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La strage dei debitori. E l’Italia?
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Dalla prossima primavera, gli USA possono soffrire un milione di licenziamenti ogni mese: lo prevede l’istituto di ricerca londinese GFC Economics. Il motivo? Il costo delle aziende per servire il debito, e i mercati del credito che si sono ridotti quasi a nulla.

«Gli investitori sfuggono il rischio e si rifugiano nel Buoni del Tesoro USA; ciò significa che le imprese sono obbligate a pagare interessi altissimi per ottenere prestiti».

Il mercato del credito si è ristretto di colpo, e il costo del debito (anche pregresso) diventa proibitivo (1).

E pensare che solo 18 mesi fa, indebitarsi era di moda; le imprese compravano denaro a prestito per ingrossare i loro bilanci, per poi fare acquisizioni o pagare dividendi ai loro azionisti. Più che una moda, era addirittura una necessità per le grandi corporations: se non s’indebitavano, nella feroce giungla della finanza speculativa attraevano l’attenzione delle «private equity», i fondi dei pochi ricchi, che si mangiavano le imprese a credito, e accollavano il debito dell’acquisto alle acquistate, con i leveraged buy out.

Ora, l’oceano dello pseudo-capitale s’è prosciugato. Per esempio, i prestiti all’estero delle banche inglesi sono crollati dell’81% in sei mesi; e l’emissione di obbligazioni in euro è precipitato del 94% (da 466 a 28 miliardi di dollari) nell’ultimo trimestre; sia detto en passant, ciò colpisce al cuore la City di Londra, il centro della finanza creativa, capitale finanziaria del «credito strutturato» e contributrice per il 25% al PIL britannico.

Adesso, la speculazione punisce gli indebitati: e non solo le famiglie, i bar, i negozi e le piccole imprese artigiane, mai i colossi.

Incredibilmente, è in pericolo la Rio Tinto, il gigante minerario (ferrosi, alluminio, rame) colonna dell’impero britannico e cassaforte privata delle regina (che mette le sue ricchezze, da sempre, nei metalli, o meglio nel possesso di miniere). Le azioni Rio Tinto sono crollate del 57%. Il fatto è che ha debiti per 40 miliardi di dollari, contro una capitalizzazione attuale di 25; e poichè i prezzi dei metalli che essa produce sono in calo, la speculazione teme che il gigante non riesca a «servire» il debito. Per contro la sua concorrente, il gigante minerario BHP Billiton, tiene fermo il suo valore azionario, perchè non ha debiti.

E’ caduta persino la Lonmin, un’impresa mineraria del Sudafrica che estrae platino: il metallo è richiesto dall’industria automobilistica in piena crisi, e i debiti della Lonmin sono giudicati eccessivi. Sicchè le sue azioni sono calate del 16% in un solo giorno: futuro buon affare, magari, per chi ha ancora qualche miliardo di dollari da spendere in platino. Ma chi ce l’ha?

Così, secondo uno studio della Allianz, nel 2009 falliranno per insolvenza 200 mila imprese in Europa, molto più che negli USA (62 mila), nei settori auto, tessile, vendite al dettaglio, logistica. Come mai?

Perchè a differenza degli USA, i mercati delle obbligazioni ad alto rendimento (e alto rischio) sono relativamente giovani e meno diversificati; anzi, si sono completamente congelati dalla seconda metà del 2007, epoca da cui non si è vista alcuna nuova emissione.

Il record dei fallimenti dovrebbe essere in Francia (63 mila), seguita da Spagna, Irlanda e Gran Bretagna. Falliranno, si teme la Société Generale ed anche imprese sane, per impossibilità di raccogliere denaro con le obligazioni.

Unicrediit prevede che il tasso di fallimenti sui prestiti nella UE salirà dall’attuale 1,55% al 5,8%  per giugno prossimo; ciò perchè il mercato del lavoro «si deteriorerà intaccando la fiducia dei consumatori».

Ciò rende paurosamente concreto il rischio ventilato dal ministro Sacconi: «Non possiamo permetterci che un’emissione di nostri BOT vada deserta... rischiamo la fine dell’Argentina».

Effettivamente la forbice dei nostri rendimenti rispetto ai Bund tedeschi si è alzata quasi di un punto (dobbiamo promettere l’1% in più per rendere appetibili i BOT), e il costo del «rischio Paese» s’è alzato in un mese, per l’Italia, di 78,8.

In pratica, ciò significa questo: chi comprasse 100 mila euro dei nostri BOT e volesse garantirsi contro il rischio di bancarotta italiana nei prossimi cinque anni, dovrebbe pagare oggi 179,5 euro (comprando un CDS, Credit Default Swap), mentre un mese fa questa «assicurazione» costava 100,4 – e al principio dell’anno, solo 20,3.

Ma consoliamoci un pochino, non siamo i soli nè quelli messi peggio.

Al primo posto nella triste lista dei candidati al fallimento c’è – come dubitarne? – l’Argentina: assicurare 100 mila dollari di debito argentino a 5 anni costa oggi 4.015,5 dollari, quasi dieci volte di più che all’inizio dell’anno. Seguono Venezuela, Islanda, Russia.

Fra gli europei tuttavia, peggio di noi stanno solo la Grecia e l’Irlanda (o meglio: così pensano gli speculatori che «prezzano» il rischio-Paese), mentre la Germania è addirittura al primo posto dei Paesi considerati «sicuri debitori», persino più del Giappone, seguita dalla Francia.

Come si vede dalla lista qui sotto (si tenga presente che non è aggiornatissima: negli ultimi giorni la Gran Bretagna s’è avvicinata all’Italia con 125, perchè è aumentato il suo debito pubblico per «salvare» le banche: ma esso resta al 62% del PIL, quasi la metà del nostro) (2).



Ma proprio questa disparità segnala la pericolosa debolezza strutturale dell’euro: una sola moneta unifica economie di forza estremamente diversa, e Stati con una credibilità letteralmente non-confrontabile.

«Ciò del resto spiega la severità dei criteri di Maastricht: in mancanza di una politica fiscale comune europea, per scongiurare le tensioni centrifughe non resta che il criterio del deficit (3), che come noto, è draconiano: non più del 3% del PIL.

Ma oggi, quando tutti gli Stati sono costretti ad indebitarsi sempre più per contrastare la crisi (mentre i disposti a prestare diminuiscono), tutte le tensioni già viste al tempo dello SME, il «serpente monetario europeo», riappaiono di colpo.

Scrive ContreInfo: «Il sistema euro può essere messo dolorosamente alla prova se l’Italia o la Spagna non riuscissero a raccogliere i fondi. L’Europa sarebbe capace di organizzare un rifinanziamento? Quale Stato, nella situazione attuale, accetterebbe di appesantire il suo debito per solidarietà europea? E come si comporterebbe l’euro se l’Italia fosse messa sotto tutela del Fondo Monetario?» (4).

Domande che fanno rabbrividire, specie l’ultima.

La divaricazione fra gli Stati membri è tale, che Martin Feldstein (economista ad Harvard) si domanda se l’euro sopravviverà alla tempesta.

La BCE, dice, non è un vero prestatore di ultima istanza: è da vedere se sarà disposta a prestare alle Banche Centrali nazionali (che non possono stampare euro in proprio) i volumi di moneta necessari per fare in pieno la parte (di prestatori d’ultima istanza).

Se nei prossimi mesi un Paese vedrà le sue banche crollare perchè la banca nazionale  è impossibilitata a prestare loro a sufficienza, può darsi che il Paese abbandoni la zona euro in modo che la Banca Centrale fornisca tutta la moneta locale che giudica necessaria.

Altri Paesi in più grave crisi «possono essere tentati di uscire dalla zona UE per allentare le condizioni monetarie – ossia imbarcare più deficit del consentito da Maastricht – e svalutare la loro moneta».

Una simile mossa è giudicata da Feldestein «non ragionevole», ma può rendersi politicamente inevitabile per Paesi che affrontassero gravi crisi e disordini sociali da miseria e declino economico. I disordini in Grecia possono essere un assaggio delle cose a venire. Almeno per Paesi deboli come il nostro.

Ma per Feldstein, può arrivare il momento in cui anche i Paesi «forti», come Germania e Francia, possono voler uscire dall’euro.

Per esempio, se la crisi riporta sul tavolo la questione di «un’autorità fiscale per l’Unione Europea», ossia se la BCE possa emettere titoli di debito (BOT) «europei», al contrario di oggi, dove ad emettere titoli sono le banche nazionali centrali, che non dispongono della stampatrice di euro.

Ciò darebbe luogo ad una notevolissima ridistribuzione dei redditi nella UE, dai Paesi ricchi a quelli poveri; in pratica Germania e Francia dovrebbero contribuire a pagare i debiti dei Paesi-cicala. «Ragione sufficiente», prevede Feldstein, «perchè i Paesi ad alto reddito vogliano abbandonare l’Unione» (5).

I Paesi deboli, strangolati dalle strette politiche monetarie e fiscali comuni, possono arrivare a minacciare la propria uscita, come mezzo di pressione per indurre gli altri Paesi a un cambiamento della politica europea; i Paesi forti possono agitare la minaccia di uscire, per mantenere la condizione attuale.

Da qui scontri e gravi dissapori intra-europei, che possono segnare l’inizio della fine. Con tanto di competizione fra Stati indebitati, per attrarre compratori del loro debito.

«Ed ora che il capitale diventa scarso, il problema per gli USA e in minor misura per l’Europa, è che non hanno più il monopolio del capitale», scrive l’economista Martin Hutchison (6).

Ora i capitali sono fuori dall’Occidente, in Cina, nei Paesi petroliferi, nei fondi sovrani arabi, malaysiani o libici. Come convincerli a finanziare noi?




1) Stephen Webster, «Coming soon to US, 1 million jobs lost every month», Raw Story, 8 dicembre. Già nel solo mese di novembre, gli USA hanno perso 553 mila posti di lavoro; il tasso di disoccupazione americano, misurato coi criteri europei, è salito al 12,5%. Il 42% delle famiglie, secondo una ricerca, non può affrontare con risorse proprie più di tre mesi di disoccupazione. Diventa concreta la profezia del sito Europe 2020, che prevedeva l’implosione del sistema monetario mondiale basato sul dollaro per l’estate 2009.
2) Come si vede, la percezione del rischio-Paese si è aggravata per tutti. Segno più della generale restrizione del credito e del panico degli speculatori, che della reale condizoone dei Paesi.
3) Ambrose Evans Pritchard, «Bis warns of collapse in global lending», Telegraph, 9 dicembre 2009. «In its quarterly report, the BIS warned the US Federal Reserve, the Bank of England and other central banks that near-zero interest rates and emergency monetary stimulus may come at a cost. By opening the cash spigot, the authorities risk displacing the money markets and may "discourage banks from lending to other banks". The money markets are a crucial lubricant for the financial system, but they cannot function if rates fall too low. The sector can wither away, as Japan discovered during its "Lost Decade". The BIS also hinted that the European Central Bank and Sweden's Riksbank may have blundered by raising rates  this year to contain the oil shock. It said short-term energy spikes have no lasting effect on inflation or wage deals».
4) «Dangereux aveu italien», ContreInfo, 5 dicembre 2008.
5) Martin Feldstein, «L’euro survivra-t-il à la crise?», Project Syndicate, 8 dicembre 2008.
6) Martin Hutchison, «Worse than the Great Depression», Asia Times, 10 dicembre 2008. La partecipazione alla globalizzazione di Paesi come India e Cina ha accresciuto là la ricchezza; ma siccome la ricchezza globale non è aumentata, o almeno non al livello della produzione di pseudo-capitale, la crescita di benessere in Cina viene pagata con un declino in USA ed in Europa. Per gli Stati Uniti, Hutchison prevede un calo del consumo personale americano, fra il 2007 e il 2022, del 26,8%. Durante la Grande Depressione il calo fu del 23%. Solo nel 1941 gli americani tornarono ai livelli di benessere precedenti al ’29. Grazie alla guerra (per noi europei, il problema non si poneva: avevamo la guerra americana in Europa). Hutchison propone un «rallentamento della globalizzazione» e una retribuzione del risparmio a basso rischio del 5-6%, onde Usa ed Europa possano ricostiurire il loro capitale. Ciò ovviamente è contro l’invito a consumare di più per uscire dalla recessione.


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