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Come si legge(va) la Bibbia da cristiani
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Nella Vita Nuova, dopo aver notificato in breve la morte della sua amata Beatrice, Dante si scusa di questa brevità con una frase stranissima: «Non è convenevole a me trattare di ciò», scrive, perchè dovrei «essere laudatore di me medesimo, la qual cosa è disdicevole a chi lo fae».

In che senso? Se Beatrice era una donna vera, la moglie di un tal Folco Portinari defunta giovanissima, la sua scomparsa è un fatto di cui Dante potrebbe vantarsi? La frase rimane senza senso.

Ma si chiarisce se si segue la lettura del Valli (1): quello dei Fedeli d’Amore era un gruppo iniziatico, che riteneva di essere in possesso di un metodo ascetico per giungere alla visione diretta e soprarazionale del divino in questa vita, una specie di «satori» zen; gli adepti comunicavano tra loro con un linguaggio in codice, perchè la loro speciale via ascetica, in qualche modo collegata con una sacralità «imperiale» laica e non clericale, era perseguitata dalla Chiesa di Roma; e le «donne» di cui dicevano di essere innamorati non erano donne in carne ed ossa, ma una sola, la stessa per tutti, simbolica: «l’amorosa Madonna Intelligenza/ Che fà nell’alma la sua residenza/ che co la sua bieltà m’ha’nnammorato», come scrisse uno che della setta fu per qualche tempo il capo, Dino Compagni.

E infatti c’è una conferma, e viene da Dante. Egli scrive una lettera a Cangrande della Scala, dove si attarda a spiegare l’incipit del Paradiso: «la luce di Colui che tutto move» nell’empireo, dove «vidi cose che ridire non sa ne può chi di lassù discende».

Infatti «appressando sè al suo disire - nostro intelletto si profonda tanto - che dietro la memoria non può ire». La visione del divino è indicibile, la «memoria» non è giunta fin lassù.

Infatti spiega Dante a Cangrande: «In questa vita l’intelletto umano, per la connaturalità e affinità che ha con la sostanza intellettuale separata (ritengo, con l’Intelligenza divina: nella filosofia medievale, l’intelligenza umana ne era solo un riflesso, affine, ma pallido), tanto s’innalza che tornato, la memoria gli fa difetto per aver oltrepassato il mondo umano».

E aggiunge: «A questo allude l’Apostolo (Paolo) ai Corinti ove dice: ‘So di un uomo che, se con il corpo o fuori del corpo non so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo’» (2).

Come si sa, quell’uomo è San Paolo stesso: ma anche lui, non vuole «farsi laudatore di se medesimo», e parla solo di «un uomo» che lui «conosce in Cristo, il quale «quattordici anni fa, fu rapito in Paradiso e sentì parole indicibili, che non è consentito ad alcuno pronunciare».

Paolo allude all’esperienza indicibile, culmine della propria eroica ascetica. Da allora «non sono più ‘io’ che vivo, ma Dio vive in me». Però, umile, non si vanta di quell’esperienza. Come Dante non si vanta della «morte» di Beatrice.

Ma ancora non comprendiamo: che c’entra la morte di Beatrice? E così Dante aggiunge: «Ove questo (ossia l’esperienza indicibile di Paolo) agli invidi non basti, leggano Riccardo di San Vittore, e non invidieranno».

Riccardo di San Vittore nacque in Scozia verso il 1110, morto a Parigi nel 1173, grande mistico e filosofo benedettino, influenzò Bonaventura da Bagnoregio e i mistici francescani. Amico di San Bernardo, era chiamato «Magnus Contemplator».

Ma come può Riccardo di San Vittore informarci sul senso della «morte» dalla mistica Beatrice?

Lo fa - come scoperse Giovanni Pascoli, critico dantesco - in un’operetta dal titolo Beniamino Minore. Qui, il Magnus Contemplator interpreta la storia biblica di Giacobbe e delle sue mogli, in Genesi 27. Interessante è vedere come un mistico medievale e filosofo santo «leggesse» una delle storie più crude e imbarazzanti dell’Antico Testamento.

La storia è quella di Giacobbe che s’innamora e prima vista di Rachele, seconda figlia di Labano, suo stretto parente. Per averla, accetta di stare al servizio di Labano per sette anni. Ma Labano ha una figlia maggiore, Lia, che è pure brutta e ha gli occhi cisposi, quindi difficile da accasare. Sicchè con un trucco, celebra il banchetto matrimoniale, ma poi mette nel letto di Giacobbe Lia. Nel buio, Giacobbe «conosce» Lia, ma il mattino dopo s’accorge dell’inganno, e si lagna col suocero: Labano risponde: «Non si usa così nel nostro paese, che si dia in sposa la minore prima della maggiore (una regola che valeva anche in Sicilia fino a ieri). Lavora per me altri sette anni, e ti darò anche l’altra».

Altri sette anni di schiavitù, accanto alla moglie non amata, poi finalmente, ecco Rachele. Giacobbe «si accostò a Rachele, e amò Rachele più di Lia».

Il fatto è che, come dice il racconto ebraico, Giacobbe si «accosta» anche alla schiava di Lia, che si chiama Zelfa, e a quella di Rachele, di nome Bila. Un ménage à quatre piuttosto peccaminoso, si può immaginare, per un benedettino contemplativo.

Peggio. Secondo il racconto ebraico, sono le due mogli di Giacobbe a mettergli nel letto le due serve, in una bassa gara di invidia e gelosia reciproca. Rachele, vedendo che Lia aveva già dato al patriarca due figli, Ruben e Simeone, «diventò gelosa della sorella», e disse: «Ecco qui la mia serva Bila; accostati a lei, così che essa partorisca fra le mie ginocchia  e anch’io abbia una prole per mezzo di essa».

Le schiave erano puri strumenti e proprietà privata. Giuseppe «si accosta» a Bila; al momento del parto, Rachele la tiene fra le ginocchia, ed è come se avesse partorito lei. Nasce Dan. Poi, «conosciuta» ancora, Bila partorisce un altro figlio: Neftali. Rachele esulta: «Ho combattuto contro mia sorella le lotte di Dio ed ho vinto!».

Allora Lia, per non essere da meno, mette nel letto del marito la sua schiava Zilpa. Nasce un primo figlio: «Per fortuna!», esclamò Lia, «onde lo chiamò Gad». Ne nasce un altro «Per mia felicità!», grida la meno amata, «onde lo chiamò Aser».

C’è poi un fatto riguardante le mandragole - ritenute un viagra primordiale, essenziale per un Giacobbe così impegnato - che uno dei figli di Lia, Ruben, trova e porta alla mamma. Rachele (è chiaro il perchè) ne vuole un po’. Lia le replica: «E’ forse poco che tu porti via mio marito, che vuoi portar via anche le mandragole di mio figlio?». Per avere un po’ della radice afrodisiaca, Rachele si umilia con Lia: «Ebbene, si corichi questa notte con te, in cambio».

Lia si prende Giacobbe («Ho pagato il diritto di averti»), e nasce un altro figlio, Issacar; un sesto, e lo chiama Zabulon (nasce anche una bambina, Dina).

Ma ecco, finalmente: «Dio si ricordò anche di Rachele e la rese feconda»; e nasce, con esultanza della ex-sterile, Giuseppe. Una seconda volta Rachele resta incinta, ma «ebbe un parto difficile». Mentre moriva, potè ancora chiamare il neonato Ben-Oni, ma Giacobbe «lo chiamò Beniamino». «Così morì Rachele, e fu seppellita sulla strada per Efrata... La stele della tomba di Rachele esiste ancora oggi» (Genesi 35:19).

Come interpreta il cristiano e mistico Riccardo di San Vittore, amico del Bernardo che diede la regola ai Templari, questa realistica storia di harem semitico?

Ecco: «Giacobbe rappresenta l’anima umana; Lia la volontà conforme a giustizia; Rachele, la mente illustrata dalla Sapienza; Zelfa, la serva di Lia, la sensualità; Bala, la serva di Rachele, l’immaginazione. Dall’applicarsi dell’animo a ciascuna di queste quattro facoltà, nascono da lui affetti e modi di intendere diversi. E perciò (...) a Giacobbe (...) nascono figli di diversa indole, rappresentanti questi affetti».

«Ruben (timor di Dio) è il primo figlio che Giacobbe ha da Lia: perchè la volontà che medita sulle sue colpe e sulla potenza del giudice produce il timor di  Dio».

Quanto al secondo, Simeone, è per Riccardo «il dolore della colpa»; il terzo, Levi, la «speranza»; e il quarto, Giuda, «l’amore».

«E appena è nato Giuda, ossia l’amore per le cose invisibili, Rachele, la mente, arde dal desiderio di aver figli anch’essa, perchè chi ama vuol conoscere».

«Ma la mente, ancor rude, non può elevarsi alla contemplazione delle cose celesti, giacchè solo le si presentano le forme delle cose sensibili. Arde di vedere e non può. Che farà dunque? Quel che meglio può. Perchè ancora non può vedere con la pura intelligenza, s’accomoderà a vedere con la immaginazione. Per questo Rachele fa congiungere la sua serva Bala a Giacobbe e ne ha i primi figli».

Segue la spiegazione di quali «affetti» e moti dell’animo ascetico questi «figli».

Ed ecco la conclusione: «Finalmente è concessa la grazia della contemplazione: Beniamino. Ma non appena nasce quest’ultimo figlio, muore Rachele. Nè vi sia chi creda di potersi elevare alla contemplazione, se Rachele non muore».

Infatti, per Riccardo, Beniamino è simbolo «dell’atto della conoscenza pura, l’intuizione di ciò che non cade sotto i sensi, e che sono senza mistura di immaginazione».

Perciò «Beniamino nasce e Rachele muore: perchè la mente (Rachele) è rapita sopra se stessa, sorpassa i limiti di ogni umana argomentazione, e non appena vede, nell’estasi, la luce divina, la umana ragione soccombe. Questo è il morir di Rachele dando vita a Beniamino».

Ecco dunque a cosa allude Dante Alighieri quando evita di vantarsi della «morte di Beatrice»: del morire a sè, della rinuncia alla propria personale intelligenza per giungere alla visione diretta di Dio-Amore.

Ma qui, adesso, m’interessa notare come Riccardo di San Vittore leggeva l’Antico Testamento. Non si domanda se i personaggi di quel racconto biblico avessero avuto una esistenza storica; non andava alla ricerca di resti archeologici che la provassero (esisterà ancora la stele sulla tomba di Rachele, sulla via per Efrata?); non si attarda a cercare una giustificazione moralistica a quel ménage. E nemmeno la «spiega» per quel che è, come il mito della nascita delle dodici tribù d’Israele (i dodici figli di Giacobbe, così variamente avuti da quattro donne, ne sarebbero i capostipiti e fondatori).

Fin da principio, per il teologo mistico, Giacobbe, Rachele, Lia, fino a Beniamino, non sono che disincarnati «diagrammi». Come le figure di un mazzo di tarocchi, essi simboleggiano i gradi e gli stati dell’anima che il mistico - o l’iniziato - incontra nella sua ascensio ad Deum.

Attraverso quelle figure, Riccardo istruisce su come raggiungere l’excessus mentis in Deum; ciò che Tommaso d’Aquino chiamò «intuizione intellettuale pura», la conoscenza perfetta e totale, che fa il conoscente identico ontologicamente col  Conosciuto (3). «Non son più io che vivo, ma Dio vive in me».

Riccardo di San Vittore, se è un istruttore in questa via ascetica, si presuppone che l’abbia percorsa, che abbia avuto l’esperienza dell’illuminazione, come un maestro sufi (4).

Ciò lascia intuire che nel cattolicesimo medievale si coltivasse una via non passiva non-devozionale, ma di ascesa attiva, mirante all’Unione mistica, sulla scorta di San Paolo. E che Dante stesso abbia percorso questa via, che è di salvezza (egli dice, a proposito di Beatrice, «che non può mal finir chi l’ha veduta», non può essere dannato) ma soprattutto conoscenza, intelletto d’Amore.

Non a caso Boccaccio, nella sua Vita di Dante, dice che «la poesia è simigliante alla teologia... non essendo da loro (i poeti del Dolce Stil Novo) nessun’altra cosa nascosta sotto il velame poetico che conforme alla filosofia».

La teologia di Dante e dei Fedeli d’Amore è profondamente, caldamente cristiana; se fosse anche ortodossa, non è facile capire.

Certo i Fedeli d’Amore, che corrispondono fra loro in sonetti in codice, sono un gruppo politico fortemente anti-ecclesiastico, e palesemente filo-imperiale. Ma se si oppongono alla Chiesa, non è già da miscredenti o laicisti, al contrario: l’accusano di  esser corrotta, peggio di essere d’ostacolo alla salvazione dei fedeli. Poichè il Papato ha usurpato, per avidità, le prerogative di Cesare (l’Aquila imperiale dantesca), le condizioni stesse della redezione – per questi poeti-teologi – sono state turbate.

Dante si scaglia contro una Donna Petra (la chiesa di Pietro):

«Deh piangi meco tu, dogliosa petra.../Ch’eri già bianca ed or sei nera e tetra/ deh piangi meco tu che la tien morta!»
La Pietra, come una pietra tombale, racchiude la sapienza  santa, Beatrice, e la tiene morta, inefficace.

Boccaccio, una generazione dopo, sarà anche più crudo, in latino:
«Meretrix anus, avara lupisca/quae nuper grandes oleasque legebat in agris/nunc Coelum violat verbis, e fascinat agnos»

Traduco: «Vecchia meretrice, avida lupa, che prima si nutriva di ghiande (povertà) ed olive (sapienza) e adesso stupra il Cielo e inganna gli agnelli», ossia i fedeli.

Tanta violenza verbale non si può capire se non ci si cala negli sconvolgimenti dell’epoca: la lotta per le investiture, la scomunica a Federico II, l’eliminazione dei Templari da parte di una Chiesa ricchissima, avida di potere terreno, e super-potente.

Davanti agli occhi dei poeti-teologi, anime cristiane spiritualmente appassionate, avveniva una tragedia di cui erano consapevoli: la rottura dell’unità fra Cesare e Pietro, la negazione del potere temporale da parte dell’autorità spirituale.

Più precisamente: la Chiesa negava allora la «sacralità» dell’Impero, in qualche modo lo spingeva nell’angolo del secolare, mentre essa stessa si clericarizzava. I Templari erano l’incarnazione stessa dell’unità fra la spada e la croce, la Cavalleria e l’ascesi: la loro distruzione segnava dunque uno scacco spirituale gravissimo agli occhi dei contemporanei; almeno di quelli che, come Dante, non erano indifferenti ma profondamente credenti.

Essa, per loro, trasformava in «pianto» e copriva con un manto di lutto nero il gay saver, la gaia scienza dei trovatori provenzali, la tensione alla visione diretta nascosta sotto il linguaggio di amore per una donna. Non a caso a scrivere per primi poesie d’amore nel nuovo stile furono Federico II stesso, suo figlio Manfredi; Pier delle Vigne, suo cancelliere e ostilissimo alla Chiesa; il suo notaio imperiale Jacopo da Lentini: evidentemente questi ghibellini si ritenevano depositari di una autorità non solo temporale, ma sacramentale, un metodo di ascetica diretta.

Quanto ai toscani, Fedeli d’Amore furono Cino da Pistoia, partigiano dell’impero; Francesco da Barberino, soldato dell’imperatore Arrigo VII; Dante Alighieri, di cui la Chiesa cercò le ossa dopo la morte, per bruciarle per eresia; il suo corrispondente Cecco d’Ascoli fu effettivamente messo al rogo come eretico; e più di tutti, Guido Cavalcanti,  apparentemente il capo a Firenze della setta dei Fedeli d’Amore, da tutti segnato a dito come miscredente.

Certo, Cavalcanti pare ad un certo punto prendere la via dell’eterodossia. C’è un momento cruciale nella sua vita: pellegrino a San Giacomo di Compostella, finge di ammalarsi a Tolosa (covo di catari e albigesi) e informa i suoi compagni Fedeli d’Amore fiorentini d’essersi innamorato di

«una giovane donna di Tolosa – bella e gentil, d’onesta leggiadria – tant’è diritta e somigliante cosa – nei suoi dolci occhi da la donna mia».

Dice insomma di questa giovinetta tolosana: la amo perchè è in tutto simile alla donna mia, che ho a Firenze.

Che sia una donna in carne ed ossa per cui Guido si è reso infedele all’altra, lo si deve escludere. In una sua altra poesia, da capo della setta, egli elenca otto comandamenti cui ogni asceta d’Amore deve obbedire («Otto comandamenti fece amore – a ciascun gentil core innamorato») e indica al terzo «non desiderare la donna d’altri, e come quarto mantenere la pratica religiosa».

«Non amar donna altrui è il terzo onore – rilegion guardar dal quarto lato»; non c’è male per un miscredente.

Come dunque può dichiarare Cavalcanti che s’è innamorato di un’altra donna? Peggio: che la ama perchè somiglia alla sua di Firenze?

Evidentemente il senso è: ho trovato una loggia a Tolosa che è in tutto uguale a quella nostra loggia fiorentina. Essa è «accordellata e stretta», una vera e propria società segreta. Probabilmente allora Cavalcanti divenne un vero eretico, abbandonando la Chiesa definitivamente (5).

Dante ebbe un altro, più doloroso tragitto. L’anima lacerata dagli scandali papali, perseguitato dalla Chiesa, canta ancora «la nimica figura, che rimane – vittoriosa e fera», la Chiesa odiata, ma anche sempre amata: «vaga di sè medesma andar mi fane – colà dov’ella è vera».

Ossia, continuo ad amarla (vagheggiarla), questa Chiesa-Pietra, per la verità che contiene in sè – colà dov’ella è vera.

Gli sarà rimproverato da altri Fedeli; sarà forse scacciato dalla setta, resterà solo mentre è pur sempre braccato dal potere ecclesiastico (6). Farà «parte per se stesso». Scioglierà il suo dolore di cristiano spirituale nel ricordo della Visione che ha avuto un giorno, nella «morte di Beatrice», una volta per tutte: e nel Paradiso, sognerà la restaurazione dell’unità sacrale cristiana, dell’Aquila con la Croce (7).




1) L. Valli «Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore», Genova 1928.
2) Seconda lettera ai Corinzi, 12, 2-4.
3) Rumi, nella Kubla Spirituale: «L’Amico è vivo, è morto in lui l’amante», è quasi una parafrasi di Paolo, «non son più io che vivo, ma Dio vive in me». Sull’identità fra conoscente e conosciuto, ricordo il racconto sufi: l’anima bussa alla porta del Paradiso, e da dentro una voce chiede: «chi sei? La risposta dev’essere: «tu». Allora la porta si apre. Non «io» entra in Paradiso, ma «Tu». O si ricordi il racconto degli uccelli che partono alla ricerca del loro re. Un giorno, alcuni uccelli vedono cadere dal cielo una penna splendida; vien detto loro che è una penna del Simurg, il re degli uccelli. Partono in volo, sorvolano montagne e precipizi (le prove iniziatiche); sempre meno continuano il volo, mentre i più si stancano o si perdono. Infine, pochi uccelli superstiti si posano, affranti, su un ramo. Si guardano: «Ciascuno di loro era il Simurg, e il Simurg ciascuno di loro». Nell’esperienza suprema, sparisce ogni dualità (Advaita Vedanta, il Vedanta della non-dualità, è un’altra via).
4) Come noto, diversi sufi specie persiani scrissero poesie d’amore, spesso molto carnali, per adombrare l’esperienza dell’unione mistica. Come si dice, non è improbabile che qui si sia giocato l’incontro fra i Templari e i saggi musulmani, per cui i monaci-cavalieri furono a tempo debito accusati di adorare «Bafometto». S’è detto anche di una ispirazione della Divina Commedia da un poema persiano. Come i Fedeli d’Amore, spesso i sufi ostentavano una certa indifferenza per le pratiche devozionali comuni: «Lo stolto adora alla moschea e ignora il vero tempio che ha nel cuore», dice Rumi.
5) Nel Canto X dell’Inferno, Dante trova il padre di Guido Cavalcanti, che gli chiede: «se per questo carcere vai per altezza d’ingegno – mio figlio ov’è? Perchè non è ei teco?». Insomma: mio figlio Guido era più intelligente di te, come mai non è con te nel viaggio iniziatico? Dante come noto risponde: «Da me stesso non vegno: Colui che attende là (Virgilio) per qui mi mena – forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»: Guido Cavalcanti aveva rigettato «Virgilio»: la romanità? L’umana razionalità? Non saprei  decidere.
6) La Chiesa condannò al rogo il trattato politico di Dante, la Monarchia. E nello Stato pontificio, la Divina Commedia fu pubblicata per la prima volta solo nel 1791. Ci fu una edizione del 1728, stampata a Roma: ma con l’indicazione falsa che la diceva stampata a Napoli, e con il testo purgato perchè – come spiega la prefazione – conteneva parti «disdicevoli» per uno «scrittore religioso».
7) Ci si può domandare se la crisi della Chiesa-clero che viviamo oggi non abbia il suo lontano inizio in quegli anni del Duecento. Allora la Chiesa clericale vittoriosamente strappò all’Impero l’aura sacrale, relegando il potere temporale nell’assoluto aldiquà. Per Dante, non riconobbe «a Cesare quel che è di Cesare». Oggi, ad essere vincitore è questo potere politico tutto laicizzato; è diventato il più potente: è esso che domina il mondo come «imperialismo». Come una belva divora gli uomini, sia nelle ideologie feroci di ieri sia nel «relativismo» di oggi, senza il minimo pensiero per l’aldilà a cui – per Dante – doveva contribuire a portare le anime. E’ questo potere desacralizzato ad aver messo nell’angolo la Chiesa e la fede stessa, che sta riducendo a sentimento privato, individuale, senza diritti nel discorso pubblico. A ciò si oppone la figura di Cristo Re, ancora invocato nel Sacro Romano Impero asburgico, i cui soldati cantavano «Christus Vincit. Christus regnat, Christus imperat».


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