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Per l’Italia resta una sola cosa da fare
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Cari lettori,

forse avrete notato che sto rallentando questo impegno quotidiano, che tralascio di commentare tempestivamente l’attualità e i suoi eventi. Effettivamente, faccio fatica. Sono attratto a dedicare più tempo a riposate letture e alla cura dell’anima, invece che ad interventi, polemiche, e informazioni alternative.

È questo il punto, credo. Senso di inutilità. Ho appena appreso che negli ultimi dieci anni, il costo delle paghe pubbliche è aumentato di 40 miliardi. Se voi insegnanti, bidelli, ricercatori e ospedalieri non avete visto un simile aumento, non vi meravigliate: quei 40 miliardi se li sono accaparrati per la maggior parte gli alti dirigenti, ministeriali, regionali, e i 17 mila consiglieri d’amministrazione delle società cosiddette partecipate (per lo più, politici trombati), e relativo personale, i cui stipendi costano 15 miliardi. Anche le Regioni costano 245 miliardi in più rispetto a dieci anni orsono.

Capirete che dopo aver scorso la «legge di stabilità» di Letta Alfano Saccomanni fatta, ancora una volta, di più tasse (solo un po’ mascherate) anziché di sostanziosi tagli alla spesa pubblica, quando quelle cifre accaparrate dai parassiti pubblici – 40 miliardi, 17 miliardi, 245 miliardi – gridano da sé, lampeggiando in rosso, dove si può e si deve fare la famosa spending review, uno getta la spugna. Tutto inutile. Se la coalizione di larghe intese aveva un senso e uno scopo, era quello di intaccare quei mostruosi privilegi dei potenti parassiti che occupano lo Stato e lo fanno deperire come vermi solitari incistati negli intestini, incidendo con provvedimenti che nessuno dei due partiti, da solo, avrebbe avuto il coraggio di prendere contro le numerose caste parassitarie ben difese dai loro privilegi, sindacati e minacciosi poteri di fatto. Ora, con il «patto di stabilità», è definitivamente chiaro che i due partiti sono al potere insieme per proteggere e mantenere quei privilegi, che sono anche i loro e dei loro ceti di riferimento.

Nessuna delle riforme che sono così necessarie ed urgenti all’Italia si farà. Il gigantesco verme solitario nel ventre dell’Italia produttiva continuerà a farla deperire e a dissanguarla fino a quando, succhiatane ogni sostanza, il parassita non morirà con l’organismo che sfrutta. E vedo questo organismo sempre più indebolito – intellettualmente e moralmente, sempre più privo di risorse interiori e di volontà comune – aver già perso tutti i treni del rilancio possibile, ed ora essere incapace di salire sull’ultimo, dopo il quale non ce ne sono altri.

L’ho già detto, lo ripeto: nei miei cinquant’anni di vita cosciente, ho visto questo Paese perdere ad una ad una le sue eccellenze in ogni campo, anzi peggio: abbandonarle, lasciarle cadere. Andate le industrie, la chimica, la farmaceutica, l’aereonautica, l’elettronica, non abbiamo più mestieri e professioni da offrire ai nostri migliori giovani, 400 mila dei quali, troppo qualificati per noi, abbiamo costretto ad emigrare, e che ora arricchiscono Paesi stranieri. Quando ho cominciato a lavorare io, i miei superiori sapevano più di me, avevano cultura, si poteva imparare da loro; soprattutto si tenevano al corrente, avevano curiosità, esercitavano l’intelligenza; la vita delle fabbriche, ossia dell’economia reale e concreta, obbligava ad aumentare la qualità generale, anche negli operai. Oggi, come ci hanno rivelato i sondaggi OCSE, i due terzi degli italiani non sanno leggere e far di conto abbastanza da «vivere e lavorare nel XXI secolo», sono poco produttivi e poco competenti; non si sforzano più di capire, si limitano ad utilizzare mezzi costruiti e concepiti tutti fuori d’Italia (dagli smartphone ai SMS) di cui non capiscono la complessità tecnologica e l’acutezza creativa: siamo sempre più nella condizione di selvaggi di ritorno, con al collo il Tablet invece della sveglia.

Due terzi dei nostri laureati non leggono più un libro dopo aver spuntato il pezzo di carta; cosa volete che inventi un ceto che s’è seduto e non sente più il bisogno di sapere. Viviamo illudendoci che ci salverà «il gusto» (il mangiare) e la produzione del «lusso» che ancora si esporta bene: ma intanto nessuno dei giovani con il tablet al collo vuol fare l’artigiano, e la generazione degli artigiani che sapevano fare, sta morendo senza aver trasmesso il suo sapere. Viviamo accampati fra le antichità come i fellah egiziani sotto le piramidi, segni di una civiltà che fu troppo superiore e non capiamo più; il nostro contributo agli archi, alle colonne e alle chiese barocche, sono sgorbi e graffiti che infliggiamo alle opere d’arte, che lasciamo ai saccheggiatori o riempiamo della nostra spazzatura.

Un certo sedimento di ottusa inciviltà, maleducazione e rozza tendenza all’abiezione, come italiani, l’abbiamo sempre avuto; ma c’è stato un tempo in cui i migliori fra noi cercavano di liberarsene, e gli altri in ogni modo lo riscattavano in qualche modo con opere belle, opere delle loro mani. L’Italia era piena di farabutti, traditori ed arrampicatori servili anche ai tempi di Michelangelo, ma c’era tuttavia Michelangelo, c’erano cesellatori e pittori; chi dalla povertà saliva a fortuna ancora talora si faceva «una solida casa di pietra squadrata e liscia per istoriarne la facciata»; il contadino toscano non rinunciava agli aggetti classici nel suo casale; c’era inciviltà, eppure anche «affreschi di paradiso» e «l’Annunciazione dell’angelo con aureole sbalzate».

Ebbene, tutto questo è finito. C’è solo abiezione, e la vediamo crescere ogni giorno, liquame che ci arriva alla gola: NoTav che incendiano mezzi di lavoro altrui, magistrati «d’a Cassazzione» che parlano (ed agiscono) come camorristi, e un ceto politico primordiale prima ancora che corrotto, del tutto privo di ogni minimo progetto, idea del bene comune – ma che dico? privo di ogni pretesto per esistere – e tuttavia, che suscita fanatismi pro e contro, tifoserie minime ma irriducibili: ho conosciuto torme di leghisti che ti uccidevano se mettevi qualche dubbio su un Bossi ormai stracotto; oggi, gli stessi tipi umani (sub-umani) ti insultano e cancellano se osi dubitare della saggezza di Grillo, o discutere qualcuna delle sue paturnie: la politica s’è appunto ridotta a quel pullulare di gruppi minimi reciprocamente ostili, in cui consiste la barbarie. E il peggio è che questi gruppuscoli hanno rinunciato una volta per tutte alla ragione, sono soggetti a »culti della personalità» di personalità ameboidi, che non li portano da nessuna parte, e a cui tributano una fede cieca e totalitaria: totalitarismo che non è pericoloso, solo perché è microscopico. Siamo un Paese spaccato e insieme incerto e arretrato, litigioso e insieme disorientato; senza una guida, o che la rifiuta; un popolo senza rispetto di sé, non più sicuro di avere un posto nel mondo, o peggio, che vi ha rinunciato. Ed aspetta il tragico esito, inevitabile, di questo prolasso generale: la fame ed il freddo, la miseria quando le ultime risorse produttive saranno esaurite.

Ovviamente, le rivoltanti scenate, le viltà senza vergogna e le infamie attorno alla salma di Priebke sono in qualche modo la prova che la nostra abiezione ha superato un segno fatale: come canta Sofocle nell’Antigone, ecco il contrappasso che si chiama un popolo che rifiuta la sepoltura a un morto.

«In breve lasso di tempo, tu udrai nelle tue case ululati di femmine e di uomini; e precipitar nella guerra civile le città, di cui cani o fiere, o qualche uccello dilanieranno i corpi dei figli, portando l’empio fetore dei cadaveri insepolti ai lari della patria».

L’Italia, io temo, non può essere riformata da alcuna forza umana; inutili ormai le analisi, superflue le argomentazioni e le polemiche, adirarsi è solo uno spreco di energie. C’è una cosa ultima che possiamo fare. In un giorno d’estate del 1917, a tre ragazzini apparve per la seconda volta «un ragazzo sui 14 o 15 anni, più bianco della neve che il sole rendeva trasparente», e ordinò loro di pregare e fare sacrifici per ottenere «la pace della vostra patria. Io sono il suo angelo custode, l’Angelo del Portogallo».

C’è dunque un angelo custode anche dell’Italia: a lui rivolgiamo le nostre preghiere. Occorrerebbe una forte e grandiosa campagna di Rosario, collettiva e corale, per questo povero indegno Paese. Esistono ancora un Papa, vescovi e preti che hanno il coraggio di incitare alla preghiera collettiva? Possiamo farlo noi, semplici fedeli lettori di queste righe, unendoci idealmente insieme?

Dei tre ragazzi di Fatima una, la sola divenuta adulta, ha attestato: «La Santissima Vergine ha voluto dare, in questi ultimi tempi in cui viviamo, una nuova efficacia alla recita del Santo Rosario. Ella ha talmente rafforzato la sua efficacia, che non esiste problema per quanto difficile, materiale o specialmente spirituale, nella vita privata come nelle famiglie, delle famiglie di tutto il mondo, della comunità religiose o addirittura nella vita dei popoli e nazioni, che non possa essere risolta dalla preghiera del Santo Rosario. Con esso ci salveremo, ci santificheremo, consoleremo Nostro Signore e otterremo la salvezza di molte anime».

Preghiamo anche per il romano Pontefice, che abbia rispetto di sé.



Associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE


 
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