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La sglobalizzazione
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Per la Lettonia, sono state brevi le gioie della globalizzazione. Brevi ma intense: entrata nel 2004 nella UE, dal 2005 al 2007 la sua economia è cresciuta del 10,4% l’anno. Tanto che questa nazione di 2,3 milioni di abitanti, di cui il 30% di lingua russa, ha potuto permettersi atteggiamenti provocatori verso Mosca; tanto, ormai, era inserita nelle reti finanziarie occidentali, nel gran gioco dei crediti, nel liberismo globale.

Fine. Nel 2009, la crescita della Lettonia sarà negativa (-6.9%) secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali sarà il fanalino di coda della UE. Secondo Ilmars Rimsevics, il suo banchiere centrale, la Lettonia «è in stato di morte clinica, e non abbiamo che qualche minuto per rianimarla».

Il paesello è sotto infusione: un prestito di 7,5 miliardi di dollari fornito dalla UE e dal Fondo Monetario (FMI) pari a un quarto del suo prodotto interno lordo, dunque impagabile. Alla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) prevedono più che una grave depressione, ma un collasso incontrollabile della moneta nazionale, il Lat, che era legato all’euro con un tasso di fluttuazione dell’1% massimo, in vista di un’adozione della moneta europea.



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I lettoni conosceranno ora il rovescio delle gioie della globalizzazione: il FMI, come condizione per la trasfusione, ha imposto le sue «ricette di risanamento strutturale». Tali ricette non hanno mai risanato uno solo dei numerosi Paesi cui sono state applicate, ma ne hanno aggravato costantemente lo stato. Esse consistono, di fatto, in dure limitazioni della spesa pubblica e privata, onde il malato continui a pagare gli interessi ai creditori globali. Adesso, come un qualunque Paese africano, anche i biondi ed alti ariani lettoni dovranno prendere la medicina: l’austerità, il rigore.

«Tutto consiste, per evitare la catastrofe, nel fare accettare il piano e il taglio dei salari alla popolazione», pontifica Zettelmayer, delle BRI. La sola buona notizia è che il presidente della Lettonia ha dato l’esempio, tagliandosi l’emolumento dell’8%: un esempio che le caste e cosche pubbliche italiane non imiteranno. Per il resto, in piena recessione, la ricetta è disastrosa. Ogni riduzione dei salari riduce i consumi, aggravando il problema.

Fece lo stesso anche la repubblica di Weimar, applicando la ricetta della dogmatica liberista: con un taglio generalizzato dei salari del 15%. Il costo che il liberismo giudica comprimibile a piacere, è il costo umano. Il risultato fu l’elezione di Hitler (e il miracolo economico hitleriano, caso unico nella grande depressione degli anni ‘30).

Lorsignori lo sanno, che i tagli salariali non sanano l’economia ma l’aggravano e preludono all’esplosione sociale. Paul Krugman, fresco di Nobel, si allarma che gli operai americani accettino persino volontariamente decurtazioni salariali pur di restare nelle imprese che tagliano la produzione; ciò approfondisce la deflazione, avverte. Invano.

I sacerdoti del liberismo non fanno che denunciare «gli impulsi protezionistici» che appaiono qua e là (a cominciare da Obama: l’acciaio per le infrastrutture deve essere Made in USA) e mettono in guardia contro i «populismi»; ma non fanno che applicare le ricette che sanno letali. Perchè non ne hanno altre, come si è visto a Davos (1), e non sanno cos’altro fare oltre infondere trilioni nelle banche e nella speculazione di Wall Street.

Gli eurocrati, senza più ordini da Washington in piena implosione, sono paralizzati dal terrore. Se ne è accorto Sarkozy, che ha abbastanza esplicitamente accusato la Commissione Europea, così vivace nel legiferare sui cetrioli e il contenuto di piombo delle canne d’organo, di essere diventata invisibile, il presidente di turno (il ceko, di nome e di fatto) di essere inerte, e il presidente Barroso di brigare per il suo secondo mandato, anzichè di occuparsi della crisi.

Non c’è nessuno al timone, e Sarko sta cercando di organizzare una riunione straordinaria dei capi di Stato e di governo per rafforzare la solidarietà dell’unione monetaria e concordare misure di dissuasione: i «mercati finanziari»  stanno attaccando i Paesi più deboli, puntando a spaccare l’eurozona.

I sintomi sono tutti nelle «forbici» dei vari debiti pubblici. La Germania riesce ancora a spacciare i suoi Buoni del Tesoro a dieci anni al 3,3%, la Francia al 3,8%. Ma la Grecia deve offrire un interesse del 5,8%, e l’Irlanda del 5,5%.

L’Ungheria, che non ha l’euro ma è inestricabilmente intrecciata alla zona euro (e al franco svizzero), per i suoi Bot a 10 anni deve offrire il 9,5%; ed è stata «salvata», si fa per dire, non dall’Europa ma dal FMI, che ora dà al piccolo Paese la sua medicina notoriamente mortale: rigore e austerità.

Sarkozy, dopo aver parlato al telefono con Obama il 26 gennaio, ha spiegato ai leader della destra francese che la crisi bancaria americana non è alla fine, ma anzi all’inizio. Ed ha citato la Grecia come esposta agli stessi rischi dell’Ungheria. Ora, un salvataggio della Grecia da parte del FMI anzichè della UE  rivelerebbe la vacuità della «moneta forte» europoide.

«Immaginate il rappresentante americano del FMI ridacchiare e dire che se gli USA hanno un problema in California, lo aggiustano loro stessi», ha confidato un altissimo responsabile francese a Le Monde (2).

Vero è che gli USA hanno un problema in California (che ormai paga fornitori e dipendenti con cambiali) e tanto grosso da non poterlo probabilmente «aggiustare» da sè. Ma è vero che un intervento del FMI sulla Grecia «sarebbe interpretato come il primo passo verso l’esplosione della zona euro».

Come s’è più volte detto, la UE non può fare per la Grecia quello che gli USA possono fare per la California: e ciò per legge. L’articolo 101 di Maastricht vieta alle Banche Centrali europee di fornirsi a vicenda liquidità, di aiutare gli Stati indebitati, e la BCE si è proibita di emettere Buoni del Tesoro (quale Tesoro? l’Europa non ce l’ha) per la zona euro nel suo complesso. Sicchè non solo al timone dell’Europa non c’è nessuno; il timone stesso è stato inchiodato e bloccato per bene, onde nessuno potesse manovrarlo. La situazione ideale per una nave investita dalla «tempesta perfetta», dal tifone dell’implosione finanziaria globale.

Sarko sta cercando di convincere la Merkel a sbloccare il timone, magari istituendo un’agenzia europea capace di emettere titoli di debito, onde mutualizzare il rischio; con probabile insuccesso, dato che sono stati i tedeschi ad aver voluto bloccare il timone, per non dover pagare i debiti delle cicale mediterranee.

Ancor oggi il governo Merkel vuole che lo Stato debole (la Grecia, ma non solo) si raddrizzi da sè, applicandosi la ricetta del rigore draconiano, in piena depressione-deflazione: insomma sempre e solo la ricetta del Washington consensus, che certamente farà male anche alla Germania, perchè farà sparire dal mercato parecchi compratori delle sue merci.

La Commissione Europea, ancora più obbediente a Washington, ha scelto questo momento per rilanciare il «Nabucco», ossia il costoso e lunghissimo gasdotto (3.400 chilometri) che dovrebbe unire l’Europa ai giacimenti del Caspio via Turchia e Austria, ossia deliberatamente scavalcando la Russia.

Qui la Merkel sta dalla parte giusta, per interesse commerciale: in una lettera aperta a Barroso e al ceko presidente di turno Topolanek, ha asserito che i 27 dovrebbero piuttosto «finalizzare un accordo di partenariato e di cooperazione con la Russia»; anzichè tentare continuamente di isolarla, riconoscere l’interdipendenza tra il primo produttore energetico mondiale e il suo principale cliente, la UE. Che già esiste di fatto, come mostra la tabella pubblicata dal Figaro. Piuttosto, occorrerebbe scavalcare l’Ucraina, sola causa delle interruzioni delle forniture.



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E’ un gran disegno, finalmente, ancorchè ispirato dal miope interesse: la Germania partecipa al condotto Northstream, quello che passa sotto il Baltico escludendo la Polonia e liberando le forniture tedesche dai capricci polacco-ucraini; ci ha già speso anche troppo, e vuole completarlo. Per contro, l’opposizione germanica a una finanza pubblica pan-europea è dovuta anche – ridicolo a dirsi – al timore invidioso che Sarkozy, se gliela si dà vinta, emerga come leader di fatto di una UE senza capi.

Accade dunque questo: mentre tutti i capetti nazionali e i loro economisti gridano l’allarme: «Attenzione al protezionismo! Al grande pericolo che già aggravò la depressione negli anni ’30, portando ad una guerra dei dazi commerciali, all’autarchia e ai fascismi», stanno loro per primi rispondendo a impulsi protezionisti. Accusano di protezionismo i lavoratori britannici che manifestano contro i lavoratori italiani a contratto.

Ma che cos’è l’atteggiamento della Merkel se non protezionismo, rifiuto di mutualizzare i rischi?

«Una UE fatta di trasferimenti finanziari (fra Stati) è tanto probabile quanto una carestia in Baviera», ha ridacchiato Edmund Stoiber, ministro delle Finanze ed ex governatore della Baviera; beatamente inconsapevole che una carestia in Baviera non è più impossibile, di questo passo.

Il WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, si tiene pronta a fulminare i protezionismi minimi. Ma non ha nulla da obiettare al «buy American» inserito nello «stimulus» di Obama, che obbliga le imprese che faranno lavori pubblici con dollari pubblici ad usare acciaio statunitense. Il che porterà, inevitabilmente, la risposta «buy European», «buy Chinese» e «buy Russian», ossia alla replica ineluttabile della guerra dei dazi degli anni ’30.

Il WTO sorveglia che non si mettano dazi sulle banane, ma sorvola sulle forme di protezionismo finanziario già in corso. Una l’ha segnalata il ministro britannico Mandelson: «La tendenza sempre più accentuata delle banche di ritirare miliardi dai mercati esteri per rimpatriarli nelle loro basi nazionali».

Anche questo, già visto negli anni ’30: la Germania prima inondata di fiumi di dollari in investimenti speculativi, si trovò di colpo a secco. Hitler rispose con l’emissione di moneta di Stato in quantità sufficiente a mobilitare le fabbriche inoperose e la riserva di gente senza lavoro, con severi controlli dei cambi e con lo scambio per baratto sui mercati internazionali.

Qui, si continua a gridare allarmi, e a ripetere gli errori di allora – non tanto per deliberata e limpida progettualità, ma perchè spinti e premuti (come allora) dalla protesta sociale interna. Alla cieca.

Il motivo profondo, come suggerisce Dedefensa (3), è nell’insufficienza intellettuale delle cosiddette classi dirigenti: chiamano «protezionismo» ciò che non riescono a riconoscere come «de-globalizzazione». Ossia lo sgretolamento meccanico di quel movimento «distrutturante, predatore delle identità e delle sovranità, che ha massacrato gli equilibri di nazioni e di regioni, l’equilibrio universale dell’ambiente, le culture, le società».

Insomma il sistema, non naturale ma imposto ideologicamente, cade a pezzi perchè anti-umano, nemico della vita: gli uomini non sono merce dopotutto, nè il profitto monetario comunque ottenuto è la misura di tutte le cose. E gli Stati chiamati – dopo essere stati spregiati ed esautorati – a difendere il sistema, sono troppo deboli e spaventati dalla catastrofe sociale che rischia di travolgere il loro residuo potere politico per eseguire gli ordini dettati dall’ideologia e dai suoi sacerdoti.

E’ patetico vedere come, su ordine degli speculatori che si sono rovinati da sè rovinando l’economia reale, applichino un comico «keynesismo riservato alla finanza» (4); da un anno versano centinaia di miliardi nel buco nero, indebitandosi oltre ogni limite, mettendo a dura prova la solvibilità delle loro nazioni, e tuttavia ciò non basta ancora.

Joseph Stiglitz ha parlato con la voce del buon senso consigliando al governo britannico di lasciar fallire le banche: «La Gran Bretagna è colpita al cuore perchè le banche si sono prese enormi esposizioni in valute estere. Perchè il contribuente inglese deve abbassare il suo livello di vita per i prossimi vent’anni, per pagare gli errori che hanno beneficiato una piccola elite? Ci sono buoni argomenti a favore di lasciar fallire le banche. Sarà una tempesta, ma alla fine risulterà una via meno costosa dell’altra. Il parlamento britannico non ha mai promesso una rete di salvataggio garantita per i passivi e le posizioni in derivati di queste banche».

Stesso discorso per la City, il gran casinò della finanza globale: non erano loro a proclamare i sacri principii del libero mercato?

«Le controparti sono entrate volontariamente in questi rapporti con le banche, ne accettino le conseguenze».

Per Stiglitz, lo Stato deve limitarsi a garantire i depositi, onde proteggere il mercato del credito interno e salvaguardare i mercati monetari che lubrificano i prestiti; insomma mettere in piedi un sistema bancario nuovo (usando «gli scheletri» delle banche fallite) sotto controllo pubblico; invece sta devastando il Paese per mantenere gonfio l’edificio corrotto.

Gli USA fanno peggio: applicano misure protezioniste, e intanto continuano a pompare la bolla del loro marcio sistema finanziario con soldi stampati a manetta, contando poi – come sempre hanno fatto – di esportare la loro iper-inflazione al mondo. La UE senza capi e senza timone è la vittima predestinata di questo disegno.

La soluzione è visibile ad occhio nudo: l’integrazione con la Russia, a formare uno spazio chiuso ai venti speculativi come alle merci in dumping sociale cinese, che può essere chiuso perchè autosufficiente. In esso anche la Lettonia ritroverebbe il suo posto, collegata com’è nei fatti all’economia ex-sovietica da cui, ora, è inutile provare a liberarsi; quell’interdipendenza sarà stata dovuta a un sistema ottuso, ma ormai è nei fatti. Lo stesso vale per la Polonia e l’Ucraina.

Se il processo di de-globalizzazione fosse pilotato con chiarezza, finirebbe per assestarsi in tre vastissimi blocchi economici – America continentale, Cino-Asia, Euro-Russia – capaci di prosperare sui loro mercati interni, esportando solo il margine di surplus, e garantendo il futuro delle loro popolazioni.

Il 7 febbraio Sarkozy incontrerà la Merkel per ottenere un accordo a due (già questo viola ampiamente lo spirito eurocratico, che aveva escluso la politica dal suo funzionamento robotizzato) preliminare alla riunione dell’euro-gruppo il 22 febbraio a Berlino, dove la Merkel conta di invitare i membri europei in preparazione del G-20 di Londra del 22 aprile.

Staremo a vedere: se il pullulare di piccoli protezionismi riuscirà a soffocare la visione del «grande protezionismo» europeo, che la forza stessa delle cose impone. Temo di sì. Ma non cessiamo di sperare.




1) Un elenco sarcastico dei risultati di Davos è stato tentato dal Figaro: «Molte domande sulla crisi, o le crisi simultanee, ma poche risposte. I presunti «signori del mondo» del tutto disorientati e ultra-pessimisti. Il sentimento crescente che le difficoltà sociali imminenti (da 20 a 50 milioni di disoccupati in più, secondo l’ufficio Internazionale del Lavoro) rischiano di sboccare in «rivolte sociali», aggiungendo le crisi politiche alla crisi economica. Nessun mea culpa da parte dei banchieri («restituite i soldi!», ha gridato loro Nicolas Taieb, scrittore di cose finanziarie). Appelli senza vergogna alla mano pubblica, denigrata ieri, oggi rivestita di tutte le virtù – anche se nessuno giura sul successo dei «salvataggi» delle banche in corso. Un’attesa smisurata per il secondo vertice dei G-20 che si terrà  a Londra in aprile. Un relativo ottimismo dei cinesi, non si sa se reale o di circostanza. Un eccellente discorso di Putin, che ha teso la mano dando però lezioni di liberismo agli USA («non aspettatevi tutto dallo stato») e di diritti umani alla Cina («da noi, contrariamente che in altri Paesi, internet è totalmente libero»).
2) Arnaud Leparmentier, «Paris s’inquiète de la fragilitè de la zone euro», Le Monde, 31 gennaio 2009. Fra parentesi, il governo francese ha annunciato la costruzione di un nuovo reattore nucleare di ultima generazione (EPR) in Seine Maritime.  Gli imprenditori e persino i sindaci comunisti della zona si sono rallegrati per «l’enorme boccata di ossigeno» che questo progetto darà alla regione: duemila posti di lavoro nei cinque anni del cantiere (in Francia, si costuisce una centrale atomica in 5 anni!) e 300 posti permanenti per il suo funzionamento. In più, il mezzo per tenere alto lo standard dell’industria nucleare nazionale, con la realizzazione di un impianto-modello da esibire agli eventuali compratori esteri.
3) «Le dilemme de la dèglobalisation», Dedefensa, 31 gennaio 2009.
4) E’ ridicolo qui parlare di keynesismo, come si fa a vanvera: Keynes, quando consigliava l’aumento della spesa pubblica,  aveva in mente il sostegno all’economia reale, e in definitiva al potere d’acquisto  dei lavoratori. Gli oppositori liberisti sostengono che le ricette di Keynes provocano inflazione (come se gli USA non la stessero provocando). Il che è vero quando la disponibilità di credito viene abbandonata alle banche, che lo ampliano per profitto. Il keynesismo ebbe pieno successo solo nella Germania nazionalsocialista, che statizzò di fatto solo la finanza. Emettendo moneta di Stato (con certi accorgimenti) nella misura necessaria e sufficiente (non di più) per riattivare le fabbriche semi-inattive e assorbire i disoccupati. Offerta e domanda crebbero insieme, lasciando inalterati i prezzi, perchè l’aggiunta di liquidità non era decisa dal «mercato» speculativo, ma dallo Stato. Lo scopo non era caricare di debiti i produttori per lucrarne l’imposta degli interessi, ma rimetterli a produrre. Vedi il mio «Schiavi delle banche», EFFEDIEFFE, capitolo «Il miracolo hitleriano»).


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