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Israele in pericolo? No, anzi...
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«La popolazione non può più respirare, il Paese è assediato»: non si tratta della solita lagna, «Israele in pericolo nella sua stessa esistenza».

Si parla di Gaza, e a dirlo è il capo dell’UNCTAD  (Conferenza dell’ONU per lo Sviluppo e il Commercio), Mahmoud Elkahfif.

La situazione è così grave che perfino Le Monde, rompendo mesi di corale silenzio mediatico sul genocidio a rallentatore che Sion continua spietatamente a praticare sui palestinesi, ammette pudicamente che Gaza è nella crisi umanitaria più grave della sua storia. La «cura dimagrante» che dura ormai da oltre un anno, continua più feroce che mai (1).

Prima del blocco israeliano al movimento di merci da e per Gaza, c’erano lì 3.500 aziendine di ogni genere che, bene o male, davano un salario ai loro lavoratori; oggi, ne sono rimaste 150.
«Il 95% della vita industriale di Gaza è morta, il 66% dei palestinesi vivono nell’indigenza più assoluta», scrive il rapporto UNCTAD. E il blocco continua, nel silenzio dell’Occidente, più feroce che mai.

Un esempio fatto dall’UNCTAD: trasportare un conteiner di merci da Shanghai a Tel Aviv costa meno che trasportare lo stesso container dal porto israeliano a Ramallah, a pochi chilometri di distanza.

Un piccolo sollievo viene dalla ripresa degli aiuti europei, che erano stati blocati per obbedire a Giuda; ma, rivela il rapporto ONU, questi aiuti, per non irritare il Reich, arrivano solo in Cisgiordania ossia ai collaborazionisti di Al Fatah; a Gaza - dove il bisogno è estremo - nulla.

Attivamente cooperiamo allo sterminio (e alla fine diremo: «Non sapevamo...»). Peggio.

Continua come prima «la ritenzione degli introiti di dogana percepiti da Israele per conto dell’Autorità palestinese»: il Quarto Reich deruba i suoi detenuti, tenendosi il loro denaro, ad un livello che il Terzo non conosceva.

Ciò «ha aggravato la crisi finanziaria» (sic) del lager di Gaza: i diritti doganali rappresentavano il 60-70% degli introiti pubblici del piccolo territorio assediato. L’UNCTAD implora sommessamente - per la Cisgiordania, non per Gaza, lì hanno votato Hamas e devono morire - alcuni rimedi: fra cui, pateticamente, «una moneta nazionale» palestinese.
E’ mai possibile che Israele lo conceda? Che allenti la stretta strangolatrice, e infine lasci ai palestinesi almeno una libertà da Bantustan?

No, e il motivo lo spiega un’acuta analisi dell’agenzia strategico-militare Stratfor, sulla «strategia israeliana dopo la guerra russo-georgiana»: il motivo è che i palestnesi «non rappresentano una minaccia strategica per Israele. La loro capacità di infliggere perdite è semplicemente un irritante, ma non mette in pericolo l’esistenza dello Stato israeliano».

Magari la situazione palestinese potrebbe «toccare gli israeliani nel morale, inducendoli a fare concessioni in base alla realistica valutazione che i palestinesi di per sè non sono in grado di minacciare gli interessi centrali di Israele»; ma «allo stesso tempo in Israele si risponde: visto che i palestinesi non sono in grado di minacciare gli interessi israeliani, che cosa ci guadagnamo a fare loro concessioni? Data la struttura della politica interna israeliana, questo tema è marginalmente straegico e bloccato».

Tanto più che la frattura fra Fatah e Hamas «crea di fatto una guerra civile intra-palestinese, e ciò riduce la pressione a negoziare» da parte di Sion. Sicchè, «un accordo con lo Stato palestinese rimane bloccato perchè non porta alcun vantaggio agli israeliani».

Non ci guadagniamo niente, che crepino tutti (2). Israele, implica Stratfor, tratterà solo se sente minacciata - davvero, non per finta - la sua stessa esistenza. Ma non è questo il caso.

Anzi, è il contrario: oggi, nella devastazione generale del Medio Oriente, Israele è più sicura che mai.

L’analisi di Stratfor parte dalla domanda: come mai Israele ha fornito armi alla Georgia, agendo in una zona così lontana dai suoi interessi immediati? Vediamo, risponde l’analista.
I palestinesi, come visto, non sono una minaccia. E quanto ai Paesi confinanti, che Israele considera nemici, «la Giordania è di fatto un alleato di Israele, dato che i sovrani haschemiti guardano ad USA e ad Israele come garanti della loro sicurezza nazionale».

L’Egitto? Con questo Sion ha un trattato di pace che regge da 30 anni.

Il Libano? «Israele ha accordi con diverse fazioni libanesi secondo le circostanze, e specie con certe fazioni cristiane».

La Siria allora? «Di per sè i siriani non possono fare la guerra ad Israele e sopravvivere. La loro visione di una Palestina indipendente è ambigua», dato che Damasco aspira alla Palestina «come parte di una grande Siria», un sogno inattuabile nel prevedibile futuro.

E allora, il pericolo può venire «dal più vasto mondo musulmano»?

Non scherziamo, dice Stratfor: qui, «la posizione di Israele è molto più sicura di quanto voglia ammettere». Ha relazioni «strette, strategiche e formali con la Turchia come col Marocco» (e la Turchia è con l’Egitto «il gigante regionale»). «Ma Israele ha anche eccellenti rapporti con Paesi con cui non ha formali relazioni, specie nella penisola arabica». Le corrotte monarchie petrolifere «detestano i palestinesi», che minacciavano le istituzioni monarchiche di emiri e pascià. «Molte volte lo spionaggio israeliano ha fornito a queste monarchie informazioni che hanno scongiurato attentati e sollevazioni».

L’Arabia Saudita ha con Israele «rapporti molto stretti dietro le quinte», specie da quando è emerso l’Iran sciita, come comune nemico. E tutte le monarchie e gli emiri «fanno parecchi affari con Israele specie nell’area della difesa:  aziende israeliane, che lavorano sotto il nome di filiali americane ed europee, operano intensamente nella penisola. A Dubai, capitale economica della regione, si incontrano tanti israeliani che firmano contratti a catena, con passaporti di Paesi terzi».
Allora il terribile Iran, con la sua fabbrica di bombe atomiche? Questa minaccia «è buona solo a far paura nelle conferenze-stampa», se si vuol credere ad «uno stato disposto a commettere suicidio per distruggere Israele» con testate nucleari. Gli iraniani, anche se fossero disposti, «sono molto lontani dall’avere un’arma (nucleare) lanciabile».

Conclusione: «Dal punto di vista della propria sicurezza, Israele sta molto bene».

E qui Stratfor aggiunge una valutazione molto istruttiva sui rapporti di «dipendenza» che legano Israele a Washington. Israele ha sempre avuto bisogno di un fornitore esterno di armamenti e di tecnologie, dato che la sua fame di armi («necessità di sicurezza») supera le sue capacità industriali.

Alla nascita, Israele trovò questa «fonte esterna» nell’URSS (già, pochi ricordano: Sion era filo-sovietica); poi, si sono fatti armare dai francesi, in funzione anti-algerina e anti-egiziana. Dal 1967, il fornitore primo sono divenuti gli Stati Uniti. Ma ora questa dipendenza, dice Stratfor, non è più così stretta.

Vero che gli USA regalano al Reich di Giuda 2,5 miliardi di dollari l’anno, ma questa cifra è
rimasta costante (relativamente) negli anni, mentre l’economia israeliana è cresciuta e prospera. Nel 1974 gli «aiuti» USA contavano per il 20% del prodotto interno lordo ebraico; oggi, solo il 2%.

«La dipendenza che una volta esisteva è diventata una convenienza marginale. E Israele la mantiene meno per bisogno, che per tenere vivo il concetto in USA della sua dipendenza, e dunque della reponsabilità che gli Stati Uniti hanno verso la sicurezza israeliana. E’ più psicologica e politica che economica».

Insomma, è tutta propaganda sul «piccolo debole Stato circondato da nemici».

In verità, sono gli USA ad essere diventati dipendenti da Israele e a fare la sua politica a detrimento dei propri interessi nazionali, come hanno sottolineato Walt e Mearsheimer.

Sion ha davanti un solo, ancorchè ipotetico, pericolo. «L’emergere di una grande potenza intenzionata ad intervenire nella regione, apertamente o no, per i propri interessi. Il candidato a questa posizione è la Russia». Se la Russia armasse l’Egitto, la Siria o l’Iran, «l’intera equazione regionale salterebbe».

Secondo l’analista Friedman, Israele teme soprattutto un «Egitto dove siano al potere forze ostili  (i Fratelli Musulmani) con addestratori russi» (3). Sic.

Ma perchè allora Israele è andata tramare e a fornire di armi e addestratori Saakashvili. L’analista di Stratfor nega (ovviamente: si chiama Friedman) che Israele stesse allestendo le basi in Georgia allo scopo di bombardare l’Iran.

«Gli israeliani erano in Georgia nel tentativo, parallelo a quello degli USA, di impedire il ritorno della Russia come grande potenza. Il cuore di questi sforzi consiste nel portare dalla propria parte Stati ex sovietici ostili alla Russia, e di sostenere individui in Russia che siano nemici di Vladimir Putin».

Ma appena Saakashvili ha aggredito l’Ossezia - anzi, una settimana prima, «il che indica che gli israeliani sapevano quel che stava per succedere» - Israele ha interrotto le forniture militari alla Georgia, e l’ha fatto sapere a Mosca.

Appena visto l’esito del conflitto, «al contrario degli USA, Israele ha rovesciato come un lampo la sua politica: mentre gli Stati Uniti hanno accresciuto la loro ostilità verso la Russia, Olmert è andato a rassicurare Mosca che non ha nulla da temere da Israele, e quindi non deve vendere armamenti a Siria, Iran o Hezbollah».

Insomma Israele ha lasciato che ad abbaiare fossero i suoi maggiordomi a Washington, mentre lei li abbandonava per cercare un accordo con Putin.

Se l’analisi di Stratfor è giusta, non so. Resta la valutazione di fondo: Israele non è affatto in pericolo, anzi è più sicura che mai, nonostante il piagnisteo sulla «propria esistenza».

Ed è pronta a tradire ogni alleato o servo, se le conviene. E sue lobby nei vari Paesi sapranno come giustificarei voltafaccia, e come obbligare i maggiordomi all’obbedienza sulla nuova linea.

Non lo dimostra già l’Europa, contribuendo senza fiatare a strangolare i palestinesi?




1) «Gaza connait la plus grave crise humanitaire de son histoire», Le Monde, 9 settembre 2008.
2) Vedere  Mitchell Prothero, «UN leader to demand $ 1 billion damages for Lebanon», The National, UAE, 8 settembre 2008. Ban ki-moon, il segretario dell’ONU, sta chiedendo invano a Israele di pagare i danni della sua guerra in Libano nel 2006. Valutati un miliardo di dollari: e non si tratta di tutti i danni compiuti in 34 giorni di bombardamenti, ma solo del danno ecologico (l’ONU è ambientalista prima di tutto), per il deliberato bombardamento dei serbatoi della centrale elettrica  presso Sidone, che portarono al versamento nel Meditarraneo di 10 mila tonnellate di gasolio e olio pesante. Israele non ha mai nemmeno risposto.
3) George Friedman, «Israeli strategy after the russo-georgian war», Stratfor, 8 settembre 2008.
Stratfor (Strategic Forecasting Inc.) è un ente private con sede ad Austin, Texas. Sembra finanziato da interessi petroliferi e militari. Il suo capo, Bart Mongoven, ha un’agenzia di pubbliche relazioni, ossia di lobbiyng politico.


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