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Il Kol Nidre
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Talmud /6
Lo Yom Kippur o Giorno dell’Espiazione – o della Penitenza – è la celebrazione più solenne e santa del calendario liturgico ebraico. Si deve non solo digiunare ed astenersi da rapporti sessuali, ma nemmeno lavarsi. Durante quel giorno, ogni anno prima del tramonto, il servizio sinagogale comincia con la recita cantata del «Kol Nidre» (dalle prime due parole aramaiche del canto, «Tutti i voti«): che, dice la Jewish Encyclopedia, «è stata spesso utilizzata dai cristiani, apostati ed antisemiti come sostegno alla loro asserzione che non ci si può fidare del giuramento di un ebreo».

Ogni ebreo, recitando il Kol Nidre, si scioglie in anticipo da tutti i voti, obblighi e promesse che contrarrà nel corso dell’anno. Ecco il testo:

«Tutti i voti, gli impegni, i giuramenti e gli anatemi che siano chiamati konam’, konas’, o con qualsiasi altro nome, che potremmo aver pronunziato o per i quali potremmo esserci impegnati siano cancellati, da questo giorno di pentimento sino al prossimo (la cui venuta è attesa con gioia), noi ci pentiremo. Possano essi ritenuti sciolti, perdonati, annullati, vuoti e privi di effetti… I voti non siano riconosciuti come voti; le obbligazioni non siano obbligatorie, nè i giuramenti siano giuramenti».

La formula viene ripetuta tre volte, a voce sempre più alta. È accompagnata da una cantata che commuove tutti, ed è copiata da un canto gregoriano dell’antifonario di Ratisbona, cattolico.

Senza nessuna ragione, i perfidi antisemiti presero questa santa preghiera a pretesto della loro convinzione che non ci si può fidare degli ebrei; in passato, lamenta l’enciclopedia giudaica, «legislatori» e «giudici» goym rifiutarono di accettare in tribunale la testimonianza giurata di ebrei, sapendo che si erano anticipatamente sciolti da ogni giuramento nel precedente Yom Kippur. Un maligno malinteso, in malafede.

Infatti l’origine della preghiera è del tutto innocente, spiega la Encyclopedia: che la fa risalire alla «fortissima tendenza degli antichi israeliti a legarsi con voti» a Dio, quasi una mania (addiction), «per cui poteva facilmente accadere che queste obbligazioni (sacre) fossero completamente dimenticate, o non-mantenute e violate involontariamente». Sicchè fu escogitata questa «formula generale di dispensazione» per cui il pio fedele «che cerca la riconciliazione con Dio, ritratta solennemente in Sua presenza tutti i voti e giuramenti» che ha pronunciato. Così l’ebreo torna puro come un giglio: i sefarditi usano indossare vesti bianche quel giorno, per sottolineare il candore delle loro anime.

«I maestri sinagogali non hanno mai mancato di puntualizzare che la dispensazione dai voti del Kol Nidre si riferisce solo a quelli che un individuo assume volontariamente per sè solo, e non coinvolge altre persone o i loro interessi», giura la citata Encyclopedia, per però ammette: «Non si può negare che, nel senso comune della formula, un uomo di pochi scrupoli potrebbe pensare che essa offre un mezzo per sfuggire alle obbligazioni e promesse fatte ad altri».

Nell’alto Medio Evo, diversi maestri della Torah furono contrari alla recita del Kol Nidre, come mezzo troppo facile per sciogliersi dai voti fatti a JHVH. Un rabbi Jeroham ben Meshullam, vissuto in Provenza nel 14° secolo, giunse al punto di dichiarare coloro che, fidando del Kol Nidre facevano giuramenti alla carlona, come «incapaci di testimoniare» nei tribunali. Esattamente come i giudici goym. Ma doveva essere un ebreo-che-odia se stesso.

Per contro, Meir ben Samuel, genero di «Rashi» (alias Shlomo Isaac, celeberrimo talmudista e rabbino di Troyes attorno all’anno Mille) operò una modifica fatale: la frase che originalmente suonava «dall’ultimo Giorno dell’Espiazione fino a questo», la cambiò in «da questo Giorno fino al prossimo». L’efficacia della preghiera da «a posteriori» divenne così l’auto-dispensa anticipata da ogni voto futuro, ancora da fare. La modifica piacque e fu adottata.

Anche gli ebrei meno religiosi, che trascurano altri riti, partecipano tuttavia al Kol Nidre anche oggi; un po’ come i cristiani nominali vanno tuttavia a Messa a Natale, o alla Domenica delle Palme (se non altro per portarsi a casa l’ulivo benedetto) come ultimo aggancio personale alla vecchia fede, così gli ebrei sentono il Kol Nidre come la riconferma della propria elezione. Il compositore Arnold Schoenberg compose una cantata sul Kol Nidre.

Fatto singolare, questo spergiuro preventivo viene considerato come la più alta espressione della moralità, e persino della spiritualità  farisaica. Si legge trasecolando un testo esegetico postato sul web dalla setta hassidica dei Chabad Lubavitcher, dal titolo «Kol Nidrei, un approfondimento»:

«Kol Nidrei, Kol Hanedarìm! Quale ebreo non è elevato da questa solenne preghiera? (...) Mentre dichiariamo lannullamento e linvalidità dei voti che verranno fatti nellanno, noi garantiamo in tal modo che non agiremo contrariamente alla volontà D-vina, almeno per quanto riguarda la eventuale trasgressione ad un voto. Inoltre, revocando leffetto dei voti futuri, dimostriamo che il nostro impegno a realizzare i comandamenti di D-o è sincero ed inequivocabile (…). Yom Kippùr implica che non dobbiamo dipendere da metodi artificiali per risvegliare il nostro spirito ebraico. Pertanto, dichiariamo nulli ed invalidi tutti i nostri voti e giuramenti. E, facendo ciò, affermiamo il nostro naturale attaccamento a D-o, che è sentito da ogni ebreo in questo santissimo giorno. Dunque: dichiarando nulli in anticipo i nostri voti e giuramenti a Dio, riaffermiamo il nostro attaccamento a Dio...».

Ma se non bastasse questa pseudologia, viene riportata la «più profonda esegesi» del rabbi Menachem Mendel di Lubavitch (1789-1866), terzo capo della setta, detto «Tzemach Tzedeth» dagli adepti:

«Egli si riferisce allincredibile fenomeno inerente il processo di annullamento dei voti. Quando il voto è sciolto dal chacham, il saggio, o dal Bet Din, il tribunale rabbinico, ciò che era vietato diventa permesso. Con lannullamento dei voti di Yom Kippùr, una simile trasformazione avviene: D-o stesso trasforma le nostre colpe in meriti. Il principale risultato di Yom Kippùr è appunto questo: la totale rimozione di ogni traccia di male allinterno di noi stessi al punto che loscurità sarà trasformata in luce’. Pertanto, Kol Nidrei recitato allinizio di Yom Kippùr è più di un simbolo della trasformazione del male in bene; introduce le stesse forze necessarie per realizzare questa trasformazione. Soltanto quando noi generiamo quelle energie di trasformazione tramite lannullamento dei voti, D-o permette a forze simili di trasformare le nostre colpe in meriti».

«Ciò che è vietato diventa permesso»: frase chiave, frase rivelatrice. Sabbatai Zevi, che si autonominò Messia nel 1666, viaggiò a Costantinopoli per strappare la corona al sovrano ottomano, e una volta arrestato si salvò convertendosi falsamente all’Islam, aveva composto una identica preghiera per i suoi seguaci che lo seguirono nella falsa conversione. Ad essi fu prescritto di restare fedeli ad un ebraismo anomico (senza più Legge), perchè essendo il Messia venuto e per giunta «peccatore» e apostata, in Sabbatai Zevi, aveva abolito la Legge.

La preghiera mattutina che ogni ebreo deve recitare, «Grazie per non avermi fatto goy», eccetera, nella variante sabbatea suona così: «Benedetto Te, o Signore, che permetti ciò che è vietato».

È l’aberrante «spiritualità» gnostica secondo cui «la salvezza si lucra attraverso il peccato» e la trasgressione più estrema dei Comandamenti. Evidentemente, questo «lievito dei Farisei» da cui metteva in guardia Gesù, continua a fermentare nel piccolo popolo.

Il testo del Kol Nidre si trova ovviamente nel Talmud, Trattato Nedarim 23 a, in forma compendiata e all’interno di un contesto assurdo («Chi vuole assoggettare un amico a mangiare con lui attraverso un voto...»).


A nostro parere, rabbini, maestri e Savii Anziani dicono il vero quando affermano che il Kol Nidre non colpisce di nullità gli impegni e contratti stretti da un ebreo con un gentile. Che bisogno c’è di fare contratti di lavoro con asini, prima di metterli alla stanga? Di fatto, il Sanhedrin (57 a) condona il furto, la rapina, l’uccisione dei gentili:


Traduco:

«Se uno ha rubato o rapinato (nota: per furto segreto o aperta violenza) o ha preso una bella donna, se queste cose sono state perpetrate da un Cuteano contro un altro Cuteano, non va ritenuto (come colpa), e similmente il furto di un israelita verso un Cuteano, ma quello di un Cuteano contro un israelita,va ritenuto».

Più sotto si sancisce la pena di morte per un Cuteano che uccide un ebreo, mentre «un ebreo (che uccide) un Cuteano è permesso».

E non ci si inganni sul senso delle parole. La nota 33 informa: «Cuteano (Samaritano) è stato qui sostituito dal censore al posto dell’originale goy».

«Un pagano che colpisce un ebreo è degno di morte... Rabbi Hanina ha anche detto: “Colui che colpisce un ebreo sulla mascella, è come avesse aggredito la Divina Presenza”».

In compenso, Sanhedrin 58b dichiara che la sodomia o «congiunzione innaturale è permessa ad un ebreo», e permette la sodomia con «la moglie del vicino», perchè, come spiega la nota 22, «nella colpa di violare il comandamento (che vieta la sodomia) “con sua moglie” ma non con la moglie del vicino si incorre solo per il coniungimento naturale, non per quello innaturale».

Nel Sanhedrin 78b-79 a si discute la seguente ipotesi: mettiamo che un ebreo, volendo uccidere un animale o un goy, uccida accidentalmente un altro ebreo. È egli colpevole? No, è la risposta dei Savii.


Nella Gemara il concetto viene rafforzato: «Se voleva uccidere un israelita e ne uccide un altro» israelita, è colpevole.

Nella pagina seguente, le sottilissime autorità rabbiniche discutono il caso che «uno getti una pietra» in una compagnia di israeliti e di pagani (goy), e colpisca un ebreo. È colpevole? Un rabbi Jannai lo esclude:

«Diciamo che la compagnia consista in nove pagani e un israelita. La non-colpevolezza (del lanciatore di pietre) può essere stabilita induttivamente dal fatto che i pagani erano la maggioranza. Ed anche se metà e metà, quando c’è dubbio in un’accusa capitale, si deve adottare un atteggiamento clemente».

Nel senso, spiega la nota a piè di pagina, che «essendo egualmente divisi, non sappiamo se mirava a un ebreo o ad un pagano, e quindi... sappiamo che non era colpevole».

Sembrerebbe che la causa sia decisa. Ma no. Segue la frase: «... Se ci sono nove ebrei e un pagano, così che il pagano è sistemato lì, ogni minoranza sistemata» metà e metà. In pratica, chi tira la pietra non è colpevole comunque.

La mente si perde in tanto fine filosofare. Per fortuna, la nota 8 ci soccorre, chiarificatrice. Vale la pena di riportara per intero:

«Questa è la regola generale del Talmud. Benchè il criterio della maggioranza sia sempre seguito, lo è solo quando la minoranza non è Kabua, ossia fissata, sistemata in un certo posto, altrimenti è uguale alla maggioranza (...). Se ci sono dieci macellerie in una strada, di cui nove vendono carne kosher e la decima carne terefah (impura, non macellata secondo il rito), e un pezzo di carne viene trovato in strada, si può desumere che sia kosher – e qui vale il criterio di maggioranza. Ma se la carne è stata comprata in una delle botteghe e non si sa quale, non si può fare questa assunzione, perchè il dubbio nasce non sulla strada ma sul negozio, e la minoranza è in un posto stabilito. Così, dal momento che il gruppo (di uomini) è tutto insieme, il posto del pagano è stabilito. Il verso in discussione insegna che lassassino in questo caso non è imputabile: di qui la fonte del principio che una minoranza stabilitaè considerata uguale alla maggioranza».

Questo è «pensiero» ebraico, signori.

(continua)

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