>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
gesu_piange.jpg
Il cardinale, il professore, il rabbino (Parte II)
Stampa
  Text size
Il professore

Abbiamo detto che la faziosa vulgata che confonde certi comportamenti antigiudaici del passato cristiano con l’antisemitismo razziale moderno, fenomeno quest’ultimo, al contrario, manifestatosi, non a caso, in società del tutto decristianizzate per effetto del processo di secolarizzazione, è il cavallo di Troia culturale che è penetrato anche in ambito cattolico con conseguenze devastanti per la fede dei semplici fedeli, quotidianamente ossessionati da una propaganda alimentata ad arte per convincerli che la loro Chiesa è la responsabile di tutti i mali storici dell’umanità.
Responsabilità che avrebbe toccato il suo apice nel cosiddetto olocausto, sicché non resterebbe altro da fare alla Chiesa che dileguarsi, parlare sempre con voce dimessa e sommessa, farsi dimenticare dall’umanità, rinchiudere la fede nel privato delle singole coscienze e chiedere ai cattolici di spargersi costantemente le ceneri sul capo in un perenne e mai sufficiente «mea culpa», in particolare verso i «fratelli maggiori».
Assistiamo, così, oggi, a situazioni paradossali come quella di Anna Foa, storica ebrea, nient’affatto tenera verso la Chiesa, che riconosce non esservi stata alcuna volontà di segregazione razziale nelle decisioni di Paolo IV e quella di un esegeta, che un tempo si professava cattolico, Mauro Pesce, docente dell’Università di Bologna, che al contrario sposa la tesi delle radici cattoliche dell’antisemitismo razziale moderno culminato nel nazismo ed a supporto di essa utilizza proprio Papa Carafa come schiacciante prova della tragica storia di unilaterale persecuzione cristiana contro gli ebrei.
Si veda in proposito quanto il professore scrive sul suo sito (8).

Il professore, stizzito dalle reazioni provocate da un suo intervento ironico-poetico su Papa Paolo IV, si chiede se noi cattolici conosciamo la «drammatica» storia delle persecuzioni cristiane contro gli ebrei.
Il virgolettamento da noi apposto all’aggettivo «drammatica» - sia chiaro - vuole evidenziare soltanto lo strumentale e propagandistico gonfiamento di fatti realmente accaduti, e dei quali, come abbiamo dimostrato nella prima parte di questo articolo, non vogliamo affatto disconoscere la consistenza (ma solo nella loro realtà storica effettiva, non in quella «mitica» della propaganda teologica giudaica).
Il professor Pesce, evidentemente infastidito dal «nuovo corso», o, nel suo giudizio, «ricorso tradizionalista», ratzingeriano, mentre fa sfoggio della sua cultura storica, credendo di schiacciare i cattolici attardati su posizioni pre-conciliari, non dimostra a sua volta di conoscere, e se conosce tace infingardamente, la realtà storica reciproca, ossia tace del tutto sulle persecuzioni degli ebrei contro i cristiani.
Infatti anche i «fratelli maggiori», laddove essi hanno potuto, non hanno mai esitato a perseguitare i cristiani, non lasciandosi sfuggire ogni propizia occasione.

Qualche esempio: la persecuzione contro i cristiani messa in atto dal falso messia Bar Kokheba, l’analoga persecuzione anticristiana dei seguaci di Jacob Frank e Sabattai Zevi, altri falsi messia di cui la storia dell’Israele post-biblico è piena, il genocidio armeno all’inizio del XX secolo perpetuato dai dumneh discendenti del citato Sabattai Zevi dissimulatamente convertitisi all’islamismo, il massacro nel 614 dei cristiani a Mamilla Poor per mano degli ebrei dopo la conquista persiana della Palestina; gli analoghi massacri di cristiani per mano ebraica nel VI secolo nello Yemen; la persecuzione, con tanto di appositi ghetti, nel regno caucasico Kazaro nel VII secolo quando, dopo la conversione del re al giudaismo, si installò a corte un sinedrio rabbinico che decretò l’ostilità pubblica verso i cristiani.
E si tratta solo di qualche esempio.
Il Pesce, quando rimprovera i suoi detrattori cattolici, non ricorda però che l’ostilità ebraico-cristiana fu aperta da parte ebraica (martirio di Stefano), quando il cristianesimo nascente non era ancora così forte da potersi difendere adeguatamente, e che nella Roma dei primi secoli era la sinagoga a fomentare le persecuzioni imperiali contro gli indifesi ed inermi cristiani (si vedano in proposito gli studi di Marta Sordi, Ilaria Ramelli ed Ennio Innocenti).
Non ricorda il Pesce che le ingiurie da parte ebraica contro Cristo e la Madonna (poi confluite nel Talmud, con la leggenda di Gesù Ben Panthera) sono coeve al cristianesimo stesso (quindi erra, forse con intenzioni «depisteggianti», Riccardo Di Segni quando riferisce tali ingiurie alla reazione alle violenze cristiane medioevali).
Infatti, come scrive Vittorio Messori in «Ipotesi su Maria», quelle ingiurie sono coeve alla stessa predicazione di Cristo come testimonia il passo evangelico nel quale i sinedriti rispondono a Gesù «Noi non siamo figli di prostituzione» (Giovanni 8,41) facendo intendere che tale loro Lo consideravano.
Per il professor Pesce la persecuzione è stata sempre e soltanto unilaterale: i «perfidi» cristiani, inventori di un Gesù «cristiano», contro i poveri ebrei fedeli al Dio di Israele.
Ma storicamente le cose non sono andate sempre nel modo raccontato da Pesce.
Il fatto che anche gli ebrei abbiano, all’occasione, perseguitato i cristiani non assolve - sia ben chiaro - questi ultimi dalle loro responsabilità e non li giustifica ma, oltre a chiarire dove iniziano e finiscano le reciproche responsabilità, testimonia una volta di più della verità delle parole di Cristo, «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», e che, quindi, neanche gli ebrei, come si è detto, possono tirarsi fuori agli occhi di Dio dalla colpa conseguita dall’intero genere umano, loro compresi, a causa del peccato originale.

Immaginiamo che il professore non creda al dogma del peccato originale, sicché a suo beneficio, ed a beneficio di tutti, lo invitiamo a riflettere un po’ di più sulla vita di grazia dei mistici e sulla fenomenologia, oggi addirittura studiata con metodi scientifici, che sempre la accompagna. Da tale realtà di grazia, che si manifesta anche fenomenologicamente in una «più che vita», ossia in una esistenza non soltanto biologica o culturale ma soprannaturale, tutti noi abbiamo esempi chiarissimi e toccabili con mano di come sarebbe stata la vita dell’uomo, di tutti gli uomini, prima del peccato originale: una vita ricolma di doni mistici che Dio, in origine, prima che l’uomo rifiutasse, non solo «culturalmente» ma anche e soprattutto esistenzialisticamente ed essenzialmente, quei doni divini ed il loro Donatore, riversava a fiumi nel cuore umano ancora puro ossia aperto a Lui ed al Suo Amore.
La tesi storica sposata da Pesce nasce da una prospettiva anti-cattolica, non nuova, che, oggi, mediante la trasformazione della persecuzione nazista in un fatto «teologico», propone la sostituzione di Israele, messia collettivo, a Cristo nel ruolo di Redentore dell’umanità.
A tanto Mauro Pesce è stato condotto dalla propria impostazione esegetica razionalista che egli ha reso nota al grande pubblico nel libro intervista «Inchiesta su Gesù» (Mondadori, 2006), scritto con Corrado Augias, alfiere in Italia del pregiudizio razionalista e laicista (9).

L’impostazione storicista di Mauro Pesce non è affatto nuova e, benché riproposta con forza nell’ultimo ventennio, altro non è che un mero aggiornamento della vecchia scuola storico-critica della prima metà del XX secolo, successivamente superata proprio da più approfonditi studi storici nella seconda metà del secolo scorso.
Il metodo storico nell’esegesi, infatti, come ricorda anche Benedetto XVI nel suo «Gesù di Nazaret» (Rizzoli, 2007), non è un male di per sé, ma lo diventa quando si accompagna ad un pregiudizio di sostanziale malafede che consiste nel negare a priori il Soprannaturale e la Tradizione apostolica, come appunto fanno gli esegeti razionalisti.
L’approfondimento storico, archeologico, papirologico, filologico, testuale, comparativo, interdisciplinare conferma, oggi, sostanzialmente quanto la Tradizione, da sempre, ha tramandato circa l’assoluta storicità della Persona di Cristo, del racconto della sua vita (miracoli e Resurrezione compresi) e dei suoi insegnamenti.
Gli addetti ai lavori sanno benissimo che i Vangeli sono nati come supporto scritto della predicazione orale effettuata da testimoni oculari, gli apostoli, ma anche, a quanto sembra, come sostiene André Paul, dalle annotazioni scritte in presa diretta su apposite tavolette, una novità dell’epoca, dei detti di Cristo (Vittorio Messori ha definito i Vangeli, per il loro stile asciutto e conciso, delle vere e proprie cronache giornalistiche).
Eppure Pesce riprende, con intenzione di effettuarne un maquillage, la tesi, che nasce in ambito protestante e razionalista, della distinzione tra il Gesù della storia, del quale quasi nulla potremmo sapere e che, secondo tale tesi, altro non sarebbe stato che un predicatore vagabondo del I secolo, ed il Cristo della fede ossia la divinizzazione che la prima comunità cristiana avrebbe fatto della figura di quello sconosciuto predicatore morto sulla Croce (10).

Secondo Pesce, Gesù sarebbe stato soltanto un pio ebreo, dunque solo un uomo, che non voleva fondare alcuna religione.
Convinto che la promessa di Dio come intesa dagli ebrei, ossia la realizzazione in terra del Regno della Pace e della Giustizia universali, fosse in via di realizzazione, questo predicatore ebreo avrebbe professato un insegnamento millenarista e mistico-sociale rivolto ai poveri ed agli umili. Questo messaggio avrebbe messo in allarme le autorità politiche romane che ne condannarono a morte il latore.
Sarebbero stati, quindi, i suoi discepoli, sconvolti dall’accaduto, a crearne il «mito» della Resurrezione, autoconvincendosene, fino ad inaugurare una nuova religione ovvero il cristianesimo (opera citata, pagina 237).
Gesù, secondo Pesce, avrebbe rispettato alla lettera le prescrizioni della Torah, comprese quelle riguardanti gli alimenti: «Sono i cristiani dopo di lui che le hanno trascurate» (opera citata, pagina 28).
Come si vede in Pesce agisce tutta l’impostazione storico-critica di matrice razionalista (11).
Una impostazione che, derivando dal mondo protestante, lo porta direttamente verso una concezione «talmudica» del cristianesimo.
La de-ellenizzazione del cristianesimo, che, in sostanza, altro non è che lettura naturalistica e giudaizzante della fede, dopo ripetuti assalti nel corso dei secoli contro la Tradizione apostolica, tanto che spesso si ritrovano tendenze de-ellenizzanti anche nei movimenti ereticali medioevali, trovò il suo culmine nella Riforma.
Sicché ben può dirsi che con Lutero una tale lettura de-ellenizzante riuscì a penetrare anche in ambito cattolico, con la conseguenza epocale della frattura politico-religiosa della cristianità europea, ed in tal modo a trovare il punto di svolta per dilagare durante i successivi secoli moderni. E’ proprio sulla base di questa tendenza de-ellenizzante e razionalista che il professore fa di Cristo un folle utopista, un mistico egualitarista e millenarista, ed afferma che a condannarLo a morte non sarebbero stati i capi ebraici, che il Pesce, avendo a cuore di non dare spazio all’idea del «popolo deicida», scagiona sostanzialmente, in linea con l’odierna esegesi rabbinica, ormai trionfante anche tra gli esegeti cattolici «aggiornati», da ogni responsabilità nella morte di Cristo attribuita solo ai «cattivi» e «reazionari» romani.
E’ ben vero che il Pesce in certi passaggi (pagina 160) si limita più prudentemente a sostenere che i romani non potevano far tutto da soli, aprendo quindi anche alla corresponsabilità del sinedrio, ma la sostanza del discorso assolutorio per i capi ebraici ed accusatorio per i romani non cambia.

Pesce, ossessionato dalla necessità di respingere l’idea del «popolo deicida», dimentica che, al di là di forzature storiche e storicamente condizionate, la Chiesa non ha mai insegnato una corresponsabilità collettiva ed oggettiva di tutti gli ebrei nella morte di Cristo, imputando questa, sin dai tempi apostolici, al solo sinedrio (e neanche a tutto: si pensi a Giuseppe d’Arimatea ed a Nicodemo), ben consapevole che di fronte a Cristo il popolo ebreo, per la prima volta nella sua storia, si spaccò irrimediabilmente in due gruppi: uno che seguì Cristo e l’altro che rimase irretito dalla colpa del sinedrio.
Mai però la Chiesa, che pregava per la conversione di Israele, ha preteso di definire il grado di consapevolezza e, quindi, di responsabilità del secondo gruppo, quello che restò imbrigliato nella rete sinedritica, e dei suoi discendenti, anche quelli attuali, nella scelta a suo tempo fatta.
Si tratta, in realtà, di una tesi vecchia di almeno due secoli, nata, non a caso, in ambito illuminista ma desunta da certi settori del giudaismo post-biblico che anche oggi la utilizzano per negare la Divinità di Gesù e riassorbire la figura di Cristo nel novero del mero profetismo.
In ambito cattolico questa tesi sulla responsabilità romana e la non colpevolezza dei capi religiosi ebraici, in merito alla morte di Gesù, ha fatto breccia sulla scorta del, umanamente comprensibile ma teologicamente ingiustificato, shock per la «Shoah».

Ha notato in proposito il Cantalamessa: «Merita una discussione a parte il capitolo del libro di Corrado Augias e Mauro Pesce sul processo e la condanna di Cristo. La tesi centrale non è nuova; ha cominciato a circolare in seguito alla tragedia della Shoah ed è stata adottata da quelli che propugnavano negli anni Sessanta e Settanta la tesi di un Gesù zelota e rivoluzionario. Secondo essa, la responsabilità della morte di Cristo ricade principalmente, anzi forse esclusivamente, su Pilato e l’autorità romana, il che indica che la sua motivazione è più di ordine politico che religioso. I Vangeli hanno scagionato Pilato e accusato di essa i capi dell’ebraismo per tranquillizzare le autorità romane sul loro conto e farsele amiche» (12).
A dire però tutta la verità, nel duetto Augias/Pesce è più il giornalista a spingere il professore verso l’ipotesi «zelotica», alla quale accenna Cantalamessa, mentre Pesce tenta di non lasciarsi del tutto intrappolare in tale ipotesi, che farebbe, come piace per l’appunto ad Augias, di Gesù una sorta di paleo-comunista (pagine 65-66).
Questo perché la vera idea fissa di Pesce, che lui dice desumere dalle sue ricerche storiche ma che noi ci permettiamo di ritenere radicata in una pre-opzione per l’appunto «protestantizzante» (13), è quella secondo la quale Gesù non avrebbe nulla a che vedere col cristianesimo, che egli non l’ha fondato né ha voluto fondarlo: idea che egli esprime con la formula «Gesù è ebreo, non cristiano».

Osserva, in proposito, ancora il Cantalamessa: «Vengo ora al punto principale condiviso dai due autori. Gesù è stato un ebreo, non un cristiano; non ha inteso fondare nessuna nuova religione; si è considerato mandato solo per gli ebrei, non anche per i pagani; ‘Gesù è molto più vicino agli ebrei religiosi di oggi che non ai sacerdoti cristiani’; il cristianesimo ‘nasce addirittura nella seconda metà del II secolo’. Come conciliare quest’ultima affermazione con la notizia degli Atti (11,26) secondo cui, non più di 7 anni dopo la morte di Cristo, circa l’anno 37, ‘ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani’? Plinio il Giovane (una fonte non sospetta!), tra il 111 e il 113 parla ripetutamente dei ‘cristiani’, di cui descrive la vita, il culto e la fede in Cristo ‘come in un Dio’. Intorno agli stessi anni, Ignazio d’Antiochia parla per ben 5 volte di cristianesimo come distinto dal giudaismo, scrivendo: ‘Non è il cristianesimo che ha creduto nel giudaismo, ma il giudaismo che ha creduto nel cristianesimo’ (Lettera ai Magnesiani 10, 3). In Ignazio, cioè all’inizio del II secolo, non troviamo attestati solo i nomi ‘cristiano’ e ‘cristianesimo’, ma anche il contenuto di essi: fede nella piena umanità e divinità di Cristo, struttura gerarchica della Chiesa (vescovi, presbiteri, diaconi), perfino un primo chiaro accenno al primato del Vescovo di Roma, ‘chiamato a presiedere nella carità’. Prima ancora, del resto, che entrasse nell’uso comune il nome di cristiani, i discepoli erano coscienti della identità propria e la esprimevano con termini come ‘i credenti in Cristo’, ‘quelli della via’, o ‘quelli che invocano il nome del Signore Gesù’. Ma tra le affermazioni dei due autori che ho appena riportate ce n’è una che merita di essere presa sul serio e discussa a parte. ‘Gesù non ha inteso fondare nessuna nuova religione. Era ed è rimasto ebreo’. Verissimo, difatti neanche la Chiesa, a rigore, considera il cristianesimo una ‘nuova’ religione. Si considera… l’erede della religione monoteistica dell’Antico Testamento, adoratori dello stesso Dio ‘di Abramo, di Isacco e di Giacobbe’ (…). Il Nuovo Testamento non è un inizio assoluto, è il ‘compimento’ (categoria fondamentale) dell’Antico. (...). Ma fatta questa precisazione, si può dire che nei Vangeli non c’è nulla che faccia pensare alla convinzione di Gesù di essere portatore di un messaggio nuovo? E le sue antitesi: ‘Avete inteso che fu detto…, ma io vi dico’ con le quali reinterpreta perfino i 10 comandamenti e si pone sullo stesso piano di Mosè (anzi, al di sopra di Mosè, ndr)? Esse riempiono tutta una sezione del Vangelo di Matteo (5, 21-48), cioè di quel medesimo evangelista su cui si fa leva, nel libro (di Augias e Pesce, ndr), per affermare la piena ebraicità di Cristo! Gesù aveva l’intenzione di dare vita a una sua comunità e prevedeva che la sua vita e il suo insegnamento avrebbero avuto un seguito? Il fatto indiscutibile dell’elezione dei 12 apostoli sembra proprio indicare di sì. Anche lasciando da parte la grande commissione: ‘Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura’ …, non si spiegano diversamente tutte quelle parabole, il cui nucleo originario contiene proprio la prospettiva di un allargamento alle genti. Si pensi alla parabola dei vignaioli omicidi, degli operai nella vigna, al detto sugli ultimi che saranno i primi, sui molti che ‘verranno dall’oriente e dall’occidente per sedersi a mensa con Abramo’, mentre altri ne saranno esclusi e innumerevoli altri detti (…). ‘Anche Paolo, come Gesù, - si dice - non è un cristiano, ma un ebreo che rimane nell’ebraismo’. (Ed) è vero; non dice forse lui stesso: ‘Sono ebrei? Anch’io! Anzi io più di loro!’? Ma questo non fa che confermare ciò che ho appena rilevato sulla fede in Cristo come ‘compimento’ della legge. Per un verso Paolo si sente nel cuore stesso di Israele (del ‘resto di Israele’, preciserà egli stesso), per l’altro si distacca da esso (dall’ebraismo del suo tempo) con il suo atteggiamento verso la legge e la sua dottrina della giustificazione mediante la grazia» (14).

Pesce nega il Cristianesimo alla radice.
Sono negate, infatti, tutte le verità cristiane essenziali, quali la UniTrinità di Dio, la Divinità di Gesù, la sua Incarnazione, la sua Concezione Verginale, il Carattere Redentivo della Sua Morte, la Sua Risurrezione.
Sappiamo perfettamente che Pesce in tutto ciò, ossia nella dogmatica cattolica, vede solo una delle tante varietà possibili di «cristianesimo» e direbbe, a sostegno della sua posizione, che nei primi secoli di tali varietà ne esistevano molte, sicché lo storico non può disinteressarsene.
Giusto: lo storico non può disinteressarsene ma a condizione di fare lo storico e di non subdolamente insinuare che se la forma cattolica del cristianesimo ha prevalso ciò sarebbe soltanto o un caso fortuito oppure il risultato della posizione di forza, con conseguente crescente violenza contro gli «eretici» nel corso dei secoli, acquisita dalla Chiesa cattolica, magari appoggiandosi al «cattivo» potere romano.
Perché, anzi, lo storico, se onesto, non può esimersi dal chiedersi, senza pregiudizi del tipo di quello appena indicato (la presunta «prepotenza romana» della Chiesa), per quale motivo proprio la forma cattolica ed apostolica ha finito per restare essenzialmente intatta nei secoli, perpetuandosi nonostante ogni marea contraria ed ogni assalto «ereticale», mentre tutti gli altri «cristianesimi» sono invece scomparsi o si sono ridotti ad oggetto per studi archeologici.
Non sarà forse che questo fenomeno assolutamente unico nella storia, e perciò inspiegabile con le sole categorie umane, avrà a che fare con quel Paraclito inviato, come promesso, da Cristo per assistere, illuminare e guidare la Chiesa?

E non si dica che questa è una risposta apologetica.
Non lo si dica soprattutto senza averne un’altra alternativa, ma solidamente fondata e supportate da prove, che possa spiegare in che modo una organizzazione come la Chiesa cattolica, che i suoi detrattori vorrebbero puramente umana, possa aver resistito, secondo la promessa del suo Fondatore «inferii non praevalebunt», più di duemila anni quando una regola costante della storia dimostra che qualsiasi gruppo umano, sette, regni, imperi, corporazioni di vario genere, raggiunge un massimo di pochi secoli di vita, molto raramente il millennio, e soprattutto che questo avviene non senza cambiare ripetutamente la propria intrinseca essenza originaria sino al punto che ciò che arriva alla fine dell’esperienza storica di qualsiasi realtà umana è sempre assolutamente ed essenzialmente diverso da ciò che era all’origine.
Per il professor Pesce, dunque, il dogma della Fede cristiana altro non sarebbe che incrostazione teologica con cui la Chiesa avrebbe ricoperto la figura storica di Gesù, facendone un essere divino, il Logos fatto carne di cui parla il Vangelo di Giovanni.
Il compito che Pesce affida all’esegesi storicista di matrice razionalista è dunque quello di liberare da tale incrostazione teologica ovvero «cristiana», che la falserebbe, la figura storica di Gesù.
Ecco perché Pesce insiste sull’assoluta «ebraicità» di Gesù e perché si dice convinto che Gesù è stato «cristianizzato», e quindi falsato, fino a farlo diventare il fondatore del cristianesimo.

Diciamolo pure apertamente: Pesce, che non è cattolico, sembra non essere neanche cristiano ma noachide, ossia un adepto non ebreo del giudaismo post-biblico.
Noi non siamo accademici, come il professore, ma abbiamo letto abbastanza in materia da poter cristianamente ribadire che la frattura tra il «Gesù della storia» (il «Gesù ebreo» di Pesce) ed il «Gesù della fede» (il «Gesù cristiano» di Pesce) è assolutamente insostenibile proprio sul piano della storia, oltre che su quello della fede.
Il Gesù della fede E’ il Gesù della storia, e viceversa.
Non è affatto la sua adulterazione «sotto la coltre fitta della teologia», come pretende Pesce.
In realtà, quella frattura non esiste.
Senza alcun dubbio storicamente Gesù è nato ebreo ma non è vero, come dice il professor Pesce, che Gesù non ha mai criticato la religione ebraica ufficiale del suo tempo, che non c’è nessuna sua idea o consuetudine o iniziativa che non sia integralmente ebraica, che tutti i concetti da lui espressi sono ebraici, che Gesù rispettava alla lettera tutte le prescrizioni della Torah, comprese quelle riguardanti gli alimenti.

Quanto poi alla stessa Torah, certamente Gesù l’ha ritenuta espressione della volontà di Dio, ma da una parte ne ha corretto molte volte l’interpretazione che ne davano gli scribi e farisei: come nel caso del qorban: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Marco 7,8) o in quello del divorzio, permesso dal Deuteronomio (24,4), per ribadire il genuino progetto originario di matrimonio, affermando che l’uomo non deve separare quello che Dio ha congiunto nell’atto creativo dell’uomo e della donna (Genesi 1,27; 2,24).
Gesù non ha inteso certamente «abolire la Legge» ma «darle compimento» attraverso l’eliminazione delle incrostazioni (sì: in questo caso ben può parlarsi di incrostazioni) apportatevi dall’esegesi spuria dei sinedriti.
Un’esegesi quest’ultima che aveva preso il sopravvento lungo i secoli all’interno di Israele: da qui la polemica di Cristo contro i dottori della Legge che Lui accusava di essersi seduti sulla cattedra di Mosè abusivamente e di insegnare dottrine adulterate.
In tal modo Gesù vuole mettere in luce le esigenze più profonde della Torah, il suo vero autentico significato divino, che vanno assai al di là di quanto «fu detto agli antichi» (Matteo 5,17-31).
Circa gli alimenti, che il Levitico divideva in puri e impuri, Gesù, dice Marco, «dichiarava mondi tutti gli alimenti» (Marco 7,19), rilevando che «non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Marco 7,15).

Secondo Pesce questi passi sarebbero soltanto glosse interpretative dell’evangelista mentre l’intero contesto dimostrerebbe che il riferimento di Gesù era al solo precetto farisaico (non biblico) di lavarsi le mani prima del pasto.
In tal modo, vivisezionando la «lettera» con criteri tanto presuntivamente «scientifici» quanto in realtà soggettivisticamente arbitrari, Pesce pretende di provare la sua tesi su un Gesù «legalistico» rispettoso fino all’inverosimile di tutte le prescrizioni, comprese quelle sull’impurità o meno degli alimenti, della Legge.
Ma se si legge attentamente l’intero brano in questione, e senza la scappatoia dell’interpolazione ermeneutica apposta dall’estensore del Vangelo di Marco, tutto il contesto è chiaramente legato anche alla questione degli alimenti che Cristo afferma non essere impuri quanto invece i peccati che si annidano nell’uomo: «Non capite - spiega infatti Cristo ai discepoli che chiedevano chiarimenti - che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?... Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive» (Marco 7, 18-21).
Quindi, contrariamente a quel che pensa Pesce, Gesù, sulla scia dell’antica Legge, proclama una Legge nuova, che non contraddice la prima, ma la compie, chiedendo, ad esempio, di «non opporsi al malvagio», di «amare i nemici» e di «pregare per i persecutori» (Matteo 5,39-44): cose, queste, che la Torah non prescriveva affatto.
Quanto all’osservanza del sabato, Gesù si discosta profondamente dagli scribi e dai farisei, proclamando che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Marco 2,27).
Perciò è lecito in giorno di sabato compiere guarigioni e strappare le spighe per nutrirsi.

Ugualmente scandalosa è la condotta che Gesù tiene con i pubblicani, i peccatori, le donne di malaffare.
Si trattava di persone che, secondo l’interpretazione che i sinedriti ne davano, erano assolutamente impossibilitate a seguire la Legge, ossia a giustificarsi ovvero santificarsi seguendo la Legge.
Si può immaginare quale vita socialmente emarginata conducevano questa categorie sociali senza neanche la speranza di un riscatto oltremondano.
Gesù, anche in questo per niente «ebreo» intendendo per tale l’esegesi sinedritica della Legge, non condanna aprioristicamente pubblicani e prostitute ma li ammette alla possibilità del cambiamento salvifico di vita.
Di più: il suo approccio all’universo femminile è assolutamente incomprensibile con le categorie culturali e sociali del tempo, e, si badi, non solo con quelle ebraiche.
Egli si mostra Risorto per primo alle donne la cui testimonianza nei tribunali del tempo non aveva alcun valore legale.
Ed, infatti, gli apostoli, come trapela dai Vangeli, sono totalmente diffidenti verso quelle donne che raccontavano di averLo incontrato Risorto, considerando quelle storie roba da donnicciuole esaltate. Solo quando Cristo si mostra anche a loro essi cambiano idea.
Gli apostoli erano rudi uomini di Galilea, del tutto alieni da ogni fantasia o filosofia o da esperienze metacoscienziali autogene, uomini del tutto concreti ed abituati, dalla durezza della vita, a giudicare solo sulla base di fatti reali: altro che allucinazioni dovute all’emotività o, come asserisce Pesce, sulla scorta del cattolico americano John Pilch, di «esperienze di coscienza allargata non necessariamente patologiche»!
Dunque Gesù è, sì, un «ebreo», ma un ebreo che esce fuori dagli schemi spirituali e culturali dell’ebraismo, adulterato, ossia sinedritico, del suo tempo.
Pesce bara, spacciando per certezze storiche le sue ipotesi giudaizzanti, quando afferma che non c’è nulla in Gesù che non sia «integralmente ebraico».

Gesù, secondo Pesce, avrebbe ritenuto di essere stato inviato da Dio a predicare solo agli ebrei e non ad altri (pagina 26 e seguenti) sicché sarebbe legittimo dire che Egli non è cristiano e che non abbia fondato né abbia voluto fondare una nuova religione, il cristianesimo (15).
Al contrario, una simile affermazione, oltre a non essere conforme alla fede cristiana, è storicamente e teologicamente una assurdità senza fondamento.
Non è infatti vero che Gesù abbia voluto restringere la sua predicazione al solo popolo d’Israele: quando nel caso della donna cananea Egli ha ricordato di fronte ai farisei che era venuto solo per la casa d’Israele, il suo fine è stato quello di sollecitare la risposta della donna, «Si, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Matteo 15,27), per poter dire pubblicamente che, come nel caso di quella donna non ebrea o in quello del centurione romano che chiese ed ottenne la guarigione del servo, è la fede in Lui, Dio-Uomo, a salvare e non l’appartenenza al popolo ebraico.
Gesù in questi ed in altri episodi nei quali elogia i pagani per la loro fede, superiore a quella degli israeliti, o in parabole come quella del buon samaritano, annuncia l’ingresso messianico delle genti nella Fede di Abramo, secondo le prospettive universalistiche già annunciate dai profeti, e rivela che è questa Fede a fondare il Vero Israele che troverà il suo compimento e la sua continuazione nella Chiesa, la quale pertanto può legittimamente fregiarsi del titolo di «Nuovo Israele» nei confronti dell’Israele sinedritico, il «Vecchio Israele», che ha rifiutato, nell’adulterazione farisaica poi codificata nel Talmud e nel testo masoretico dell’Antico Testamento, la fede abramitica.

Cristo ha rivolto la sua predicazione «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo 10,6) concetto nel quale rientrano anche i popoli pagani perché in questo passo evangelico Israele, popolo a suo tempo scelto, in un mondo pagano, per ricevere di nuovo la perduta fede monoteista che fu propria all’umanità dell’Origine, è immagine tipologica dell’Umanità nel suo stato adamitico originario.
Che Cristo non sia venuto solo per il popolo ebreo è del resto confermato da quanto dice Egli stesso in Giovanni 10,14-16: «Io sono il buon Pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me ed io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore.  E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo Pastore».
A tale scopo Egli ha chiamato a seguirLo dodici discepoli, perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Marco 3,14-15).
Nell’Ultima Cena, alla vigilia della morte, istituisce il perenne rito pasquale, che si ricollega direttamente ai simboli eucaristici, pane e vino, del Sacerdozio Universale di Melchisedek in Genesi 14,18, e chiede ai Dodici di ripeterlo in sua memoria perché Rinnovazione non cruenta dell’Eterno Sacrificio della Croce e Presenza Reale del Suo Cuore nella Transustanziazione della sostanza ferma rimanendo l’apparenza sensibile delle specie eucaristiche.
E’ proprio l’Eucarestia con il suo collegamento al Sacerdozio al modo di Melchisedek a dimostrare che l’Universale Verbo di Dio si è Incarnato nell’Uomo Gesù Cristo e che la stessa Fede di Abramo, ossia Israele, dipende dal Logos Universale (e non il contrario).

La parola di Cristo: «Fate questo in memoria di me», pronunciata in occasione dell’istituzione dell’Eucarestia, si richiama a Esodo 12, 14 e mostra l’intenzione di dare al «memoriale» pasquale un nuovo contenuto, un contenuto universale perché attuazione reale della prefigurazione, soltanto simbolica, dell’offerta di Genesi 14,18.
Non per nulla, soltanto dopo pochi anni dall’Ultima Cena, Paolo parla della «nostra Pasqua» (1 Corinti 5, 7), distinta da quella dei giudei.
Se all’Eucaristia e alla Pasqua si aggiunge il fatto incontrovertibile dell’esistenza di un battesimo cristiano fin dall’indomani della Pasqua che progressivamente sostituisce la circoncisione, abbiamo gli elementi essenziali per parlare, se non di una nuova religione, di un modo rinnovato, ossia purificato e attualizzato, di vivere la religione d’Israele, finalmente liberata dalle incrostazioni sinedritiche (oggi, rabbiniche).

Ma per Pesce «Non c’è una sola idea o consuetudine, una sola delle principali iniziative di Gesù che non siano integralmente ebraiche [...]. Tutti i concetti fondamentali espressi da Gesù sono ebraici: il regno di Dio e la redenzione, il giudizio finale, l’amore per il prossimo».
Inoltre precisa, esultando, che Gesù, come un ebreo fariseo, crede alla risurrezione dei corpi e non, come un greco, all’immortalità dell’anima: ma egli sorvola sul fatto che l’idea dell’immortalità dell’anima, separata dal corpo, sebbene concepita come un unicum con esso, è già presente nei testi del Vecchio Testamento e che tale idea diventa sempre più chiara proprio mano a mano che ci si approssima al Nuovo.
Ora, il fatto stesso che i testi biblici sapienziali, nei quali è chiaramente affermata anche l’immortalità spirituale, risentissero dell’influsso eIlenizzante nulla toglie al loro carattere rivelatorio per il semplice motivo che lo Spirito, manifestando progressivamente sul piano storico la Rivelazione, ha gradualmente aperto il chiuso mondo ebraico verso l’universalismo ellenista e, al tempo stesso, ha preparato il mondo ellenista alla ricezione della Fede di Abramo.
Ne è conferma la visione profetica di Daniele circa i quattro imperi storicamente propedeutici al manifestarsi del Figlio dell’Uomo.

Alla ricerca dell’ebraicità di Cristo, Pesce fa la «sensazionale» scoperta che come ogni «ebreo religioso» Gesù pregava.
Perciò, il professore, in ciò compagno di strada di Piergiorgio Odifreddi, afferma: «Gesù è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega Dio se si pensa di essere Dio» (pagina 28).
Gesù ha insegnato il Padre nostro: ma - secondo Pesce - questa preghiera «non ha nulla di cristiano. Qualsiasi ebreo religioso la potrebbe recitare senza doversi per questo convertire al cristianesimo. In questa preghiera Gesù non è mai nominato. Egli non ha alcuna funzione nella salvezza dell’umanità» (pagina 30).
Al contrario di quel che pensa il nostro Pesce, invece, la preghiera di Gesù, fatta spesso nella notte, è un colloquio «filiale» col Padre, a cui Gesù si rivolge col termine di «abbà».
Questo termine è diversamente interpretato dagli studiosi: per alcuni avrebbe una valenza affettuosa simile nella sostanza a quella del nostro «papà», per altri invece significa semplicemente «padre».
Ma rimane comunque possibile, anche nella seconda ipotesi, una accezione di tipo confidenziale.
Si tratta, quindi, in questo senso, di un termine di grandissima importanza e di decisivo significato teologico, che ci fa penetrare nella vita interiore di Gesù, o meglio, nel «mistero» della sua coscienza «filiale».
Con questo termine particolarissimo, Gesù vuol farci intendere che, in realtà, Dio è il «Padre suo», in maniera diversa da quella di essere Padre di tutti gli uomini, per cui parlando ai discepoli egli dice «Padre mio» (Matteo 7,21) e «Padre vostro» (Matteo 6,26), e non dice mai «Padre nostro», ponendo cioè, sullo stesso piano se stesso e i suoi discepoli.

Che, poi, la preghiera insegnata ai discepoli da Gesù - il Padre Nostro - non abbia nulla di cristiano, ma sia totalmente ebraica, è un’altra solonica asserzione professorale priva di consistenza. Si sa che il termine Padre è assai poco usato nell’Antico Testamento, dove compare soltanto una quindicina di volte, ed è applicato a tutto il popolo, non ai singoli individui, a eccezione del re,
il quale soltanto può dire a JHWH: «Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Sal 88 [89], 27).
Per Gesù il termine «Padre» è il nome proprio di Dio, e tutti gli uomini - non solo gli ebrei - sono suoi figli.
Circa il carattere totalmente ebraico del Padre nostro scrive H. Schürmann: «Hanno ragione tutti coloro che dicono che nel Padre nostro Gesù prega come ebreo e ogni ebreo può unirsi a questa preghiera; ogni frase può essere documentata con testi ebrei uguali o simili [...]. Ma il ‘peculiare aspetto gesuanico’ della preghiera di Gesù fece ‘saltare’ l’ebraismo. Solo chi nella complessità del Padre nostro ha scorto il ‘peculiare aspetto gesuanico’ [...] come cristologia incoativa implicita, ha compreso la preghiera di Gesù nella sua profondità» (16).
Cioè, soltanto chi crede che Gesù è il Figlio di Dio può recitare il Padre nostro nella sua profondità e verità.
A proposito della assoluta ed invalicabile differenza tra il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam, culturalmente e storicamente pur vicini, è stato osservato, proprio con riferimento al Padre Nostro, che: «…resta nondimeno chiara la consapevolezza non solo del fatto che la prossimità… non può comunque annullare le differenze insite nelle rispettive esperienze religiose in tutte le loro manifestazioni (dalla mistica alla teologica, dalla rituale all’etica), ma anche di quello che è l’Incarnazione del Figlio a tracciare una linea invalicabile tra il cristianesimo e le altre due religioni sorelle, tra loro molto più vicine di quanto l’una e l’altra, separatamente prese, non lo sia rispetto a esso. La cartina di tornasole è elementare: il Pater Noster, che un ebreo e un mussulmano potrebbero recitare riga per riga, parola per parola escluse però (e sono la chiave di volta) le prima due semplici parole. Il Dio Onnipotente e Creatore, Elohim, Allah, è Signore ma non è Padre; la croce, scandalo per i giudei e follia per i gentili, è orrore e vergogna per i mussulmani; tra natura divina e natura umana esiste nell’ebraismo e nell’islam un’alterità assoluta, che la compresenza delle due distinte nature nell’ambito della Persona del Cristo e la transustanziazione nel mistero eucaristico modifica profondamente» (17).

Inoltre è una idea fuorviante quella di Pesce in merito al fatto che la preghiera del Padre nostro non conterebbe alcun riferimento a Cristo, sicché questo dimostrerebbe che Lui la pregava come un qualsiasi ebreo e non come Dio.
Il professore dimentica che Nostro Signore Gesù Cristo ha chiaramente identificato Se stesso con il Regno di Dio: «Interrogato dai farisei: ‘Quando verrà il Regno di Dio?’, rispose: ‘Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il Regno di Dio è in mezzo a voi!» (Luca 17, 20-21).
Pregare Dio Padre affinché venga il Suo Regno significa pregare affinché Cristo, che è stato in mezzo a noi e che ha promesso di rimanere sempre con noi fino alla fine del mondo («Ecco, Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», Matteo 28-20), ritorni gloriosamente a trasfigurare nella Sua Gloria il mondo per portarlo, oltre la storia, nell’Eternità.
Un altro chiaro riferimento a Cristo contenuto nella preghiera del Padre nostro è quello al «dacci oggi il nostro pane quotidiano» perché quel pane che si chiede a Dio Padre non è solo il pane con cui ci nutriamo tutti i giorni ma è anche, e soprattutto, il Pane Eucaristico, ossia la Presenza Reale di Cristo nella Transustanziazione delle specie che sono il supporto materiale del Rito della Rinnovazione del Sacrificio Eterno della Croce.
Mentre i cristiani - continua Pesce - hanno visto in Gesù un essere soprannaturale, «Gli storici contemporanei al contrario vedono in Gesù un uomo e sono quindi in grado di riscoprire anche la sua ebraicità» (pagina 30).
Questa affermazione sembra ovvia sotto il profilo storico: infatti - direbbe Pesce - lo storico non può partire da presupposti confessionali e deve interrogarsi sulla storia del cristianesimo primitivo da un punto di vista, appunto, storico (ma proprio per questo - diciamo noi - limitato ossia mancante dell’apertura di fede) senza proiettare sui suoi studi categorie teologiche magari elaborate successivamente.
Ma in realtà, a parte il fatto che l’assoluta oggettività dello storico è una chimera, sicché in un modo o nell’altro le sue opzioni teologiche, di un tipo o di un altro (anche quelle ateistiche sono opzioni a modo loro teologiche), cacciate dalla porta finiscono sempre per rientrare dalla finestra, vi è da dire che fare dell’«ebraicità», che si vorrebbe riscoprire in Cristo ridotto solamente a uomo, un fatto, nella migliore delle ipotesi, storico-culturale o, nella peggiore, etnico-razziale (ma Pesce sicuramente opta per la prima ipotesi), è un’operazione che distrugge alla base persino lo stesso ebraismo se inteso come spiritualità, religione, teologia.
Non sappiamo quanto questa riduzione umanitario-ebraicizzante di Cristo, viste le premesse sulla quale si basa e le conseguenze inevitabili che comporta, potrebbe piacere ai «fratelli maggiori» ai quali Pesce pur guarda con ogni attenzione e devozione.

Per Pesce, come si è detto, ci sarebbe una radicale «differenza tra il Gesù ebreo e il Gesù cristiano: il Gesù cristiano è quello di cui san Paolo dice: ‘Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture’», mentre «il Gesù ebreo dice: è Dio che rimette i peccati [...] e quando insegna il Padre nostro non pensa di dover morire per i peccati degli uomini» (pagina 29) e pertanto «il suo messaggio è sostanzialmente diverso da quello del cristianesimo successivo» (pagina 55).
Qui Pesce riprende la vecchia tesi di San Paolo inventore del cristianesimo: un leitmotiv della scuola storico-critica di origine protestante.
E’ necessaria, a questo punto, per meglio capire le antiche e recondite radici del pensiero di Pesce, forse neanche a lui ben presenti, perché lo storico di solito non si chiede mai quali siano le implicazione teologiche o filosofiche che egli inconsapevolmente pone a base delle sue presunte scientifiche ricerche, una breve parentesi sulla teologia luterana.
E’ noto che Lutero pretendeva di appoggiare l’eresia della «sola fides» sull’insegnamento paolino, idoneamente manipolato per farlo coincidere con la propria dottrina ereticale.

Per comprendere la posizione luterana, che è all’origine del fideismo, ossia dell’opposizione di «Fides et Ratio», laddove cattolicamente, quell’endiadi è invece inscindibile, non bisogna mai dimenticare l’intrinseca ma chiara radice soggettivista contenuta nella teologia di Lutero.
Il quale in sostanza pretendeva che fosse la fede soggettiva del credente a rendere «reali» le verità di fede, sicché, ad esempio, l’Eucarestia è davvero il Corpo di Cristo non perché così è, oggettivamente, ma solo nella misura e fintanto che il fedele crede a tale verità.
Insomma, per Lutero, non è Cristo a trasformare il pane nel suo Corpo ma è il singolo fedele che rende vera, credendoci, la Presenza di Cristo.
Detto in termini luterani: sia Dio che l’idolo non avrebbero consistenza di enti realmente esistenti ma dipenderebbero per la loro esistenza dalla fede soggettiva del singolo.
In ciò Lutero anticipa tutto il «cogito ergo sum» cartesiano e tutto l’idealismo successivo, che da Cartesio approda, mediante Kant, fino a Fiche, Hegel e, per finire, alle posizioni dichiaratamente atee di Feuerbach, che nel suo «L’essenza del cristianesimo» dichiarava essere l’uomo a fare Dio e non viceversa.
Ecco perché tra il «sola fides» ed il «sola Scriptura» di Lutero, che sembrerebbero tra loro in contraddizione, vi è, invece, una segreta corrispondenza: mediante il fideismo, la fede arbitraria del soggettivistico «libero esame», senza aggancio alla Tradizione ed al Magistero, ciascuno è libero di piegare la «lettera» facendo dire ad essa tutto ciò che si vuole ed il contrario di tutto.
Non a caso il protestantesimo si è diviso in tante sette quanti sono stati i suoi esegeti che hanno preteso di interpretare soggettivisticamente la Scrittura.
Ed è questo anche il vizio di fondo dello storicismo razionalistico, di origine protestante, al quale accede il Pesce e che, arbitrariamente, sezionando parola per parola finisce per proiettare sul testo i desiderata più o meno consci dello storico o dell’esegeta anziché entrare davvero nel Mistero di Cristo.
Il quale Mistero non è solo nella lettera ma è nello Spirito che illumina la Scrittura e che, vivificando la Tradizione, ossia tenendola sempre viva, impedendo ad essa di fossilizzarsi, guida la Chiesa docente.
 Dal momento che «Gesù (sarebbe stato) insieme un mistico e un grande sognatore religioso, che cerca di collocare la giustizia al centro del mondo» (pagina 62) per Pesce ci sarebbe «una differenza fondamentale, direi una discontinuità: se vogliamo un tradimento del cristianesimo rispetto a Gesù» (pagina 68).

Pesce, nel tentativo di individuare l’identikit del Gesù «ebreo», liberato dalle incrostazioni dogmatiche con cui il cristianesimo cattolico lo avrebbe rivestito, ritiene che Egli non sia nato a Betlemme ma «in Galilea, verosimilmente a Nazareth» (pagina 10), e ritiene che suo «padre è Giuseppe e la madre Maria» (pagina 11).
Benché la sua intenzione dichiarata sia quella di non accedere a nessuna apologetica, questa conclusione a riguardo della «nascita umana» di Cristo porta inevitabilmente il Pesce nei paraggi, che egli lo voglia o meno, dell’ingiuriosa leggenda talmudica su Gesù Ben Pantera, con la semplice variazione di Giuseppe al posto del legionario romano.
Certo, il professore non accetterebbe mai la leggenda talmudica proprio perché tale, ossia leggenda senza fondamento storico, ma è innegabile che le sue intenzioni sono le stesse dei rabbini che hanno elaborato la leggenda in questione: ossia quelle di negare la Divinità di Cristo e la sua nascita soprannaturale e, conseguentemente, la Perenne Verginità della Madonna.
Magari si può ammettere che i rabbini lo abbiano fatto per polemica teologica e che Pesce lo faccia per presunta scientificità metodologica, ma, in sostanza, il risultato è il medesimo.
Se Pesce cerca di tenersi su un piano da lui [ma, per le motivazione poc’anzi esposte sulle radici luterane di un certo modo di procedere, non da noi] ritenuto oggettivo e scientifico, Augias invece cerca in tutti i modi di depistare lo storico cercando di fargli ammettere che nell’insistenza dei Vangeli di Matteo e di Luca sulla concezione verginale di Gesù non vi sarebbe la pura e semplice verità storica, innegabile da chi, gli apostoli, aveva saputo da Cristo stesso e da Maria, ma
«la necessità di mostrare che la vita di Gesù portava a compimento alcune profezie della Bibbia ebraica» e l’«influenza della cultura ellenistica sulle giovani comunità grecocristiane», poiché «la storia della classicità è piena di figure divine o semidivine la cui nascita veniva detta di carattere soprannaturale», a motivo di dèi (in particolare Zeus) che si univano con donne (confronta pagina 90).

Almeno in questo dobbiamo acconsentire con Pesce che sa benissimo che su questo punto, la tesi comparativista del cristianesimo come duplicato ebraico dei miti pagani sulla nascita e morte degli dei, il paragone non regge affatto, sicché sulla questione il professore glissa e non segue Augias.
Il quale, però, non demorde nel tentare di depistare il discorso fino ad argomentare sulla presunta omosessualità che avrebbe legato Gesù ed i discepoli (pagina 120).
Chiacchiere da giornalista da rotocalco sulle quali Pesce, giustamente, sorvola.
Infatti Augias, senza rendersi conto di contraddirsi, passa con estrema facilità dalla tesi del Gesù solo uomo alla tesi del Gesù mitico, privo di consistenza storica, che è l’altra delle tesi dello storicismo critico di impostazione razionalista.
Tesi che, come ha ampiamente dimostrato Vittorio Messori, nel suo «Ipotesi su Gesù» (SEI, 1976 - 1993), pur nella loro apparente contraddittorietà, si sostengono a vicenda in un sottile gioco dialettico di rimandi reciproci.
Tutti i razionalisti, pur di negare Gesù Cristo, finiscono prima o poi immancabilmente per oscillare tra queste due, contradditorie, tesi.

Dunque, per il nostro professore, Gesù non sarebbe certamente il Figlio di Dio fatto uomo, quale la Chiesa professa sulla scorta della testimonianza dei discepoli che hanno vissuto con Lui: testimonianza che è contenuta nei quattro Vangeli canonici, i quali perciò sono la fonte essenziale della nostra conoscenza di Gesù.
Pesce naturalmente mette in dubbio l’attendibilità storica dei Vangeli canonici e si lamenta che la Chiesa, altro indizio del presunto originario carattere antisemita di essa, tra tutti i «vangeli» a propria disposizione (in vero, salvo i canonici, tutti gli altri sono di evidente matrice spuria o gnostica, ma per Pesce questo non sarebbe dirimente), avrebbe escluso, insieme a quelli gnostici, che tuttavia per lui non sono da disprezzare, proprio quelli che contenevano un’immagine troppo giudaica di Gesù (pagina 21).
Anzi per Pesce «i Vangeli, normalmente considerati fonti primarie per conoscere Gesù, sono in realtà una delle prime forme di cristianizzazione della sua figura».
In tal modo la Chiesa nascente, per malcelato antisemitismo, avrebbe adulterato l’identità esclusivamente ebraica di Gesù.

Pesce riassume le tesi del criticismo storico che vogliono i Vangeli essere testi «lacunosi, contraddittori, manipolati», che la Chiesa ha scelto tra molti Vangeli per ragioni «non chiare», rigettando altri Vangeli come «apocrifi» e in tal modo condannandoli all’oblio (18), e pur non aderendo in toto ad esse, come ad esempio quando rigetta la tesi della falsificazione (pagina 157) e dichiarando che i sinottici restano comunque la fonte migliore a nostra disposizione per arrivare al Gesù storico, egli in sostanza non si discosta dall’intenzione principale degli storicisti razionalisti che è quella di negare valida ermeneutica alla Tradizione apostolica e, conseguentemente, al Magistero, ma semplicemente mette in cantiere un’operazione più sibillina: quella di dar credito ai sinottici ma, ed ecco che Lutero fa capolino, proiettando su di essi, in nome della presunta «scientificità» del metodo, i propri desiderati ideologici (segretamente?) anti-cattolici.
E’ evidente che benché da percorsi diversi le vie di Augias e di Pesce finiscono per intrecciarsi nel fare della Chiesa la «mistificatrice» cristianizzante dell’ebreo Gesù e, dunque, la responsabile del secolare «antisemitismo cristiano».
Certo Pesce con un’aura di autorità professorale ed Augias invece con saccenza giornalistica.
Ma il gioco di squadra, benché non sempre riuscito, appare evidente.
Non a caso Augias, rifacendosi agli studi dell’ingegnere (!) ebreo veneziano, Riccardo Caimani, afferma: «La novità, un’importante novità, verificatasi nell’ultimo mezzo secolo di studi biblici, è stata proprio il recupero, la riscoperta dell’ebraicità di Gesù, laddove in precedenza l’antiebraismo cristiano tendeva a farne addirittura un critico della religione ebraica» (pagina 24). Senza però dire che fino al secolo XIX l’ebreo che in sinagoga affermasse l’«ebraicità» di Gesù veniva espulso sulla base di un interdetto rabbinico che negava - si ricordi la leggenda talmudica su Gesù Ben Panthera - a Cristo l’appartenenza al popolo ebraico.
 
Ma le cose non stanno affatto come le mette Pesce.
In realtà, la «scelta» dei quattro Vangeli è avvenuta per ragioni assolutamente chiare, basate sull’ininterrotto tramandamento apostolico.
La prima è che soltanto nei quattro Vangeli «canonici» la primitiva comunità cristiana ha riconosciuto, per l’appunto, la «tradizione apostolica», cioè quello che hanno insegnato i Dodici,
i discepoli che sono stati con Gesù durante tutto il tempo della sua predicazione, dal Battesimo alla Risurrezione, che hanno ascoltato la sua predicazione e hanno assistito ai suoi miracoli e alla sua attività di esorcista, nonché alle sue dispute con gli scribi.
La seconda è che, mentre i quattro Vangeli canonici sono stati scritti tutti nel primo secolo (le più recenti scoperte papirologiche, come quella del frammento 7Q5 a Qumran, forniscono perlomeno gli indizi, anche se non vere e proprie prove, per ammettere legittimamente la possibilità di retrodatare i Vangeli, almeno i sinottici, ad un periodo anteriore al 50 dopo Cristo), i vangeli «apocrifi» sono di molto posteriori e in buona parte dipendono, però stravolgendoli, dai Vangeli canonici, cioè non apportano elementi nuovi per la conoscenza di Gesù.
Il terzo motivo è che molti vangeli cosiddetti «apocrifi» esprimono tendenze gnostiche, come appare, ad esempio, da alcuni detti del vangelo di Tommaso di cui citiamo al fine di far palpare ai lettori la differenza tra l’asciutto stile cronachistico dei canonici e lo stile «esoterico» degli apocrifi, il numero 114 nel quale è detto: «Simon Pietro disse a lui [Gesù]: ‘Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita’. Gesù disse: ‘Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli’».

Il sapore «gnostico» di questo detto è evidente.
Ciò che si può dire di molti altri «detti» di questo vangelo.
Infatti, anche quando gli apocrifi concordano letteralmente con i Vangeli canonici, lo spirito è generalmente gnostico.
I Vangeli canonici sono stati scritti da autori diversi ognuno dei quali ha la propria maniera di presentare Gesù e scrive tenendo presente i bisogni della comunità per la quale redige il Vangelo: da qui certe differenze puramente formali e non sostanziali, ma non si può dire che i quattro Vangeli nelle cose essenziali siano «lacunosi, contraddittori, manipolati».
Essi danno di Gesù quattro ritratti che si completano a vicenda.
Persino il Vangelo di Giovanni, che è diverso dagli altri perché più sapienziale e talvolta si discosta da essi, non è affatto in contraddizione sostanziale con gli altri tre, sicché non c’è nessuna ragione obiettiva per preferirlo agli altri.

Il gioco di squadra tra il professore che non può dire quel che è consentito dire al giornalista, ma che lascia che questi le dica, ed il giornalista che si presta a fare il divulgatore affinché le tesi del professore giungano al popolo, in particolare a quello di fede cattolica, per «liberarlo» dalle dense nebbie ecclesiali sulla figura di Gesù, si fa poi palese a riguardo dei racconti della Passione e della Resurrezione.
A proposito della Passione, Pesce afferma che i Vangeli non riportano fatti realmente avvenuti, ma «sono solo interpretazioni della fede sulla base di un nucleo storico» (pagina 157).
In realtà «I redattori dei Vangeli hanno trasformato o creato una serie di episodi che, di fatto, non si verificarono. Fra i fatti storicamente inventati c’è l’episodio di Barabba» (pagina 158).
Dal canto suo, Augias, circa la risurrezione di Gesù, afferma che «le sue ‘prove’ consistono nelle apparizioni avvenute dopo la morte in croce» (pagina 175), che - come nel caso dell’apparizione di Gesù a Maria di Magdala - potrebbero essere definite come «visioni isteriche» (un’accusa - ma Augias non lo dice - che fu già lanciata dal pagano Celso, a dimostrazione che, per dirla con Messori, le posizioni «eretiche» sono come quelle «erotiche»: poche e ripetitive!) o allucinazioni: in altre parole, «un portato del desiderio, una potente proiezione dell’inconscio» (pagina 177).
Sicché Pesce può aggiungere che «oggi alcuni studiosi cattolici interpretano le apparizioni di Gesù risorto come stati alterati di coscienza» (pagina 182).

In conclusione «le apparizioni del risorto sono solo delle visioni» (pagina 184).
Gesù perciò non sarebbe risorto «realmente», ma sarebbero stati i suoi discepoli a credere di averlo «visto»: in realtà si sarebbe trattato di allucinazioni.
Qui, benché con i paludamenti della moderna psicologia, torna a fare di nuovo capolino il soggettivismo luterano: è il fedele che, con la sua fede, rende vera la Resurrezione proiettando, in uno stato alterato di coscienza, il proprio impulso religioso fino a trasfigurarlo in una visione «mistica».
Ma sia il professor Pesce che Augias dimostrano di essere all’oscuro del fatto che la moderna psicologia, proprio quella degli «stati alterati di coscienza», ha scientificamente accertato l’assoluta individualità delle esperienze «meta-coscienziali», sia positive che negative.
Scrive in proposito Vittorio Messori: «… si dà per scontata l’esistenza di ‘allucinazioni collettive’. Ebbene, stando agli studiosi, questo tipo di fenomeni non esiste; o, almeno, non può avere persistenza. Per quanto singolare possa apparire ai profani, le ‘epidemie allucinatorie’, soprattutto se durature, sono un mito che non ha riscontro nella realtà. (…). L’esperienza mistica (in positivo), così come la patologia allucinatoria (in negativo), sono per loro natura solitarie. Non bastava di certo la ‘femmina isterica’ di Celso; né bastavano altri che cercassero di convincere i compagni di avere ‘visto’ o ‘sentito’, per creare nella prima comunità cristiana un ‘contagio psichico’ che conducesse ad una certezza tanto duratura e tanto salda da sfidare le minacce di giudei e romani e, spesso, la morte. A rendere ancor meno credibile l’ipotesi della resurrezione ‘soggettiva’ sta anche un fatto sul quale poco si riflette. Diceva Friederich Nietzsche: ‘Delle cose grandi bisogna parlare grandiosamente’. E’ il contrario della strada seguita dai Vangeli. Il Risorto è detto apparire come un ‘ortolano’ alla Maddalena; come uno sconosciuto, anonimo ‘viandante’ ai due che vanno a Emmaus; come un qualunque ‘passante’ o un ‘pescatore’ sulle rive del lago. Mai in modo ‘grandioso’, con quelle manifestazioni di lustro e potenza che il mito religioso avrebbe certamente inventate o che l’allucinazione si sarebbe rappresentate» (19).

L’oggettività dell’incontro degli apostoli con il Gesù Risorto è del tutto evidente anche per Jacques Perret, già titolare della cattedra di Storia romana antica all’Università di Parigi, per il quale gli studiosi scettici alla Pesce sono mossi da «pregiudizi e precomprensioni teologiche» al punto tale che se uno storico di altra disciplina, antica, medioevale, moderna, applicasse all’oggetto dei suoi studi, fosse esso un Cesare, un Carlo Magno, un Napoleone, gli stessi criteri, non scientifici, di preventivo pregiudizio usati da questi esegeti razionalisti verso il Cristo dei Vangeli canonici, diventerebbe immediatamente lo zimbello di tutti i colleghi: «Le manifestazioni di Gesù Risorto - scrive Perret -, le sue apparizioni, non ci sono affatto presentate dal Nuovo Testamento come un frutto delle fede, ma come ‘fatti’, che si svolgono nello spazio di ciò che si vede e si tocca. Quelle manifestazioni sono percettibili a un incredulo (Paolo), che in seguito ad esse si converte; a degli increduli (i compagni di Paolo), che restano tali (ossia increduli pur non negando il fatto, ndr); a dei discepoli che non mettono neppure in conto la possibilità che sia risuscitato (la Maddalena; gli Undici); o che, a dispetto della testimonianza dei loro compagni, si rifiutano di credere ma crederanno in seguito (Tommaso); o che continueranno a non credere (quelli che, sino alla fine, ‘tuttavia dubitavano’, Matteo 28,17)… una tale diversità di reazioni mostra bene che, a giudizio degli autori neotestamentari, queste manifestazioni non sono l’effetto di disposizioni interiori particolari ma, come ogni fenomeno di questo mondo, si impongono dal di fuori» (20).

Si osservi poi, come scrive Marco Fasol, che: «Gli studi di K. Schubert e J. Jeremias … e poi numerosi altri studi successivi hanno appurato che nel giudaismo dell’epoca di Cristo non esisteva alcun mito di una risurrezione come fatto nella storia e come fatto individuale. Gli ebrei credevano sì in una risurrezione dei corpi, ma questa era concepita come un fatto universale ed escatologico …Insomma non esisteva alcun mito, né nella letteratura giudaica intertestamentaria, né nella letteratura ellenistica, di un Messia che sarebbe dovuto morire crocefisso per poi risorgere glorios ...  Karl Schubert: ‘L’ultima cosa che un ebreo si attendeva dal messia era che dovesse patire, morire e poi resuscitare. L’ultima cosa che ci si aspettava per i tempi messianici, erano una croce ed un sepolcro vuoto in mezzo alla storia’. (…) Joachim Jeremias: ‘Il primitivo annuncio cristiano sulla risurrezione di Gesù, con un intervallo di tempo che lo separa dalla risurrezione universale di tutti i morti, rappresenta una novità assoluta per il giudaismo. Anzi, non solo per questo, ma per tutta intera la storia delle religioni.’ (…). David Flusser, ebreo, il maggiore esperto israeliano dei tempi del secondo Tempio, quelli dell’origine del cristianesimo…: ‘Non c’è nulla nell’intero giudaismo dei tempi di Gesù, nulla in nessuna corrente a noi conosciuta, che sappia qualcosa di un Figlio dell’Uomo che dovesse morire e risorgere’» (21).

In realtà Mauro Pesce, come è evidenziato dalla sua pretesa di credere anche senza basi storiche, al modo della «sola fides» luterana, si è ampiamente nutrito di quella cultura, filosofica, idealista e gnostica, probabilmente anche cabalista, molto ben esaminata e descritta da Massimo Borghesi, in fondamentali articoli apparsi sulla rivista 30Giorni, come causa della tendenza a «spiritualizzare la fede ed umanizzare Cristo» tipica degli esegeti «soggettivisti».
Una cultura «idealistica» che costituisce il pregiudizio «ideologico» dell’opera di studiosi come Pesce inficiandola irrimediabilmente.
Il professor Pesce è uomo che, morto alla fede cristiana, ha cercato un rifugio abbracciando in modo (mal)celato la fede giudaica talmudica.
Checché egli ne pensi, infatti, è proprio quella apparente «contraddittorietà e lacunosità», di cui si lamenta, a renderci sicuri, dicono altri storici e biblisti, dell’autenticità dei Vangeli.
Ecco alcuni giudizi.
John A. T. Robinson: «Le divergenze nelle narrazioni pasquali sono proprio del genere di quelle che dovremmo attenderci in resoconti autentici. Resoconti bene architettati sarebbero assai più armoniosi, assai più privi di contraddizioni»; Albert Plummer: «Malgrado le apparenze, la difficoltà di armonizzare questi racconti è proprio un motivo di sicurezza della loro veracità»; Heinz Zahrnt: «Ogni storico sa che, se ha davanti a sé più racconti eguali riguardanti uno stesso evento, gli è lecito nutrire la massima diffidenza. (…). Se, al contrario, i racconti sono diversi e divergenti l’uno dall’altro, ciò può essere una testimonianza diretta della reciproca indipendenza degli autori e una testimonianza indiretta della verità, della realtà di ciò che essi raccontano»; Joachim Jeremias: «Proprio nella varietà delle persone, delle circostanze, dei luoghi, si riflette il ricordo genuino delle ore di Pasqua e di quelle che seguirono» (22).
Non è pertanto giustificato, proprio sotto il profilo storico, lo scetticismo di Pesce sulla storicità di ciò che raccontano i quattro Vangeli.
Anche perché gli studi di André Paul hanno dimostrato che apostoli e discepoli, quando Gesù insegnava, solevano prendere appunti su una sorte di taccuini rilegati in modo simile agli odierni libri: una novità, questa dei «taccuini», assoluta per l’epoca e che in tutta l’area mediterranea stava proprio allora sostituendo il più antico papiro.

Pensare, poi, ai redattori dei Vangeli come a dei creduloni sprovveduti è un’assoluta presunzione da uomo moderno ancora legato agli schemi di un positivismo che lo vorrebbe superiore, in intelligenza, solo perché viene dopo i suoi antenati (spesso invece è il contrario).
Il bel prologo del Vangelo di Luca, dove si dice ad esempio che «molti (polloi) hanno già cercato di mettere insieme (anataxasthai = disporre in ordine) un racconto (diegesin) circa gli avvenimenti che si sono compiuti fra di noi, così come ce li trasmisero fin dal principio i testimoni oculari (autoptai) e quelli divenuti ministri della parola (hyperetai tou logou)... ed anche a me è parso bene, dopo aver indagato accuratamente ogni cosa fin dall’inizio, di scrivertene con ordine, eccellente Teofilo, affinché tu riconosca l’esattezza delle cose intorno alle quali sei stato istruito (katechéthes)», ci fa comprendere perfettamente quali siano stati i meccanismi di trasmissione della predicazione apostolica e ci rende chiara l’essenziale storicità dei Vangeli costituiti da vari materiali (piccole unità narrative, detti sparsi, parabole, etc.), asseverati dalla trasmissione apostolica, che sono poi confluiti nei Vangeli canonici.
I testi evangelici, lo si è già detto, sono nati come supporto alla catechesi orale, o al contesto liturgico, ma non ebbero mai la pretesa di «esaurire» i contenuti della fede.
Per la Chiesa, la Tradizione illumina la Scrittura, pur essendo entrambe fonti della Rivelazione. Nessun «sola scriptura» di matrice luterana.
Sin dal tempo dei Padri fu chiarissimo che la Scrittura, tutta la Scrittura sia l’Antico che il Nuovo Testamento, ha quattro livelli di comprensione, di cui quello letterale e storico è soltanto il primo, che culminano nel livello di comprensione teologica, sapienziale, mistica.
Si pensi, ad esempio, alla conclusione del Vangelo di Giovanni: «Ci sono molte altre cose che Gesù fece: se si scrivessero una per una, penso che il mondo intero non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere».
La frase è superlativa, ma, mentre dice che la Fede non è del tutto rinchiusa nella Scrittura, pur avendola come base, come sgabello, e che essa, la Fede, è inattingibile senza la Tradizione apostolica trasmessa dalla Chiesa, e dunque senza la vita di preghiera e sacramentale, dà l’idea dei processi di necessaria selezione e di ordinamento cui furono sottoposte, sotto la guida dello Spirito Santo, le varie tradizioni (orali o scritte) disponibili.

«Sotto la guida dello Spirito Santo»: questo è poi il punto dimenticato o negato dall’esegesi razionalista.
Non è possibile, infatti, non considerare l’aspetto soprannaturale della trasmissione tradizionale della Rivelazione divina.
Vi è un fenomeno mistico acclarato dalla Tradizione ed oggi confermato dagli studi scientifici di «paranormologia», quello della «visione mnemonica», che spiega molto bene come quella trasmissione potesse avvenire con massima fedeltà.
Si tratta di quella straordinaria e soprannaturale capacità, riscontrata in molti mistici, di ricordare, per visione intellettiva, le rivelazioni spirituali.
Hanno goduto di tale facoltà soprannaturale, ad esempio, santa Teresa D’Avila, che trascrisse molte rivelazioni mistiche, anche dopo parecchio tempo dalla loro ricezione, e Caterina Emmerich che dettò, anche a distanza di tempo, le sue visioni della Passione di Cristo, incredibilmente coincidenti non solo con i racconti evangelici ma anche con analoghe rivelazioni mistiche avute da altri mistici lontani nel tempo e nello spazio (alle visioni della Emmerich si è ispirato Mel Gibson per il suo «The Passion»).
Se, pertanto, un simile fenomeno è attestato, ed oggi anche scientificamente studiato, perché mai dubitare che una tale grazia, quella della «visione mnemonica», non sia stata concessa proprio agli apostoli per supportare con un aiuto soprannaturale quel che essi già ricordavano naturalmente per esserne stati testimoni oculari?
Fermo rimanendo, però, il fatto che le apparizioni di Gesù Risorto non sono avvenute, nel caso degli apostoli, al modo di visioni intellettive, come vorrebbe una certa tendenza esegetica che «soggettivizza», nel senso proprio a certa psicologia moderna, l’esperienza mistica, che, invece, di per sé non è affatto soggettiva ma è la percezione di un «qualcosa» di realmente oggettivo che si palese al mistico o al veggente, ma sono avvenute nell’assoluta oggettiva realtà corporale della Presenza del Risorto, ossia nello stesso Corpo, la stessa Santa Umanità, martoriata sulla Croce, benché adesso gloriosamente trasfigurata ma ancora del tutto materialmente, carnalmente, esperimentabile dai sensi dell’uomo.
Il cristianesimo, infatti, non è una gnosi e non si basa su nessuno «spiritualismo» ma è religione assolutamente e sanamente «materialista».
Del resto, nel corso dei secoli anche i mistici ed i santi ai quali Cristo è apparso ne parlano come di una Persona del tutto concreta nella Sua Corporeità, che spesso è stata sperimentata addirittura con il senso del tatto (si pensi, solo per fare un esempio, al Cristo che dalla Croce abbraccia, in senso materiale e fisico, san Camillo de Lellis durante una delle sue più note estasi).
Lo stesso dicasi per la Vergine Maria in molte sue apparizioni: anche per lei è testimoniata, dai santi che hanno avuto la grazia di una sua visione, l’assoluta carnalità della sua presenza mistica.

Ma dopo questa lunga esposizione/confutazione delle tesi del professor Pesce bisogna trarre alcune conclusioni che ci riportano nell’alveo dell’economia del nostro articolo, inteso ad evidenziare l’odierno gravissimo pericolo di una «giudeizzazione» della fede cristiana.
Pesce, e con lui Augias, facendo di Cristo un ebreo tradito dal cristianesimo e contraffatto dalla Chiesa, possono affermare, come affermano, che le radici dell’antisemitismo, quello poi culminato nella persecuzione nazista, sono in sostanza insite nella predicazione evangelica che, per essersi formata, per essere stata «inventata», durante lo scontro tra l’ebraismo, organizzato dal sinedrio, ed i seguaci della setta eretica dell’oscuro Nazareno, seguito alla morte del loro maestro e fondatore, sarebbe la responsabile principale della successiva Shoah.
Una tesi che, in sostanza, nega la Divino-Umanità di Cristo, ne fa un mero uomo, un oscuro ebreo poi divinizzato dai suoi seguaci e che imputa, proprio come vuole il giudaismo post-biblico che nel Talmud taccia di impostore Cristo, al cristianesimo un essenziale ed ineliminabile carattere antisemita.
Sicché, la Chiesa, dopo Auschwitz, può trovare residua ospitalità nel nuovo mondo, in procinto di giungere nella nuova era, soltanto tornando all’originario messaggio del suo storicamente oscuro fondatore che non sarebbe affatto diverso da quello dell’attuale giudaismo (la pace universale, la fraternità irenistica ed umanitaria, nel regno messianico di Dio sulla terra, con Israele come guida spirituale: quel che in altri termini promettono, poi, la globalizzazione economica ed il mondialismo).
Insomma, per Pesce, per il quale Cristo è «ebreo» e non «cristiano», la Chiesa deve de-ellenizzarsi e tornare alla sua origine ebraica, dove per ebraismo si intende non la Fede di Abramo adempiutasi, questa è la pretesa cattolica, in Cristo, ma il giudaismo che è supposto, da Pesce, come unitario e senza soluzioni di continuità in una ininterrotta linea che andrebbe da Abramo, Mosè e i Profeti fino al rabbinismo talmudico attuale.
Mentre Benedetto XVI, a Ratisbona nel 2006, ha ricordato che il cristianesimo fu preparato dal provvidenziale incontro, nel quale maturò la traduzione in greco del Vecchio Testamento detta dei Settanta, tra Gerusalemme ed Atene, Augias e Pesce invocano la de-ellenizzazione della fede cristiana per togliere ad essa il carattere «antisemita» che la divinizzazione del Nazareno gli avrebbe impresso.
Abbiamo già ricordato l’ammonimento di Nostro Signore Gesù Cristo in Luca 18, 8 «Ma il Figlio dell’uomo quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Non possiamo fare a meno di ricordare anche l’altro ammonimento di Cristo nel discorso escatologico «Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti… così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» (Matteo 24,24).

Giovanni evangelista a proposito del segno dal quale si sarebbe riconosciuto l’«anticristo» dice «… molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne» (II Giovanni, 7).
L’Apostolo si riferiva certamente agli gnostici del suo tempo che negavano l’Incarnazione e cianciavano di un Cristo cosmico.
Tuttavia: non è negare l’Incarnazione del Verbo anche il ridurre Cristo a mero uomo, sicché tra le due posizioni, la gnostica e la razionalista-storicista, vi è evidente convergenza di empietà?
Il segno indicato da Giovanni vale anche per i razionalisti e storicisti alla Pesce.
Questo perché tutti coloro che sottolineano troppo l’«ebraicità» di Cristo spesso lo fanno nel non dichiarato intento di negarne la Divinità e di ridurLo a mero uomo, ad un profeta ebraico fallito e storicamente condizionato dalla sua appartenenza etnica e culturale al popolo ebreo.
Si tratta di un sibilante errore eguale e contrario, ma complementare, a quello di chi troppo sottolinea la sola Divinità di Cristo finendo con negare la Sua umanità e per «spiritualizzarlo» come facevano, appunto, gli gnostici nei primi secoli cristiani.

La Fede cristiana afferma che Cristo è Vero Dio e Vero Uomo.
Oscillare esclusivamente verso l’una o l’altra natura della Persona di Cristo significa essere fuori dal dogma cristiano.
Chi come Augias e Pesce, e certe correnti giudaizzanti all’interno del cristianesimo o lo stesso giudaismo post-biblico odierno, torna a rivendicare con eccessiva enfasi l’«ebraicità» di Cristo, che è, senza dubbio, sotto il profilo della carne un dato storico fuori discussione, spesso nasconde l’intento, per l’appunto, di negare che in Lui si è Incarnato il Verbo di Dio e che pertanto Cristo è Uomo Universale, Figlio dell’Uomo, espressione biblica questa che sottende la Verità secondo la quale la Sacra Umanità di Cristo, pur storicamente ebraica, supera ogni appartenenza etnica ed ogni condizionamento storico-culturale.
Augias e Pesce, con il loro «Gesù ebreo e non cristiano», effettuano oggi una operazione speculare, ma convergente in quanto ad empietà, a quella a suo tempo tentata dai nazisti con il riesumare la calunnia talmudica su «Gesù Ben Panthera»: anche per i nazisti Gesù era «ebreo» per parte di madre ma «ariano» per parte di padre, comunque non «cristiano».

Luigi Copertino


                                                                                                 
8) http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/03/24/assurdo-e-sconveniente-di-mauro-pesce/
9) Confronta per un esame critico del libro di Augias/Pesce l’articolo di padre Giuseppe De Rosa S.I. su La Civiltà Cattolica, 2006 IV 456-466 quaderno 3.755 (2 dicembre 2006), «Un attacco alla fede cristiana». Nella nostra disamina ci rifacciamo ampiamente a questa recensione critica.
10) Così rileva, giustamente, padre Raniero Cantalamessa esegeta non certo di tendenze «pre-conciliari»: «Il filone scelto (da Augias e Pesce, ndr) è quello che va da Reimarus, a Voltaire, a Renan, a Brandon, a Hengel, e oggi a critici letterari e ‘professori di umanità’, quali Harold Bloom e Elaine Pagels. Del tutto assente l’apporto della grande esegesi biblica, protestante e cattolica, sviluppatasi nel dopo guerra, in reazione alle tesi di Bultmann, molto più positiva circa possibilità di attingere, attraverso i Vangeli, il Gesú della storia. Sui racconti della passione e morte di Gesù, per fare un esempio, nel 1998, è stata pubblicata da Raymond Brown (‘il più distinto tra gli studiosi americani del Nuovo Testamento, con pochi rivali a livello mondiale’, secondo il New York Times), un’opera di 1608 pagine. Essa è stata definita dagli specialisti del settore ‘il metro in base al quale ogni futuro studio della Passione sarà misurato’, ma di tale studio non c’è traccia nel capitolo dedicato ai motivi della condanna e della morte di Cristo, né esso figura nella bibliografia finale che pure riporta diversi titoli di opere in inglese. All’uso selettivo degli studi corrisponde un uso altrettanto selettivo delle fonti. I racconti evangelici sono adattamenti posteriori quando smentiscono la propria tesi, sono storici quando si accordano con essa. Anche la risurrezione di Lazzaro, benché attestata dal solo Giovanni, viene presa in considerazione, se può servire a fondare la tesi della motivazione politica e di ordine pubblico dell’arresto di Gesù (pagina 140)» (Confronta R. Cantalamessa «I Vangeli alla prova: la storia e i fantasmi del mito» in Avvenire del 18 novembre 2006).
11) Quando si parla del cosiddetto metodo storico-critico bisogna distinguere attentamente. Perché se è vero che quel metodo non è necessariamente razionalista, non è meno vero che esso si presenta o è presentato con questo ideologico assunto metodologico iniziale: tutto ciò che la Tradizione, il Magistero, la teologia hanno detto non ha fondamento «scientifico» e «storico» e dunque deve essere escluso a priori dall’ambito della ricerca storica. Questa è soltanto una volontà aprioristica di accecamento che finisce per impedire agli stessi storici la comprensione totale della figura di Cristo. E’ verissimo che la ricerca storica deve essere il più possibile «neutra» ma siccome, come è ben noto agli stessi storici, la neutralità assoluta non esiste, in verità ogni ricercatore parte da una più o meno inconfessata pre-opzione: se non è quella della fede sarà quella del razionalismo. L’esegeta onesto dovrebbe, a nostro giudizio, porsi in linea con la metodologia suggerita da Ratzinger nel suo «Gesù di Nazareth» la quale, benché aperta ad una prospettiva teologica (non si capisce, infatti, come già detto, perché per fare ricerca storica bisogna per forza ripudiare la fede), non è meno «scientifica» di quella di altri. E poi: dopo la lezione di Popper sulla intrinseca fallibilità della «scienza», sulla continua revisionabilità dei paradigmi scientifici, è mai possibile che solo i soloni dell’esegesi storico-critica di matrice razionalista abbiano ancora la positivistica pretesa, che non hanno ormai più neanche i fisici, dopo la rivoluzione quantistica, ed i biologi, dopo il crollo del neo-darwinismo in atto proprio in questi anni, di un sapere assoluto, irreformabile, inamovibile? Ripetiamo: se per metodo storico-critico si intende un metodo aprioristicamente indirizzato all’abbattimento della fede, allora non ci siamo. Si tratta, in questo caso, non di onesta ricerca storica ma solo di una sordida lotta, con fasulle pretese scientifiche, alla fede. Ma quante ideologie (non solo il marxismo) hanno proclamato pretese di scientificità per poi crollare miseramente?! Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo sembrava che i vari Renan e Loisy avessero finalmente detto l’ultima parola sulla storicità di Cristo, riducendolo, come fa il Pesce oggi, ad un mero uomo. Invece tutta la loro costruzione si dimostrò, nel corso del secolo, con nuove e più ampie ricerche, insostenibile e crollò su se stessa. Aspettiamo con fiducia che anche il neostoricismo (nel senso di metodo basato sul pregiudizio della negazione a-priori della Tradizione, come sopra spiegato), che gira tutto intorno alla cosiddetta «third question», crolli su se stesso. Questo neostoricismo, come il vecchio, è nient’altro che un vero e proprio «riduzionismo». Non è infatti possibile, neanche sul piano storico, pena inficiare lo stesso lavoro storico, separare assolutamente il Cristo della fede dal Cristo della storia come fossero dialetticamente opposti. Cristo è uno ed anche chi vuole trattarne sotto il profilo storico non può dimenticare che Egli ha preteso per Sé la Divino-Umanità e che in tal senso ne hanno tramandato la figura i suoi discepoli. Si può certamente dire, nell’ambito degli studi storici, che bisogna fare spazio anche ad altre ipotesi per verificarne la consistenza (che poi immancabilmente si rivela sempre fragile) ma non si può aprioristicamente dire: va bene tutto tranne quel che la Tradizione apostolica tramanda. Questa più che scienza è ideologia: scientismo. Senza contare poi che nella maggior parte dei casi la ricerca storica ha alla lunga sempre finito per confermare, per lo meno sostanzialmente, la Tradizione e, a volte, anzi molte volte, persino le «tradizioni» meramente popolari e dunque senza garanzia di ispirazione divina. Come cattolici ma anche come persone ragionevoli abbiamo molta più fiducia nella saggezza degli Apostoli e dei nostri Padri nella Fede che in quella dei neoesegeti. Se poi questa è, ai loro occhi, apologetica non ci resta che rispondere che preferiamo l’apologetica, benché sana ed intelligente (alla Messori per intenderci), alle faziosità ideologiche fatte passare per «scienza». Tutta la questione del «Cristo della fede e del Cristo della storia» in realtà ha origine nell’atto iniziale della modernità esegetica: la pretesa luterana del «sola Scriptura» laddove, invece, per la Chiesa oltre alla Scrittura, e con i suoi stessi diritti di fonte della Rivelazione, c’è anche la Tradizione.
Dal «sola Scriptura» di Lutero alla pretesa di vivisezionare i Vangeli, ed anche il Vecchio Testamento, riga per riga e lettera per lettera, il passo è stato immediato. Però in tal modo, ed è stato proprio Ratzinger a notarlo, si perde completamente di vista non solo la Rivelazione ma la figura stessa di Gesù Cristo che pur si dice di voler indagare o restituire nella sua oggettività storica.
12) Confronta R. Cantalamessa, opera citata in Avvenire del 18 novembre 2006. E’ necessario, al fine di comprendere la posta in gioco, riportare quanto l’autore fa seguire alle sue osservazioni da noi citate nel testo: «Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti oggi condividiamo: togliere alla radice ogni pretesto all’antisemitismo (…). Ma il torto più grave che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati. La lotta all’antisemitismo va posta su un fondamento più solido che una discutibile (e discussa) interpretazione dei racconti della Passione (…). Messo al sicuro il rifiuto dell’antisemitismo, vorrei spiegare perché non si può accettare la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente politica di essa. Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all’anno 50, dà, della condanna di Cristo, la stessa fondamentale versione dei Vangeli. Dice che i ‘giudei hanno messo a morte Gesù’ (1 Tesalonicesi 2,15), e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo, un tempo, approvato e difeso ‘accanitamente’ la condanna del Nazareno. Durante questa fase più antica… le comunità (cristiane) nelle quali si erano formate le prime tradizioni orali confluite in seguito nei Vangeli erano costituite in maggioranza da giudei convertiti; Matteo, come notano anche Augias e Pesce, è preoccupato di mostrare che Gesù è venuto a compiere, non ad abolire, la legge. Se c’era dunque una preoccupazione apologetica, questa avrebbe dovuto indurre a presentare la condanna di Gesù come opera piuttosto dei pagani che delle autorità ebraiche, al fine di rassicurare i giudei di Palestina e della diaspora sul conto dei cristiani. D’altra parte, quando Marco e, sicuramente, gli altri evangelisti scrivono il loro Vangelo c’è stata già la persecuzione di Nerone; ciò avrebbe dovuto spingere a vedere in Gesù la prima vittima del potere romano e nei martiri cristiani coloro che avevano subito la stessa sorte del Maestro. (…) Pesce ha ragione di scorgere una ‘tendenza antiromana’ nel Vangelo di Giovanni (pagina 156), ma Giovanni è anche quello che più accentua la responsabilità del Sinedrio e dei capi ebrei nel processo a Cristo: come si concilia la cosa? Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che li precede. I quattro Vangeli attestano, si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull’osservanza del sabato, sull’atteggiamento verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull’impuro. Jeremias ha dimostrato la motivazione antifarisaica presente in quasi tutte le parabole di Gesù. Il dato evangelico è tanto più credibile in quanto il contrasto con i farisei non è affatto pregiudiziale e generale. Gesú ha degli amici tra di loro (uno è Nicodemo); lo troviamo a volte a pranzo in casa di qualcuno di loro; essi accettano almeno di discutere con lui e di prenderlo sul serio, a differenza dei Sadducei. (…) E’ impossibile eliminare ogni contrasto tra Gesù e una parte influente della leadership ebraica del suo tempo, senza disintegrare completamente i Vangeli e renderli storicamente incomprensibili. L’accanimento del fariseo Saulo contro i cristiani non era nato dal nulla e non se l’era portato dietro da Tarso! Una volta però dimostrata l’esistenza di questo contrasto, come si può pensare che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore? (…) Naturalmente, questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato nella condanna di Cristo, che ricade su di lui non meno che sui capi ebrei. Non è il caso, oltre tutto, di volere essere ‘più ebrei degli ebrei’. Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche (…), emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità religiose del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna ingiusta. Una versione, questa, compatibile con quella delle fonti neotestamentarie che, mentre, da una parte, mettono in luce la partecipazione delle autorità ebraiche (…) alla condanna di Cristo, dall’altra spesso la scusano, attribuendola a ignoranza (confronta Luca 23,34; Atti 3, 17; 1 Corinti 2,8). E’ il risultato a cui giunge anche Raymond Brown, nel suo libro di 1608 pagine su ‘La morte del Messia’. Una nota marginale, ma che tocca un punto assai delicato. Secondo Augias, Luca attribuisce a Gesù le parole: ‘E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me’ (Lucac 19, 27) e commenta dicendo che: ‘E’ a frasi come queste che si rifanno i sostenitori della ‘guerra santa’ e della lotta armata contro i regimi ingiusti’. Va precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesù, ma al re della parabola che sta narrando e si sa che non si possono trasferire di peso dalla parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni caso essi vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale. Il senso metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesù non è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica. La guerra santa non c’entra proprio».
13) Pre-opzione di tipo «protestantizzante» sicuramente derivatagli anche dal Cammino Neocatecumenale che, a suo tempo, Pesce ha frequentato. Abbiamo qualche buon amico tra i neocatecumenali e si tratta di ottime, squisite, persone e, soprattutto, di buoni e ferventi cristiani. Ma sinceramente certe loro manifestazioni, non a caso sotto severa osservazione da parte della Chiesa, sembrano più «ebraiche» che cristiane. Abbiamo partecipato, in quanto testimoni di nozze di uno di questi amici, ad una loro messa. Tra marginalizzazione del sacerdote, predicazione «ispirata» di fedeli che si sentivano «chiamati» dallo Spirito a parlare, «tavola calda», per dirla con Guareschi, in sostituzione dell’altare, imbandita con vasi al posto del calice e «focacce» anziché ostie, comunione tutti seduti in cerchio con pezzo di «focaccia» sulla mano e vaso passato da uno all’altro, e ballo giudaico collettivo finale girando intorno alla «tavola calda», ci siamo sentiti tra il luterano ed il sinagogale. Ora, le questioni aperte tra la gerarchia, già sotto il pontificato di Giovanni Paolo II ed adesso con l’attuale Pontefice, ed il cosiddetto Cammino Neocatecumenale vertono essenzialmente e principalmente, pur volendo lasciare da parte certi aspetti dottrinari per niente irrilevanti, proprio sul tipo di liturgia adottato dal Cammino che non pare teologicamente conforme alla fede cattolica. Ecco perché è stato richiesto ai vertici del movimento ecclesiale in questione di rivedere gli statuti in merito alla liturgia e di prevedere la partecipazione degli aderenti al Cammino almeno una volta al mese alla Messa ordinaria insieme a tutti gli altri fedeli della parrocchia.
14) Confronta R. Cantalamessa, opera citata in Avvenire del 18 novembre 2006.
15) Osserva ancora il Cantalamessa: «E’ molto curioso: c’è tutto un filone del pensiero ebraico moderno (F. Rosenzweig, H. J. Schoeps, W. Herberg) secondo cui Gesù non sarebbe venuto per gli ebrei, ma solo per i gentili; secondo Augias e Pesce egli sarebbe invece venuto solo per gli ebrei, e non per i gentili». Opera citata, in Avvenire del 18 novembre 2006.
16) Cfr. H. Schurmann, «Padre nostro, la preghiera del Signore», Milano, Jaca Book, 1982, 194 seguenti.
17) Confronta Franco Cardini «La Fatica della Libertà», Fazi editore, Roma, 2006, pagina 210.
18) Citiamo ancora Raniero Cantalamessa (opera citata in Avvenire del 18 novembre 2006): «(Le) scoperte di nuovi testi che avrebbero (secondo Pesce, ndr) modificato il quadro storico sulle origini cristiane… sono essenzialmente alcuni Vangeli apocrifi scoperti in Egitto a metà del secolo scorso, soprattutto i codici di Nag Hammadi. Su di essi viene fatta (da Pesce ed Augias, ndr) un’operazione assai sottile: ritardare il più possibile la data di composizione dei Vangeli canonici e avanzare il più possibile la data di composizione degli apocrifi in modo da poterli usare come valide fonti alternative ai primi. Ma qui si urta contro un muro non facilmente scavalcabile: nessun Vangelo canonico (neppure quello di Giovanni secondo la critica moderna) si lascia datare dopo l’anno 100 dopo Cristo e nessun apocrifo si lascia datare prima di tale anno (i più arditi arrivano, con congetture, a datarli all’inizio del III o a metà del II secolo). Tutti gli apocrifi attingono o suppongono i Vangeli canonici; nessun Vangelo canonico attinge o suppone un vangelo apocrifo. Per fare l’esempio oggi più in voga, dei 114 detti di Cristo nel Vangelo copto di Tommaso, 79 hanno un parallelo nei Sinottici, 11 sono varianti delle parabole sinottiche. Solo tre parabole non sono attestate altrove. Augias, sulla scia di Elaine Pagels, crede di poter superare questo scarto cronologico tra i Sinottici e il Vangelo di Tommaso ed è istruttivo vedere in che modo. Nel Vangelo di Giovanni si assiste, secondo l’autore, a un chiaro tentativo di screditare l’apostolo Tommaso, una vera persecuzione nei suoi confronti, paragonabile a quella contro Giuda. Prova: l’insistenza sulla incredulità di Tommaso! Ipotesi: l’autore del Quarto Vangelo non vuole per caso screditare le dottrine che già a suo tempo circolavano sotto il nome dell’apostolo Tommaso e che confluiranno in seguito nel vangelo che porta il suo nome? Così è superato lo scarto cronologico. Si dimentica, in questo modo, che l’evangelista Giovanni mette proprio sulla bocca di Tommaso la più commovente dichiarazione di amore a Cristo (‘Andiamo anche noi a morire con lui’) e la più solenne professione di fede in lui: ‘Mio Signore e mio Dio!’ che, a detta di molti esegeti, costituisce il coronamento di tutto il suo Vangelo. Se è un perseguitato dai Vangeli canonici Tommaso, che dire del povero Pietro con tutto quello che riferiscono sul suo conto! … Ma il punto principale non è neppure quello della data, è quello dei contenuti dei vangeli apocrifi. Essi dicono esattamente il contrario di quello per cui si invoca la loro autorità. I due autori (Augias e Pesce, ndr) sostengono la tesi di un Gesù pienamente inserito nell’ebraismo, che non ha inteso innovare in nulla rispetto ad esso, ma i vangeli apocrifi professano tutti, chi più chi meno, una rottura violenta con l’Antico Testamento, facendo di Gesù il rivelatore di un Dio diverso e superiore. La rivalutazione della figura di Giuda nel vangelo omonimo si spiega in questa logica: con il suo tradimento, egli aiuterà Gesù a liberarsi dell’ultimo residuo del Dio creatore, il corpo! Gli eroi positivi dell’Antico Testamento diventano negativi per loro e quelli negativi, come Caino, positivi. Gesù è presentato nel libro come un uomo che solo la Chiesa posteriore ha elevato al rango di Dio; i vangeli apocrifi al contrario presentano un Gesù che è vero Dio, ma non vero uomo, avendo rivestito solo l’apparenza di un corpo (docetismo). Per essi, ciò che fa difficoltà non è la divinità di Cristo ma la sua umanità. Si è disposti a seguire i vangeli apocrifi su questo loro terreno (che è quello della gnosi spuria che vede nella materia, nel corpo, nella carne, il peccato per essenza, ndr)? Si potrebbe allungare la lista degli equivoci nell’uso dei vangeli apocrifi. Dan Brown si basa su di essi per avallare l’idea di un Gesù che esalta il principio femminile, non ha problemi con il sesso, sposa la Maddalena… E per provare questo si appoggia al Vangelo di Tommaso dove si dice che, se vuole salvarsi, la donna deve cessare di essere donna e diventare uomo! Il fatto è che i vangeli apocrifi, in particolare quelli di matrice gnostica, non sono stati scritti con l’intento di narrare fatti o detti storici su Gesù, ma per veicolare una certa visione di Dio, di se stessi e del mondo, di natura esoterica e gnostica. Fondarsi su di essi per ricostruire la storia di Gesù è come fondarsi su ‘Così parlò Zarathustra’ non per conoscere il pensiero di Nietzsche, ma quello di Zarathustra. Per questo in passato, pur essendo quasi tutti già noti, almeno in ampi stralci, nessuno aveva mai pensato di potere usare i vangeli apocrifi come fonti di informazioni storiche su Gesù. Solo la nostra era mediatica, alla ricerca esasperata di scoop commerciali, lo sta facendo. Ci sono certo fonti storiche su Gesù al di fuori dei Vangeli canonici ed è strano che esse siano lasciate praticamente fuori da questa ‘inchiesta’. La principale è Paolo, che scrive meno di trent’anni dopo la scomparsa di Cristo e dopo essere stato un suo fiero oppositore. La sua testimonianza viene solo discussa a proposito della risurrezione, ma per essere naturalmente screditata. Eppure, cosa c’è di essenziale nella fede e nei ‘dogmi’ del cristianesimo che non si trovi già attestato (nella sua sostanza se non nella forma) in Paolo, prima cioè che esso abbia avuto il tempo di assorbire elementi estranei? Si può, per esempio, definire non storico e frutto della preoccupazione posteriore di non allarmare l’autorità romana il contrasto tra Gesù e i farisei e la stessa mentalità legalistica di un gruppo di essi, senza tener conto di quello che dice Paolo che era stato uno di essi e che proprio per questo aveva perseguitato accanitamente i cristiani? (…). Quanto al canone delle Scritture, è vero ciò che afferma Pesce (pagina 16) che l’elenco definitivo degli attuali 27 libri del Nuovo Testamento viene fissato solo con Atanasio nel 367, ma non si dovrebbe tacere il fatto che il suo nucleo essenziale, composto dai quattro Vangeli più 13 lettere paoline, è molto più antico; si è formato verso l’anno 130 e alla fine del II secolo gode ormai della stessa autorità dell’Antico Testamento (frammento Muratoriano)».
19) Confronta Vittorio Messori «Dicono che è risorto - un’indagine sul sepolcro vuoto», SEI, Torino, 2000, pagine 224-225.
20) Citato in Vittorio Messori opera citata pagina 216.
21) Confronta Marco Fasol «La storicità dei Vangeli - Dalle  fonti  al  Gesù  storico - Il  labirinto  delle  ricerche  storiche».
22) Confronta Vittorio Messori , opera citata, pagine 77-78.


Home  >  Ebraismo                                                                                          Back to top


 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


La Dittatura Terapeutica
L’unica ed estrema forma di difesa da questo imminente, sottovalutato, tragico pericolo particolarmente grave per l’Italia, è la presa di coscienza
Contra factum non datur argomentum
George Orwell con geniale e profetico intuito, previde l’oscuramento delle coscienze, il tramonto della civiltà, l’impostura e apostasia dalla verità che viviamo, quando scrisse “nel tempo...
Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità