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Il CSM come la Comune
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Cossiga ha probabilmente ragione: dà al governo Berlusconi quattro mesi, poi cadrà (1). Arriverà il «governo delle toghe», mascherato da governo del presidente, «istituzionale»: presidente del consiglio Mario Monti, oppure Draghi, oppure Casini (sic). Nella profezia cossighiana, a tradire sarà, come sempre, la Lega: nel pieno dello scontro contro i giudici, Bossi ha avvertito il Salame che a lui interessa il federalismo, per il quale ha bisogno dell’«armonia» con l’opposizione.
«Tutto quello che può allontanare questi obbiettivi, per la Lega è un ostacolo da rimuovere o da risolvere», ha detto.

Il Salame, essendo il Salame, ha ignorato questo altolà. E prosegue uno scontro con la magistratura che non si è dato i mezzi per vincere. I mezzi, come dice Cossiga, sono tutti in mano alla casta dei giudici.

«Silvio» ha fatto domanda di ricusazione della Gandus, la giudicessa che già lo ha condannato, in conversazioni pubbliche, sul caso Mills. Ha fatto passare il lodo Schifani-bis. Propio per questo, ha consegnato ai giudici i mezzi per la sua disfatta. Facilissimi. «La Corte d’Appello non accetterà la ricusazione; la Corte Costituzionale in un attimo annullerà il lodo Schifani», dice Cossiga. E lui sarà nudo di fronte ai suoi accusatori. Ovvio.

La cosa più stupida che si possa fare, dopo aver proclamato di voler riportare la magistratura entro
i confini che ha superato dai tempi di Mani Pulite, tempi dai quali esercita il controllo indebito sul potere esecutivo e sul legislativo, è di cercare di vincerla sulla base di azioni giuridiche. In pratica, Berlusconi si è messo nelle mani dei magistrati, pregandoli di giudicare se la loro collega Gandus ce l’abbia con lui; ed ha fatto una leggina per sè, fin troppo facile da eccepire sul profilo costituzionale.

Guai a mantenere la lotta sul piano «legale», per chi ha suscitato una situazione «rivoluzionaria». Il Salame, rivoluzionario senza saperlo, ha condotto appunto la situazione a questo punto: un punto che non ha la minima idea di come gestire. Una situazione è rivoluzionaria quando lo scontro avviene tra due «legittimità» concorrenti e inconciliabili. I magistrati si ammantano di «legittimità» istituzionale, e della «legalità» (di cui sono gestori insindacabili) contro chi la infrange. Berlusconi proclama a voce la «legittimità» che gli viene dal mandato popolare, ma non passa ai fatti.

Non si tratta di uno scontro morale, come sostiene la fazione pro-giudici. Come nelle situazioni rivoluzionarie, nessuno dei due cani è senza rogna.

Berlusconi quasi certamente ha pagato l’avvocato Mills per farlo testimoniare a suo favore; ma anche la magistratura ha preso di mira lui più che ogni altro politico (gli 800 processi), la magistratura vìola il segreto istruttorio diffondendo le intercettazioni-gossip, il Consiglio Superiore della Magistratura ha usurpato le prerogative dlla Corte Costituzionale anticipando un giudizio di costituzionalità. Sono cose che, in un vero Stato di diritto, nessuno tollererebbe, a cominciare dal capo dello Stato. Ma il capo dello Stato è presidente del CSM...

Cosa dovrebbe fare Berlusconi? Quello che minaccia, e non fa: varare una «legge» che sancisca la separazione delle carriere, le ferie dei magistrati riportate a 30 giorni l’anno come quelle di ogni altro statale, le paghe dei magistrati ridotte al rango del pubblico impiego ordinario. E magari - fatto decisivo - una «legge» che sancisca l’ineleggibilità al parlamento di ex-magistrati e procuratori per, diciamo, cinque anni  dopo aver dismesso la toga. Separazione chiara dei poteri secondo lo spirito della Costituzione, ed atto rivoluzionario.

Ma Berlusconi, nonostante la maggioranza schiacciante di cui dispone, non agisce. Minaccia di agire, il che è peggio in situazione rivoluzionaria: con ciò, rinsalda la parte che si sente minacciata, la spinge ad agire d’urgenza, ed ha i mezzi per reagire.

La disfatta del Salame e la vittoria dei magistrati non sarebbe il trionfo della moralità: sarebbe il trionfo dell’abuso permanente di potere, il golpe sotto maschera di «legalità», oltretutto reazionaria, da oligarchia. Di una casta non votata per di più, inadempiente, che non persegue la Camorra a Napoli, che lascia impuniti il 93% dei reati perchè non è capace di condurre indagini, che lascia liberi delinquenti comprovati per decorrenza dei termini, che ci mette nove anni a scrivere una sentenza.

E’ una magistratura che «governa» difendendo anzitutto se stessa, rendendosi immune e impunita,  pretendendo di esercitare il controllo sui poteri elettivi (governo e parlamentari) attraverso intercettazioni selettive: e per quanto gli eletti siano farabutti o fatui idioti, resta il fatto che il potere giudiziario si è reso superiore agli altri due, che per la costituzione devono essere pari.

Questa situazione è, comunque la si voglia giustificare «secondo diritto», radicalmente illegittima. Il CSM - al contrario del Salame - ne è ben cosciente, ed ha preso deliberatamente la strada della «legalità illegittima». Praticamente, il CSM, ridottosi a sindacato, si è costituito in «comitato di salute pubblica», e siede in permanenza contro Berlusconi. La situazione è già rivoluzionaria.

E’ esattamente ciò che accadde nel prototipo di tutte le rivoluzioni, la Rivoluzione Francese, seconda fase, anno 1793. L’assemblea eletta - la Convenzione - si arrogò anche il potere esecutivo, il governo. Ma non governò mai. Perchè a poca distanza, nel palazzo di città, nel municipio, il Comune di Parigi («La commune», in francese è femminile), in mano ai sanculotti che giuravano solo su Robespierre, prese il potere di fatto. Come?

Del tutto illegalmente. Nessuno aveva votato quei facinorosi con le coccarde e le picche che affollavano la Comune, che si erano autodichiarati «popolo francese», e dei loro caporioni Hébert, l’ex prete Jacques Roux, i robespierriani. Ma quelli controllavano le 48 sezioni politiche di Parigi, ed erano fisicamente vicini alla Convenzione, tanto da intimidirla e piegarla alle loro volontà.

La Comune si costituì in un governo rivoluzionario non dichiarato: proclamava solo di voler esercitare il controllo sulla Convenzione, che la propaganda di Robespierre diceva piena di «traditori» occulti. Come la magistratura d’oggi, che finge di non governare, ma solo di «controllare». Anche la Comune esercitò poteri di polizia rivoluzionaria: selezionava gli «agenti» che dovevano arrestare «i sospetti».

Coi fondi pubblici, la Comune pagava a giornata qualche migliaio di scioperati assetati di manifestazioni, aizzati dai discorsi incendiari e dalle feste civiche e dalla ghigliottina, perchè andassero alla Convenzione, e sedessero sulle tribune in qualità di «pubblico». Dalle tribune, questi facinorosi professionali minacciavano e impaurivano i deputati (non certo cuori di leone, salvo che nell’aumentarsi gli stipendi: da 6 mila a 100 mila livres) con urla e agitando le picche. Chiunque osasse pronunciare parole di moderazione era accolto da grida «A morte!», e simili, mentre i discorsi di Robespierre e Saint-Just erano accolti da ovazioni, il che faceva sì che il centro parlamentare (la Palude) temendo la ghigliottina, approvasse le leggi dei giacobini robespierriani.

Era lo scontro di due «legittimità», ciascuna dubbia e losca: quella della Convenzione eletta (si fa per dire) a suffragio universale, e quella dei «cittadini  rivoluzionari» professionali, qualche centinaio di stipendiati «colèrès» (incazzati) a imporre la vera «volontà generale». Robespierre governò così, professando di non avere nè volere poteri di governo (era solo «uno come voi»), con l’appello alle tribune del «pubblico» pagato dal suo partito.

Il 13 dicembre 1792 il presidente dell’assemblea Barère invita vivacemente al silenzio il «pubblico» vociante e minaccioso; il 14, Robespierre protesta (letteralmente) «per l’esiguità delle tribune», dove gli oratori dell’assemblea eletta «possono essere visti solo da tre o quattrocento persone ammassate» (sic). Si noti che la Convenzione, che era di oltre 700 membri, non ne aveva presenti, ogni giorno, più di 200.

Quando  Robespierre aprirà il «processo» al re deposto, Luigi XVI, mettendo in chiaro che non si trattava di tramutarsi in giudici («non potete che essere uomini di Stato», e che il giudizio doveva essere politico: chi vuol assolvere il re, condanna la rivoluzione), quella Convenzione spaventata troverà allora il coraggio di chiedere che il destino del re sia deciso, almeno, per refendum nazionale; ciò contro le tribune e la Comune, che premeva per l’uccisione immediata. Così, argomentarono, sarà la sovranità popolare a decidere.

Robespierre è - prorotipo anche in questo - contro il referendum: «La sovranità popolare? Ah, furfanti!», esclama rivolto ai moderati; voi volete solo «parodiare quella sovranità spingendola agli estremi della democrazia assoluta». Siete voi, i delegati, che dovete votare la morte del re. Intanto, la Comune aveva fatto chiudere le barriere di Parigi, sorvegliate da sanculotti armati, perchè nessuno potesse andare a dare le notizie al popolo francese nelle provincie.

Il 18 maggio 1793, i girondini riuscirono a far nominare da quello spettrale parlamento una commissione di 12 membri, con l’incarico di «indagare» sugli abusi della Comune, che erano sotto gli occhi di tutti.

La commissione provò a lavorare: ordinò alle sezioni di produrre i registri degli iscritti, ne proibì le riunioni notturne (quando i cittadini lavoratori se ne andavano, le decisioni venivano presi dai pochi rimasti, che il mattino dopo avrebbero potuto dormire), fa arrestare alcuni caporioni, fra ci Hébert, che si era proclamato sostituto del procuratore-sindaco.

Ebbene: il 26, i sanculotti delle sezioni invadono l’assemblea, impongono la liberazione dei detenuti e la destituzione dei dodici.

Il 28, l’assemblea li reintegra nella loro carica. Il 29, Robespierre fa appello alla Comune e al «popolo» stipendiato.

Caratteristico è il modo in cui invita al colpo di Stato del Comune sull’assemblea; tale, da avvocato, da non farsi accusare di essere uscito dalla legalità: «Non tocca a me additare i provvedimenti (da prendere), a me consunto da una febbre lenta, la febbre del patriottismo. Ho parlato: altro compito non mi rimane in questo momento». Ovviamente, i sanculotti capiscono cosa chiede il capo.

Un comitato insurrezionale formatosi «spontaneamente» occupa il Municipio con centinaia di «cittadini delle sezioni», fa suonare le campane a martello; il 31, orde di sanculotti invadono l’assemblea ed ordinano la soppressione definitiva della commissione dei dodici, l’arresto di una trentina di deputati, una tassa «sui ricchi» (accusavano della loro fame, dovuta alla stampa fluviale degli assegnati rivoluzionari, alla «evasione fiscale»), e la «epurazione delle amministrazioni».

L’assemblea ha perso la battaglia della legittimità. I deputati che Robespierre considera ostili saranno decapitati, o si salveranno con la fuga. Vige la legittimità della Comune, del comitato di salute pubblica, ossia lo stato d’emergenza, degli arresti indiscriminati e le esecuzioni senza giudizio. La legittimità del Terrore.

Perchè ho ricordato questo? Perchè - fatto salvo il registro più basso e comico - qualcosa del genere sta avvenendo in Italia. In qualche modo, il CSM è la «Comune» dei nostri tempi, ben conscio di aver intrapreso la strada della rivoluzione (ma in piena «legalità»: la fanno i magistrati), mentre il governo Berlusconi e la sua maggioranza parlamentare sono la Convenzione, che contro questo agisce poco, male e in ritardo; e che per questo perderà.

Il blocco di potere dei magistrati e quello che lo sostiene è compatto e determinato, sapendo benissimo quali interessi difende; quello berlusconiano è sfaldato e ha poca chiara coscienza del tempo che ha inaugurato, e in più con la falsa coscienza di dover fare leggi «ad personam» per salvare un furbetto condannabile. Le leggi ad personam sono mezze misure, in questa situazione. Tacciabili di «illegalità» dalla «Istituzione» suprema. Su tutto veglia, immune ed impune, Napolitano.

Cossiga dice di Berlusconi: «Ho l’impressione che non sappia e non voglia difendersi. Detta grida manzoniane inutili, ha ceduto i ministeri della forza a persone che hanno i loro disegni». La Difesa a Larussa, l’Interno ossia la polizia a Maroni, che lo tradirà. Cossiga ha ben chiaro che la situazione è rivoluzionaria, che lo scontro fra pseudo-legittimità  sarà deciso dalla «forza», dagli arresti: non meno di questo.

Berlusconi non si salverà se non farà capire agli italiani che - per paradossale che appaia - è il CSM costituitosi in «governo d’eccezione»  a violare lo Stato di diritto.

Ma si chiede il vecchio K: Berlusca «è capace di fare un discorso politico? Saprebbe mostrare, al di là del suo caso personale, che questo caso riguarda davvero tutti? C’è in ballo davvero lo Stato di diritto, la democrazia. Ma ne è capace?».

No. Lo sappiamo. Non ne è capace. Commette lo stesso errore che lo affondò già nel passato governo, il «moderatismo», e la «legalità» come scelta del terreno di lotta. La frequentazione di veline, di Emilio Fede, di barche e di talkshow televisivi non preparano alla rivoluzione. Il Salame, prima che poco pulito, è Salame. E in politca, la «bétise» è peggio di un crimine.




1) Renato Farina, «Cossiga: per Silvio c’è la soluzione finale», Libero, 1 luglio 2008.


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