone (circa IV secolo avanti Cristo), i loro princìpi (prima tramandati oralmente ed alla custodia dei quali si era tenuti col silenzio) videro una trascrizione e pubblicità.

L’Ordine Pitagorico costituisce una delle organizzazioni iniziatiche fonte di ispirazione per la Massoneria. Tanto è così che è massiccia la presenza, nel simbolismo massonico, di emblemi utilizzati dai pitagorici, ad esempio: la stella a cinque punte (o pentalfa), il gioiello di Past Master, la Tetraktys pitagorica (che assimila al Delta luminoso della Massoneria) e la Tavola tripartita.

Come nelle convinzioni massoniche, anche nel pensiero pitagorico microcosmo e macrocosmo soggiacciono alle stessi leggi eterne: traccia di ciò possiamo rinvenire anche nell’uso comune del termine pitagorico u g i e i a significante salute per il corpo ed armonia per l’essere totale, dove la Y, ypsilon (i greca), simbolo delle due vie della destra e della sinistra; la gamma, la lettera G (iniziale di Geometria) della Massoneria, richiama la forma della squadra, simbolo essenziale; I, iota, simbolo universale dell’Unità; EI, Identità Suprema, iscrizione misteriosa incisa sulla porta del tempio di Delfi, in risposta all’ingiunzione: Conosci te stesso. Infine A, alfa, elemento costitutivo del pentalfa, prima lettera dell’alfabeto, che rappresenta il ritorno alle origini.

Queste sei lettere sono disposte attorno alla stella a cinque punte seguendo il senso polare. Come risulta evidente, il pensiero pitagorico si connota per quel velo di misticismo esoterico del quale si è caricato nel corso degli anni e per questo piace tanto ai massoni, ma non è l’unica ragione. Il motivo fondamentale risiede nella possibilità di abbracciare una filosofia del tutto pagana, utilizzata quale chiave interpretativa dello stesso cristianesimo; è quello che fa la cabala, niente più, niente meno.

L’inganno è sottile.

La ricerca dell’armonia nei rapporti (tanto amata da Pitagora), quale superamento del dualismo fondamentale che risiede nell’opposizione massima tra divino ed umano (increato e creato) e che costituirebbe, nell’ottica monista (completamente assorbita dal pensiero massonico), un forte ostacolo alla crescita spirituale, alla piena realizzazione della persona ed alla sua definitiva liberazione del circolo trasmigatorio, è proposta come ascesa ad un superiore livello di coscienza (riconoscimento dell’unità oltre il dualismo), dove ogni scissione svanisce nell’unità dell’Essere, al vertice di un simbolico triangolo pitagorico, costituito alla base dai due opposti polari.

Questa visione del mondo comporta necessariamente un percorso ciclico; tutto si crea e ritorna all’origine, quale azione reciproca della dualità manifesta (sé e non-sé, legge di polarità), causato dall’Uno immanifesto che, in certo modo, esce dal proprio status immobile. La creazione primigenia (anche se qui si dovrebbe piuttosto parlare di emanazione) si esprime nei contrapposti spirito e materia (i due poli complementari sono chiamati in diversi modi, ma la sostanza effettiva di quel che si descrive non cambia: Yin e Yang, Ishvara e Shakti, Puruscha e Prakriti, Eros e Logos, Sole e Luna, Conscio e inconscio, maschile e femminile, attivo e passivo, ecc…). Tutte le metamorfosi in natura sono niente altro che una manifestazione/interazione dinamica delle due relazione polari, in cui ciascuno dei poli, legato dinamicamente all’altro, ne costituisce un aspetto complementare ed interdipendente.

In questa visione, il bene ed il male si perdono nelle infinite sfumature del nulla al quale appartengono; la virtù risiede pertanto nell’equilibrio e nel superamento della dualità, del bene e del male, e non coincide (come è per il cristianesimo autentico) con l’abitudine e la conformità dell’essere al bene.

Non possiamo affermare che i Pitagorici arrivino a queste conclusioni; di certo il loro pensiero, infarcito di simbolismi esoterici e coniugato di assiomi del monismo cabalista (comunque orientaleggiante), è utilizzato dagli ambienti massonici per rimpinzarne la società e la cultura dominante. Si tratta di posizioni pericolosissime per l’anima e per nulla condivisibili. Esse suppongono in primo luogo l’impersonalità del Divino, senza tuttavia dimostrare come l’Uno (di cui saremmo parte, o meglio, unica realtà che invero siamo!contenitore di ogni vita), possa trovarsi gerarchicamente al di sotto della vita stessa: la Persona infatti rappresenta il vertice dell’esistenza; pensare a Dio, come ad un essere impersonale (perché di questo si tratta quando si parla della consapevolezza, dell’Uno, dell’Essere, ecc…) significa retrocedere la coscienza all’incomprensione di sé! Quindi ci si domanda come il Sé possa comprendere/capire se stesso, senza averne coscienza personale!

Dio, per essere tale, deve necessariamente trascendere la realtà circostante,  prescindendone del tutto in coscienza personale di essere. Il valico della Divinità che si opererebbe attraverso il superamento dell’apparente dicotomia essere/non essere è semplicemente un sofisma: l’Essere, in quanto pienezza infinita, non può mancare di nulla, di alcuna potenzialità latente (anche di quella che risiederebbe nel non-essere).

Altra aberrante conclusione discendente da tali premesse risiede nell’ambito della visione etica. Il bene in sé non esiste (non esistendo Dio come Sommo Bene), quindi, in nessun modo, troverebbe luogo un comportamento completamente cattivo o sbagliato: un omicidio non sarebbe un fatto malvagio, così come neppure un infanticidio, uno stupro ecc…

Occorre aggiungere altro? Non siamo lontani dalle conclusioni di Sabattai Zevi.

Stefano Maria Chiari



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