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Con Obama continua il Grande Gioco
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Washington ha il problema, ogni giorno più grave, di rifornire le truppe in Afghanistan attraverso la lunga strada dal porto di Karachi in Pakistan, recentemente soggetta a notevoli attacchi con distruzione di mezzi e materiali. E’ possible che stia trasformando questo problema in opportunità, in modo tale da rafforzare le manovre di isolamento della Russia, e persino aggravare la minaccia alla Cina?

Lo sostiene il solitamente ben informato M. K. Bhadrakumar, ex ambasciatore indiano che scrive su Asia Times (1). Ma andiamo per ordine.

A parte la strada Karachi-Peshawar-Kyber Pass-Kabul oggi utilizzata e sotto minaccia, per gli americani sono possibili tre alternative. La via più breve e conveniente sarebbe attraverso l’Iran: nemmeno da pensarci, perchè imporrebbe un accordo con Teheran e Israele non vuole.

L’altra possibile linea logistica sarebbe quella attraverso la Russia, il Kazakhstan, l’Uzbekistan o il Turkmenistan fino al confine afghano sull’Amu Darya. Strade e collegamenti ferroviari sono già esistenti.

Per contro, la terza via possibile è meno dotata di infrastrutture. Si tratterebbe di sbarcare i materiali a Shanghai e giungere attraverso la Cina e il Tagikistan al confine afghano. I cinesi dispongono oggi solo di una linea ferroviaria verso questo cuore dell’Asia centrale, la «Heartland» che ossessionava il fondatore della geopolitica McKinder, di impossibile accesso per una potenza marittima come l’allora impero britannico, e oggetto del Grande Gioco imperialista di Londra nell’800.

La linea cinese (da Urumki nello Xinjiang fino al confine kazako) è però in corso di miglioramento con l’aggiunta di due tratti ferroviari, uno da Korgas sul confine kazako fino ad Almati, e l’altro da Kashi al Kirgizistan; entrambi i tratti congiungeranno la Cina alla rete d’epoca sovietica del centro-Asia; dunque al porto fluviale di Termez sull’Amur Darya in Uzbekistan, tradizionale porta sull’Afghanistan.

Ma il Pentagono non ha nessuna voglia di chiedere assistenza logistica nè a Mosca nè a Pechino. Perchè ciò implicherebbe non solo dare loro una voce in capitolo sulla strategica in Afghanistan (che gli USA mantengono di proprio dominio, anche nei confronti degli «alleati» occidentali lì impegnati) ma soprattutto interromperebbe la grande strategia di penetrazione, cominciata da Bush con lo scopo di sottrarre alla Russia le sue zone d’influenza nell’«estero vicino», e di neutralizzare ogni futura influenza della Cina nel centro-Asia. Questa politica anzi continuerà più robustamente di prima, stante che il suggeritore di Obama in questo scacchiere è Zbig Brzezinski, seguace delle visioni geopolitiche di McKinder e profeta della necessità permanente di negare alla Russia una egemonia locale.

L’America, se dipendesse dal buon volere di Mosca e di Pechino per la sua guerra infinita in Afghanistan, dovrebbe rinunciare al «Grande Gioco» che ha voluto ereditare dall’impero britannico.

Sicchè, l’establishment americano mantiene per intanto la linea logistica in Pakistan (per rabbonire i generali pakistani, che sono la causa probabile dei problemi ai convogli NATO, è stato spedito in Pakistan John Kerry, che s’è impegnato coi generali a rammodernare, a cura USA, la flotta di F-16 con capacità nucleari); ma solo perchè ha bisogno di tempo per organizzare una nuova e impensata via di rifornimento.

La pensata consiste nel portare il materiale via nave nel Mar Nero fino al porto di Poti – che appartiene all’amica Georgia, armata da Israele – e da qui via terra, attraverso la Georgia e più oltre per l’Azerbaijan, il Kazakhstan e l’Uzbekistan, fino al confine afghano.
Il percorso sarà cervellotico ma – se realizzato – un colpo da maestro, lo scacco matto nel Grande Gioco.

In un colpo solo, Washington marginalizza la Russia; stringe accordi di cooperazione militare a livello bilaterale con le ex-repubbliche sovietiche di Azerbaijan, Kazakhstan, Uzbekistan e Turkmenistan; rafforza la posizione della «amica» Georgia dandole lo stato privilegiato di corridoio di transito necessario, con ciò azzerando di fatto le resistenze europee ad ammettere lo staterello di Saakashvili nella NATO.

Le lasche coalizioni messe faticosamente insieme da Mosca nell’area, lo CSTO (Collective Security Treat Organization) e lo SCO (Shanghai Cooperation Organization) con la partecipazione controvoglia della Cina che resiste a farne delle vere alleanze militari, diverrebbero irrilevanti, in quanto due membri-chiave, Kazakhstan e Uzbekistan, stringerebbero accordi di valore militare con USA e NATO. Anzi lo stanno già facendo.

In quegli Stati-fantoccio post-sovietici, dove il governo si compra, «il parlamento kazako ha ratificato i memorandum di sostegno per l’operazione Enduring Freedom in Afghanistan. Essi consentiranno agli Stati Uniti l’uso della sezione militare dell’aeroporto di Almaty per atterraggi di emergenza di aerei militari», ha scritto la rivista Kommersant il 12 dicembre: una conferma del piano, con la presenza stabile di americani ad Almaty.

E ovviamente, ciò comporta anche una presenza americana permanente in Georgia: in questo senso provvede alle pennellate finali il US-Georgia Security and Military Agreement, una vera alleanza militare bilaterale, con il vice-segretario di Stato Matt Bryza che va e viene da Tbilisi per gli ultimi tocchi.

Del resto, fin dall’aggressione georgiana e dalla risposta russa l’agosto scorso, gli americani mantengono una presenza navale continua nel Mar Nero, con «visite» regolari nei porti georgiani: un avvertimento e una minaccia costante alla Russia.  Una nuova reazione all’avventurismo di Saakasvili comporterebbe il contatto con le forze aero-navali e di terra USA.

Sì, anche di terra. Un analista americano citato da Bhadrakumar ha detto: «L’opzione (della via del) Sud Caucaso è più costosa, ma incomparabilmente più sicura. E’ anche immune dalla manipolazione politica della Russia... Un più grosso flusso di rifornimenti via terra e via aerea presuppone una presenza logistico-militare USA sul terreno. Essa richiederà anche l’acquisizione di un controllo sicuro dello spazio aereo georgiano e azerbaigiano».

Inoltre, la nuova via di terra attraverso Georgia, Azerbaijan, Kazakhstan e Turkeminstan porrebbe le basi per un progetto da sempre accarezzato da Washington: una pipeline che porti il petrolio e il gas del Caspio in Europa, senza passare per la Russia.

E’ chiaro che le tubature affiancherebbero il percorso logistico, messo «in sicurezza» dalla presenza militare americana. E poichè l’energia è destinata soprattutto all’Europa, i Paesi europei saranno inclini a rispondere affermativamente alla pressioni USA, di porre la via logistico-petrolifera sotto una qualche forma di garanzia NATO.

Dunque, volenti o nolenti, i Paesi europei in quanto membri subalterni saranno spinti in quest’espansione avventuristica nell’Asia Centrale, in rotta di collisione immanente con Mosca – con cui invece all’Europa conviene andar d’accordo. Ma naturalmente non mancano a Bruxelles i maggiordomi del progetto USA.
Mosca è perfettamente consapevole di questa lampante minaccia di aggiramento e isolamento. Come reagirà?

Si tenga presente che la manovra avviene mentre la Russia è gravemente indebolita dal crollo dei prezzi del greggio, dalla fuga di capitali, dalla conseguente svalutazione del rublo, e – soprattutto – dai prodromi di disordini sociali che accompagnano la crisi. Ciò può spiegare le reazione nervosa con cui Mosca reprime le manifestazioni di protesta; vi vede, giustamente, una insidia alla sua posizione internazionale, in una situazione delicatissima.

Anche la minaccia di tagliare il gas all’Ucraina «arancione» (che è in arretrato sulla bolletta Gazprom) è probabile indice di questo nervosismo (2), e un avvetimento all’Europa (le nostre linee di rifornimento passano per l’Ucraina).

La manovra americana ha l’effetto di avvicinare Mosca a Teheran. Non a caso è stata una «fonte del Cremlino» a dichiarare alla Novosti che la Russia «sta attualmente dando esecuzione al contratto per la consegna di sistemi (missilistici anti-aerei) S-300». E Aleksandr Fomin, vice-presidente del Servizio federale di Cooperazione Tecnico-Militare, ha dichiarato che le consegna dei missili all’Iran «hanno una influenza positiva sulla stabilità della regione». Insistendo sui «benefici per la regione (centro-asiatica) nel suo complesso».

Il commento americano è stato quello di un adviser del Pentagono, Dan Goure: «Se Teheran ottiene gli S-300, questo cambia le regole del gioco militare per piegare l’Iran. E’ un sistema che fa paura a tutte le forze occidentali» (ossia: ad americani e israeliani).

Israele ha protestato e mosso tutte le sue leve di pressione per impedirlo. Non esclusa la diretta visita a Mosca del generale Amos Gilad, il capo delle politiche militari nel ministero della guerra sionista.

Di più: secondo Aviation Week, che cita gente dell’intelligence USA, la Russia starebbe per vendere sistemi SA-20, ossia un sistema missilistico a più lungo raggio (400 chilometri).

Dispetto americano: «Ci siamo cullati in un falso senso di sicurezza nelle nostre operazioni negli ultimi vent’anni, perchè tutte le nostre azioni implicavano il pieno dominio dell’area ed eravamo liberi di operare in ogni campo. Ora ci troviamo di fronte sfide che prima non avevamo», dice «la fonte» di Aviation Week.

Ma non è detto che questo contratto con Teheran venga completato. La Russia ha sempre mantenuto una certa distanza dal regime iraniano, evitando di apparire una alleata e di farsi coinvolgere troppo nelle politiche internazionali dell’Iran – che per di più ha oggi gli stessi problemi della Russia, il crollo petrolifero e l’instabilità sociale; a meno che non vi sia spinta dalla necessità, Mosca sta cercando altre soluzioni. Quali?

Apparentemente, sta cercando di risvegliare negli altri grandi partner dell’area la coscienza che la manovra USA non è diretta solo contro la Russia, ma minaccia il cortile di casa di Cina e India. Non casualmente, a Delhi sono avvenute consultazioni Russia-India e India-Iran, chiaramente allo scopo di svegliare il governo indiano.

Ma questo è ora in mano americana, specie dopo l’attentato di Mumbai che lo mette in rotta di collisione col Pakistan (una rotta che le mene americane cercano di invelenire in ogni modo).

Ma il grande dormiente sembra essere la Cina, senza la quale tutto diventa più difficile. Pechino non è mai stata amica di Mosca. Un qualche fronte comune si inceppa davanti alle «contraddizioni» della politica cinese verso la Russia e verso l’India, e della delicata attenzione di Pechino verso gli USA, che sono il suo maggiore cliente e debitore.

Il grande gioco fra l’Hindukush e il Pamir è in corso, l’esito è incerto. La mossa americana è al momento vincente.

Bisognerà anche vedere se gli USA, in piena implosione economica, avranno ancora i mezzi per la loro «grand strategy» centroasiatica quando Obama entrerà alla Casa Bianca.




1) M.K. Bhadrakumar, «All roads lead out of Afghanistan», Asia Times, 20 dicembre 2008.
2) «US, Ukraine risk irking Russia with strategic accord», AFP, 19 dicembre 2008.


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