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Il golpe (parte I)
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Da J. M. Keynes a Mario Draghi

Un’epoca cruciale è iniziata

Non si meravigli il lettore se, in questo nostro contributo, si imbatterà in tematiche specialistiche ed in personaggi inusuali della filosofia, della scienza economica e della storia contemporanea, dell’oggi e dello ieri più immediato, ossia del XX secolo. Abbiamo cercato di mantenere quanto più possibile un livello divulgativo, che è poi, in fondo, il nostro.

Questo non è più il tempo di darsi esclusivamente ad elaborate analisi teologiche, filosofiche e storiche se ciò significa non avere una prospettiva – come dire – aperta ai problemi del presente.

È giunto il tempo di guardare in faccia alla realtà che ci circonda. Certo senza tralasciare di indicare le cause profonde e magari ataviche di quanto sta accadendo, ma filosofando con aderenza alla realtà di oggi per tentare di capirne le dinamiche attuali e le loro cause multidimensionali. Il riduzionismo esegetico, infatti, ha sempre impedito di comprendere la complessità del reale.

Abbiamo assistito, in questi ultimi mesi, ad un golpe. Un golpe del tutto atipico rispetto a quelli classici con tanto di carri armati e plotoni di esecuzione. Un golpe organizzato dai mercati finanziari, queste anonime entità che tanto rassomigliano ad angeli decaduti trasformatisi in demoni annientatori. Un golpe, però, bisogna onestamente riconoscerlo, reso possibile dalla inettitudine di un ceto politico di nani e ballerine.

Sotto un profilo epocale, questo golpe è la conseguenza, ultima, del ritorno in causa del vecchio paradigma liberista nella sua forma neò, chiamata monetarismo, che trovò, a suo tempo, in Reagan e nella Thatcher i primi alfieri globali. Un ritorno che fu reso possibile dagli errori politici degli anni Settanta nell’uso dello strumento monetario.

Non parliamo di golpe in difesa di Berlusconi ma in difesa della sovranità popolare. Il popolo, infatti, aveva scelto da chi voleva fosse governato. Non sempre il popolo è saggio. Nel 2008 aveva scelto un nano politico più interessato alle sue escort che all’arte del governare una Comunità Politica. Inevitabile la sua sconfitta da parte del potere globale finanziario, cui nulla aveva, in termini di idee politiche, da opporre.

Certo la storia è strana, come direbbe Franco Cardini. Siamo qui – proprio noi che non ci siamo affatto formati alla scuola della liberaldemocrazia – a difendere il principio democratico contro i suoi, presunti, tutori storici. Forse la questione sta tutta in che cosa si intenda per democrazia: parola che può essere riempita di significati diversi.
 
Un golpe in due fasi

Non è comunque sul piano del diritto costituzionale che vogliamo condurre la nostra analisi, ma su quello filosofico-politico e filosofico-economico.

Il golpe, al quale abbiamo fatto cenno, è stato purtroppo iniziato da alcuni decenni e solo ora sta giungendo a conclusione. La sua dinamica consta quanto meno di due fasi.

Beniamino Andreatta
  Beniamino Andreatta
Il primo atto del golpe fu messo in opera nel 1981. Approfittando dell’inflazione registratasi negli anni ‘70 – che fu fatta passare come causata esclusivamente dall’eccessiva massa monetaria in circolazione, laddove in realtà, dicono oggi storici ed economisti, essa all’epoca era stata principalmente provocata dalle difficoltà nell’approvvigionamento del greggio per effetto del conflitto arabo-israeliano il quale fece aumentare il prezzo del petrolio e quindi della produzione industriale – con uno scambio di lettere (si badi bene: non attraverso una deliberazione parlamentare!) tra Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, e Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, furono separate le competenze tra il Tesoro stesso e la Banca d'Italia, sicché quest’ultima – che veniva contestualmente privatizzata aprendola al capitale delle banche ordinarie da essa controllate (conflitto di interessi che nessuno contestò!) e delle assicurazioni – da quel momento non ha più emesso denaro per lo Stato, come era accaduto fino ad allora. L’emissione di denaro per lo Stato dipendeva, ora, dall’autonoma politica del Governatore di turno, al quale in sostanza il governo doveva chiedere consenso finanziario alle politiche che intendeva mettere in atto.

Guido Carli
  Guido Carli
Questo processo di privatizzazione e di sempre maggiore autonomia delle Banche Centrali era, all’epoca, in atto in tutto il mondo occidentale. In Italia avvenne con le modalità predette. Le Banche Centrali, fin dalla loro comparsa storica, avevano prestato denaro ai rispettivi Stati a fronte dell’emissione dei titoli del debito pubblico. In altri termini, le Banche Centrali operavano come prestatori di ultima istanza, monetizzando (questo il termine tecnico) il debito pubblico laddove gli Stati avessero avuto difficoltà nella raccolta di risorse sul mercato finanziario, una volta prevalentemente interno.

Con la comparsa delle Banche Centrali ebbe inizio il processo di progressiva spoliazione della sovranità monetaria degli Stati da parte del sistema bancario.

Per giustificare tale processo si fece ricorso ad una motivazione di tipo storico. I politici – si disse – non hanno le giuste competenze tecniche per un corretta gestione dello strumento monetario e finiscono, così, ad indurre inflazione.

Agiva, in questa motivazione, il ricordo di fatti antichi, come quello, nel XV secolo, che vide protagonista il re d’Inghilterra, Edoardo III. Questi si era indebitato, per le sue guerre, con le potenti famiglie bancarie dei Bardi e dei Peruzzi, rivali fiorentini dei Medici. Quando Edoardo comprese che ripagare il debito avrebbe significato prostrare l’economia del regno, lo ripudiò, facendo fallire sia i Bardi che i Peruzzi.

La seconda fase del processo di spoliazione della sovranità monetaria statuale è intervenuta con il Trattato di Maastricht, nel 1992, al quale hanno fatto seguito le varie Basilea 1, 2, 3, etc..

Questi trattati internazionali, assecondando l’ossessione tedesca per l’iperinflazione (retaggio nella memoria storica germanica degli eventi del 1923 e del 1945), hanno imposto, nell’acquiescenza delle classi politiche europee che per questo si sono assunte una responsabilità storica gravissima, un’Europa bancocratica ruotante intorno ad una BCE modello Bundesbank. La BCE, appunto, non è oggi prestatore di ultima istanza per i titoli di debito pubblico degli Stati dell’UE (o per eventuali eurobond).

La parola ad un economista

Dal momento che non abbiamo specifiche competenze di scienza economica, lasciamo la parola ad un economista. La citazione è particolarmente lunga, ed argomentata, ma è necessaria per apportare alla nostra ricostruzione quei dettagli scientifici indispensabili per comprendere come si è giunti alla crisi attuale dell’euro.

Dunque leggiamo:

«Mentre sono molto popolari le analisi del debito pubblico che mettono al centro dell’attenzione il comportamento del settore pubblico, anzi dei ‘politici’ ai quali viene addebitata ogni responsabilità per quello che viene considerato da molti una ipoteca nei confronti delle generazioni successive, minore attenzione viene solitamente dedicata al contesto monetario in cui l’impennata del debito pubblico italiano si è realizzata. Mi riferisco al ruolo delle Banche Centrali, e in particolare all’ideologia monetarista che presiede ai loro comportamenti da trent’anni a questa parte. Tra marzo 1974 e ottobre 1979 i tassi di interesse reali in Italia si sono mantenuti negativi, da un minimo di -1,5% (settembre ‘78) a un massimo di -16,5% (dicembre ‘74) e la dinamica del debito pubblico, in presenza di tassi di crescita strutturalmente in declino, ma ancora in linea con quelli dei principali partner europei, appare sostenibile. È nel marzo del 1981 che, per la prima volta, i tassi di interesse reali diventano positivi: appena lo 0,3%, che però dopo un triennio diventa 6,4% per poi raggiungere il 7% nel marzo dell’86, l’8% nel ‘92 fino a un massimo del 10,2% nella nera estate di quell’anno. Perché? Che cosa accade di particolare nel 1981? Succede che la Banca d’Italia, d’intesa con il ministro del Tesoro dell’epoca, abbandona ufficialmente la pratica di porsi come acquirente residuale dei titoli del debito pubblico rimasti eventualmente invenduti alle aste: si tratta del cosiddetto ‘divorzio’, evento considerato da molti come il possibile inizio di un percorso virtuoso dei conti pubblici e dell’intera economia italiana, costretta a ciò dall’avvio del processo di unificazione monetaria europea che impone un vincolo di cambio per restare dentro il meccanismo del sistema monetario europeo. Da quella decisione, almeno in Italia, la Banca Centrale accentua la sua caratteristica di istituzione indipendente, dal momento che i governi non potranno più contare sui suoi acquisti di titoli che saranno sottoposti all’unico giudizio del mercato.

Paul Volcker
  Paul Volcker
Dal momento che, dopo trent’anni, i governi di alcuni Paesi europei sono costretti a ricorrere nuovamente alla Banca Centrale, Europea stavolta, perché acquisti titoli (ricevendo in cambio un commissariamento in piena regola della sovranità nazionale in materia di politica economica), vale la pena ricordare che il contesto storico in cui si consuma il ‘divorzio’ del 1981 è quello della svolta monetarista della politica monetaria statunitense, e dunque mondiale, che coincide con l’ascesa al vertice della FED di Paul Volcker (successivamente superconsulente del presidente Obama) il quale guida l’istituzione dall’agosto del 1979 al settembre del 1987 con il preciso obiettivo di combattere l’inflazione, relegando in una posizione subordinata l’altro obiettivo statutario della Banca Federale USA, ossia il sostegno all’occupazione. A partire dalla riunione dell’Open Market Committee del 6 ottobre 1979 i tassi di sconto negli USA cominciano a crescere, fino a raggiungere livelli stellari nei primi anni ‘80. La politica monetaria italiana segue fedelmente il nuovo orientamento dominante e tra l’ottobre del 1979 e il marzo del 1981 l’allora Governatore della Banca d’Italia aumenta il tasso di sconto portandolo dal 10,5% al 19% e lo mantiene a livelli elevatissimi fino alla crisi della lira scoppiata nell’estate-autunno 1992; dal momento che nello stesso periodo il tasso di inflazione crolla dal 16,9% al 4,8%, il risultato è che i tassi di interesse reali diventano positivi. Al centro della preoccupazione delle banche, allora come oggi, resta l’inflazione: i banchieri non sono generalmente entusiasti di vedersi restituire denaro che valga meno di quanto valesse al momento del prestito, ed è quello che succede con l’inflazione, ma non è possibile escludere una relazione positiva tra interesse  e inflazione. Nel 1980 il tasso medio di inflazione (riferita ai prezzi al consumo) per i Paesi del G7 fu del 12,7%, solo di poco inferiore al 13,8% toccato nel 1974; nel 1983, dopo lo shock delle politiche monetariste,  l’inflazione era scesa al 4,7%, ma contemporaneamente, per effetto di una crescita depressa dalle politiche di segno restrittivo, l’economia dei Paesi occidentali conobbe (1982) la prima recessione in assoluto del dopoguerra con la diminuzione, seppur lieve, del reddito e della produzione.

Proprio nel 1982 si manifestano i primi contraccolpi del ‘divorzio’ con ripetuti sconfinamenti dal limite legale di utilizzo della linea di credito in conto corrente di cui il Tesoro beneficia presso la Banca Centrale. Che cosa successe allora, e che cosa potrebbe succedere ancora? Che proprio poco dopo aver deciso di ‘legarsi le mani’ per quanto riguarda l’emissione di titoli del debito pubblico l’economia occidentale era entrata in recessione e il governo non aveva tutti gli strumenti con cui combattere le conseguenze della fase negativa del ciclo. Il governo dell’epoca investì del problema il Parlamento, che autorizzò con una legge Bankitalia a concedere al Tesoro un’anticipazione straordinaria temporanea. Ma il vero contraccolpo del ‘divorzio’ sull’economia italiana dei primi anni Ottanta fu – come anticipato sopra – il brusco innalzamento dei tassi di interesse reali. Finì di colpo una condizione economica che durava dal 1972; ancora nel 1980, in Italia, il tasso di interesse depurato dall’inflazione osservata ex post (oltre il 20%), era negativo per qualcosa come cinque punti percentuali; nei tre anni successivi l’interesse divenne positivo per valori compresi tra il 2% e il 3%,  fino a superare il 6% nel 1984: in quell’anno la spesa per interessi rappresentava il 12% del PIL italiano. Successivamente, anche se il rapporto tra deficit e PIL cominciava a calare…,  i tassi di interesse italiani continuavano ad essere più alti che altrove in termini reali, e questo per sostenere la parità del cambio all’interno dello SME. La ragione riguarda la competitività: in un contesto in cui l’inflazione domestica è più elevata, il cambio reale si apprezza e i conti con l’estero si deteriorano, e dunque i tassi di interesse elevati servono a finanziare il disavanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti. È dunque il vincolo estero il problema, non il vincolo di spesa, e la dinamica del debito pubblico italiano della seconda metà degli anni ‘80 mostra il punto; nonostante comportamenti ‘virtuosi’ (la stabilizzazione o il miglioramento del rapporto deficit/PIL) la componente rappresentata dal tasso di interesse gioca un ruolo fondamentale nel rendere sostenibile o esplosiva la dinamica complessiva del debito, e l’entrata dell’Italia nel sistema monetario europeo prima e nell’eurozona poi, non sembra avere conseguito risultati risolutivi, visti gli esiti attuali. Durante i ‘terribili’ anni Settanta, quelli dei tassi di interesse reale negativi e della politica monetaria accomodante, il tasso di risparmio privato delle famiglie italiane superava il 31% del reddito nazionale (media periodo 1976-79); gli investimenti contavano per il 25% del PIL e la differenza positiva serviva a coprire un disavanzo di bilancio che oscillava annualmente tra il 5% e il 6%.

Negli anni Ottanta dei tassi di interesse reale positivi la quota di investimenti sul PIL cade dal 25% al 21% per continuare la sua diminuzione (proxy dell’accumulazione) durante gli anni Novanta (17,5% nel 1996); nello stesso tempo diminuisce la quota di risparmi privati che perde sei punti in un decennio passando dal 32% al 26% (oggi è all’11%). La conclusione di questo breve ragionamento è che politiche fiscali recessive che arrivino al punto di scrivere in Costituzione il vincolo al pareggio di bilancio non solo sono controproducenti sul piano della crescita – qualsiasi punto di vista si abbia a riguardo della sua desiderabilità – ma non costituiscono nemmeno un impedimento assoluto alla crescita del debito pubblico perché non tengono conto del ruolo del tasso di interesse. Un sacrificio inutile, in altre parole, se non si mette in discussione il dogma del mercato come istituzione capace di garantire in ogni circostanza il ‘prezzo giusto’ a merci o a obbligazioni finanziarie. Dal momento che in una economia di mercato non c’è alcuna garanzia che il sistema raggiunga spontaneamente la piena occupazione del lavoro non solo nelle fasi cicliche negative, ma in generale in media sul ciclo, la spesa pubblica anche in disavanzo è e resta uno strumento fondamentale per il raggiungimento del pieno impiego ed è quindi insensato e pericoloso legarsi le mani. L’unica disciplina di bilancio che veramente serve a un Paese riguarda la qualità e l’equità della politica fiscale, sul versante delle spese come su quello delle entrate; i mitici ‘mercati’ sono in grado di mandare – al più – segnali quantitativi: spendere meno o imporre più tasse, indipendentemente da chi paga e per che cosa si spende. Rivedere lo statuto della BCE istituendo una norma per cui i rendimenti dei titoli del debito pubblico non possono eccedere un limite massimo che corrisponde al tasso effettivo di crescita dei Paesi europei ribalterebbe il piano del discorso spostando sui banchieri centrali l’onere dell’adeguamento costituzionale
» (1).

La spoliazione da parte della Banche Centrali della sovranità monetaria ha, dunque, costretto gli Stati a procacciarsi il proprio fabbisogno monetario sui mercati finanziari.

Ora, fino a quando questi ultimi non sono stati globalizzati, con l’irruzione dei fondi speculativi mondiali gestiti dai cosiddetti money manager (i cui antesignani, non ancora così potenti come oggi, furono bollati da Pio XI nella Quadragesimo Anno del 1931 come «coloro che detenendo il denaro la fanno da padroni») nessuno se n’è accorto perché il debito pubblico rimaneva sostanzialmente interno ossia nelle mani degli stessi popoli. Fino agli anni Novanta, i titoli di Stato erano acquistati prevalentemente dai cittadini, dalle imprese e dalle banche commerciali di ciascuno Stato, non ancora esistendo o non ancora essendo stato messo efficacemente a punto il mercato mondiale di quei titoli.
 
Tuttora, ad esempio, il Giappone che ha una altissima spesa pubblica ed un rapporto debito/PIL pari al 200% (il che significa che il debito pubblico è il doppio del prodotto interno lordo) non viene attaccato dalla speculazione globale (ossia dai predetti fondi globali di investimento gestiti dai money manager) perché i suoi titoli di Stato sono quasi tutti in mani interne, nelle mani dello stesso popolo giapponese, sicché lo Stato ripaga capitale ed interessi al proprio popolo e non ai fondi speculativi ossia agli strozzini globali. In Giappone tutta la questione dell’indebitamento pubblico non è nient’altro che una immensa partita di giro, a costo zero o quasi, tra lo Stato ed il suo popolo.

A seguito della globalizzazione del mercato dei titoli di Stato ed in assenza di una Banca Centrale prestatrice di ultima istanza, gli Stati europei sono oggi caduti nelle mani degli strozzini globali e per ripagare capitale ed interesse a tali figuri – sempre in cerca di massimi profitti da interesse perché chiamati a gestire e far rendere, quasi senza investimento nell’economia reale, ingenti capitali privati, compresi i fondi pensioni dei Paesi anglosassoni dove il sistema pensionistico è privato e non pubblico – gli Stati dell’UE devono o aumentare la pressione fiscale o tagliare la spesa pubblica: il che significa o spennare i contribuenti o privatizzare servizi e Welfare.
 
Questo è stato il vero Golpe globale!

E di questo sono responsabili le nostre classi politiche, inette ed ignoranti, che non hanno saputo difenderci da un tale criminale disegno, anzi lo hanno assecondato (Giacinto Auriti, che citava Ezra Pound: «i politici sono i camerieri dei banchieri»!).
 
Dalla crisi si può uscire solo in due modi.

Il primo di essi consiste nel ripensare tutta la costruzione europea, alla luce di una nuova politica di tipo keynesiano. È necessario – contro il diktat tedesco – che la BCE si trasformi in prestatrice di ultima istanza per l’UE e gli Stati aderenti. Naturalmente non basta che la BCE diventi prestatrice di ultima istanza ma, perché assolva questo ruolo senza agevolare interessi privati, è assolutamente necessario che essa sia pubblicizzata – attualmente, infatti, è una istituzione a capitale privato che esercita, ovvero si è arrogata, pubbliche funzioni – , in modo da compensare il debito pubblico da emissione monetaria. Se, infatti, la Banca Centrale fosse interamente pubblica, gli Stati si indebiterebbero verso di essa, all’atto dell’emissione monetaria bancaria, soltanto in forma fittizia, perché, pur nella distinzione delle rispettive personalità giuridiche pubbliche, sia la Banca Centrale sia gli Stati, o l’UE, graviterebbero comunque nell’ambito del Pubblico e quindi del Politico, sicché coincidendo, o quasi, il creditore ed il debitore il debito sarebbe estinto o, appunto, soltanto fittizio.

L’altro modo di uscire dall’attuale crisi è quello di aspettare che la situazione arrivi al punto di non ritorno con la depressione globale che si profila, la disoccupazione di massa, le tensioni sociali alle stelle. Uno scenario che preparerà il terreno ad esiti violentemente rivoluzionari, di che tipo solo Dio lo sa: non dimentichiamoci che quello al quale stiamo assistendo è una sorta di replay della situazione storica della Germania di Weimar agli inizi degli anni ‘30 e sappiamo come è andata a finire!

(fine prima parte di 4)

Luigi Copertino

Il Golpe (parte II)
Il Golpe (parte III)
Il Golpe (parte IV)




1) Confronta Maurizio Donato (Università di Teramo) Un vincolo di interesse in www.economiaepolitica.it (Rivista on line di critica della politica economica) 15 dicembre 2011.



Il golpe (parte I)

Da J. M. Keynes a Mario Draghi

Un’epoca cruciale è iniziata

Non si meravigli il lettore se, in questo nostro contributo, si imbatterà in tematiche specialistiche ed in personaggi inusuali della filosofia, della scienza economica e della storia contemporanea,
dell’oggi e dello ieri più immediato, ossia del XX secolo. Abbiamo cercato di mantenere quanto più possibile un livello divulgativo, che è poi, in fondo, il nostro.

Questo non è più il tempo di darsi esclusivamente ad elaborate analisi teologiche, filosofiche e storiche se ciò significa non avere una prospettiva – come dire – aperta ai problemi del presente.

È giunto il tempo di guardare in faccia alla realtà che ci circonda. Certo senza tralasciare di indicare le cause profonde e magari ataviche di quanto sta accadendo, ma filosofando con aderenza alla realtà di oggi per tentare di capirne le dinamiche attuali e le loro cause multidimensionali. Il riduzionismo esegetico, infatti, ha sempre impedito di comprendere la complessità del reale.

Abbiamo assistito, in questi ultimi mesi, ad un golpe. Un golpe del tutto atipico rispetto a quelli classici con tanto di carri armati e plotoni di esecuzione. Un golpe organizzato dai mercati finanziari, queste anonime entità che tanto rassomigliano ad angeli decaduti trasformatisi in demoni annientatori. Un golpe, però, bisogna onestamente riconoscerlo, reso possibile dalla inettitudine di un ceto politico di nani e ballerine.

Sotto un profilo epocale, questo golpe è la conseguenza, ultima, del ritorno in causa del vecchio paradigma liberista nella sua forma neò, chiamata monetarismo, che trovò, a suo tempo, in Reagan e nella Thatcher i primi alfieri globali. Un ritorno che fu reso possibile dagli errori politici degli anni Settanta nell’uso dello strumento monetario.

Non parliamo di golpe in difesa di Berlusconi ma in difesa della sovranità popolare. Il popolo, infatti, aveva scelto da chi voleva fosse governato. Non sempre il popolo è saggio. Nel 2008 aveva scelto un nano politico più interessato alle sue escort che all’arte del governare una Comunità Politica. Inevitabile la sua sconfitta da parte del potere globale finanziario, cui nulla aveva, in termini di idee politiche, da opporre.

Certo la storia è strana, come direbbe Franco Cardini. Siamo qui – proprio noi che non ci siamo affatto formati alla scuola della liberaldemocrazia – a difendere il principio democratico contro i suoi, presunti, tutori storici. Forse la questione sta tutta in che cosa si intenda per democrazia: parola che può essere riempita di significati diversi.
 
Un golpe in due fasi

Non è comunque sul piano del diritto costituzionale che vogliamo condurre la nostra analisi, ma su quello filosofico-politico e filosofico-economico.

Il golpe, al quale abbiamo fatto cenno, è stato purtroppo iniziato da alcuni decenni e solo ora sta giungendo a conclusione. La sua dinamica consta quanto meno di due fasi.

Il primo atto del golpe fu messo in opera nel 1981. Approfittando dell’inflazione registratasi negli anni ‘70 – che fu fatta passare come causata esclusivamente dall’eccessiva massa monetaria in circolazione, laddove in realtà, dicono oggi storici ed economisti, essa all’epoca era stata principalmente provocata dalle difficoltà nell’approvvigionamento del greggio per effetto del conflitto arabo-israeliano il quale fece aumentare il prezzo del petrolio e quindi della produzione industriale –  con uno scambio di lettere (si badi bene: non attraverso una deliberazione parlamentare!) tra Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, e Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, furono separate le competenze tra il Tesoro stesso e la Banca d'Italia, sicché quest’ultima – che veniva contestualmente privatizzata aprendola al capitale delle banche ordinarie da essa controllate (conflitto di interessi che nessuno contestò!) e delle assicurazioni – da quel momento non ha più emesso denaro per lo Stato, come era accaduto fino ad allora. L’emissione di denaro per lo Stato dipendeva, ora, dall’autonoma politica del Governatore di turno, al quale in sostanza il governo doveva chiedere consenso finanziario alle politiche che intendeva mettere in atto.

Questo processo di privatizzazione e di sempre maggiore autonomia delle Banche Centrali era, all’epoca, in atto in tutto il mondo occidentale. In Italia avvenne con le modalità predette.

Le Banche Centrali, fin dalla loro comparsa storica, avevano prestato denaro ai rispettivi Stati a fronte dell’emissione dei titoli del debito pubblico. In altri termini, le Banche Centrali operavano come prestatori di ultima istanza, monetizzando (questo il termine tecnico) il debito pubblico laddove gli Stati avessero avuto difficoltà nella raccolta di risorse sul mercato finanziario, una volta prevalentemente interno.

Con la comparsa delle Banche Centrali ebbe inizio il processo di progressiva spoliazione della sovranità monetaria degli Stati da parte del sistema bancario.

Per giustificare tale processo si fece ricorso ad una motivazione di tipo storico. I politici – si disse – non hanno le giuste competenze tecniche per un corretta gestione dello strumento monetario e finiscono, così, ad indurre inflazione.

Agiva, in questa motivazione, il ricordo di fatti antichi, come quello, nel XV secolo, che vide protagonista il re d’Inghilterra, Edoardo III. Questi si era indebitato, per le sue guerre, con le potenti famiglie bancarie dei Bardi e dei Peruzzi, rivali fiorentini dei Medici. Quando Edoardo comprese che ripagare il debito avrebbe significato prostrare l’economia del regno, lo ripudiò, facendo fallire sia i Bardi che i Peruzzi.

La seconda fase del processo di spoliazione della sovranità monetaria statuale è intervenuta con il Trattato di Maastricht, nel 1992, al quale hanno fatto seguito le varie Basilea 1, 2, 3, etc..

Questi trattati internazionali, assecondando l’ossessione tedesca per l’iperinflazione (retaggio nella memoria storica germanica degli eventi del 1923 e del 1945), hanno imposto, nell’acquiescenza delle classi politiche europee che per questo si sono assunte una responsabilità storica gravissima, un’Europa bancocratica ruotante intorno ad una BCE modello Bundesbank. La BCE, appunto, non è oggi prestatore di ultima istanza per i titoli di debito pubblico degli Stati dell’UE (o per eventuali eurobond).

La parola ad un economista

Dal momento che non abbiamo specifiche competenze di scienza economica, lasciamo la parola ad un economista. La citazione è particolarmente lunga, ed argomentata, ma è necessaria per apportare alla nostra ricostruzione quei dettagli scientifici indispensabili per comprendere come si è giunti alla crisi attuale dell’euro.

Dunque leggiamo:

«Mentre sono molto popolari le analisi del debito pubblico che mettono al centro dell’attenzione il comportamento del settore pubblico, anzi dei ‘politici’ ai quali viene addebitata ogni responsabilità per quello che viene considerato da molti una ipoteca nei confronti delle generazioni successive, minore attenzione viene solitamente dedicata al contesto monetario in cui l’impennata del debito pubblico italiano si è realizzata. Mi riferisco al ruolo delle Banche Centrali, e in particolare all’ideologia monetarista che presiede ai loro comportamenti da trent’anni a questa parte. Tra marzo 1974 e ottobre 1979 i tassi di interesse reali in Italia si sono mantenuti negativi, da un minimo di -1,5% (settembre ‘78) a un massimo di -16,5% (dicembre ‘74) e la dinamica del debito pubblico, in presenza di tassi di crescita strutturalmente in declino, ma ancora in linea con quelli dei principali partner europei, appare sostenibile. È nel marzo del 1981 che,  per la prima volta, i tassi di interesse reali diventano positivi: appena lo 0,3%, che però dopo un triennio diventa 6,4% per poi raggiungere il 7% nel marzo dell’86, l’8% nel ‘92 fino a un massimo del 10,2% nella nera estate di quell’anno. Perché? Che cosa accade di particolare nel 1981? Succede che la Banca d’Italia, d’intesa con il ministro del Tesoro dell’epoca, abbandona ufficialmente la pratica di porsi come acquirente residuale dei titoli del debito pubblico rimasti eventualmente invenduti alle aste: si tratta del cosiddetto ‘divorzio’, evento considerato da molti come il possibile inizio di un percorso virtuoso dei conti pubblici e dell’intera economia italiana, costretta a ciò dall’avvio del processo di unificazione monetaria europea che impone un vincolo di cambio per restare dentro il meccanismo del sistema monetario europeo. Da quella decisione, almeno in Italia, la Banca Centrale accentua la sua caratteristica di istituzione indipendente, dal momento che i governi non potranno più contare sui suoi acquisti di titoli che saranno sottoposti all’unico giudizio del mercato. Dal momento che, dopo trent’anni, i governi di alcuni Paesi europei sono costretti a ricorrere nuovamente alla Banca Centrale, Europea stavolta, perché acquisti titoli (ricevendo in cambio un commissariamento in piena regola della sovranità nazionale in materia di politica economica), vale la pena ricordare che il contesto storico in cui si consuma il ‘divorzio’ del 1981 è quello della svolta monetarista della politica monetaria statunitense, e dunque mondiale, che coincide con l’ascesa al vertice della FED di Paul Volcker (successivamente superconsulente del presidente Obama) il quale guida l’istituzione dall’agosto del 1979 al settembre del 1987 con il preciso obiettivo di combattere l’inflazione, relegando in una posizione subordinata l’altro obiettivo statutario della Banca Federale USA, ossia il sostegno all’occupazione. A partire dalla riunione dell’Open Market Committee del 6 ottobre 1979 i tassi di sconto negli USA cominciano a crescere,  fino a raggiungere livelli stellari nei primi anni ‘80. La politica monetaria italiana segue fedelmente il nuovo orientamento dominante e tra l’ottobre del 1979 e il marzo del 1981 l’allora Governatore della Banca d’Italia aumenta il tasso di sconto portandolo dal 10,5% al 19% e lo mantiene a livelli elevatissimi fino alla crisi della lira scoppiata nell’estate-autunno 1992; dal momento che nello stesso periodo il tasso di inflazione crolla dal 16,9% al 4,8%, il risultato è che i tassi di interesse reali diventano positivi. Al centro della preoccupazione delle banche, allora come oggi, resta l’inflazione: i banchieri non sono generalmente entusiasti di vedersi restituire denaro che valga meno di quanto valesse al momento del prestito, ed è quello che succede con l’inflazione, ma non è possibile escludere una relazione positiva tra interesse  e inflazione. Nel 1980 il tasso medio di inflazione (riferita ai prezzi al consumo) per i Paesi del G7 fu del 12,7%, solo di poco inferiore al 13,8% toccato nel 1974; nel 1983, dopo lo shock delle politiche monetariste,  l’inflazione era scesa al 4,7%, ma contemporaneamente, per effetto di una crescita depressa dalle politiche di segno restrittivo, l’economia dei Paesi occidentali conobbe (1982) la prima recessione in assoluto del dopoguerra con la diminuzione, seppur lieve, del reddito e della produzione. Proprio nel 1982 si manifestano i primi contraccolpi del ‘divorzio’ con ripetuti sconfinamenti dal limite legale di utilizzo della linea di credito in conto corrente di cui il Tesoro beneficia presso la Banca Centrale. Che cosa successe allora, e che cosa potrebbe succedere ancora? Che proprio poco dopo aver deciso di ‘legarsi le mani’ per quanto riguarda l’emissione di titoli del debito pubblico l’economia occidentale era entrata in recessione e il governo non aveva tutti gli strumenti con cui combattere le conseguenze della fase negativa del ciclo. Il governo dell’epoca investì del problema il Parlamento, che autorizzò con una legge Bankitalia a concedere al Tesoro un’anticipazione straordinaria temporanea. Ma il vero contraccolpo del ‘divorzio’ sull’economia italiana dei primi anni Ottanta fu – come anticipato sopra – il brusco innalzamento dei tassi di interesse reali. Finì di colpo una condizione economica che durava dal 1972; ancora nel 1980, in Italia, il tasso di interesse depurato dall’inflazione osservata ex post (oltre il 20%), era negativo per qualcosa come cinque punti percentuali; nei tre anni successivi l’interesse divenne positivo per valori compresi tra il 2% e il 3%,  fino a superare il 6% nel 1984: in quell’anno la spesa per interessi rappresentava il 12% del PIL italiano. Successivamente, anche se il rapporto tra deficit e PIL cominciava a calare…,  i tassi di interesse italiani continuavano ad essere più alti che altrove in termini reali, e questo per sostenere la parità del cambio all’interno dello SME. La ragione riguarda la competitività: in un contesto in cui l’inflazione domestica è più elevata, il cambio reale si apprezza e i conti con l’estero si deteriorano, e dunque i tassi di interesse elevati servono a finanziare il disavanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti. È dunque il vincolo estero il problema, non il vincolo di spesa, e la dinamica del debito pubblico italiano della seconda metà degli anni ‘80 mostra il punto; nonostante comportamenti ‘virtuosi’ (la stabilizzazione o il miglioramento del rapporto deficit/PIL) la componente rappresentata dal tasso di interesse gioca un ruolo fondamentale nel rendere sostenibile o esplosiva la dinamica complessiva del debito, e l’entrata dell’Italia nel sistema monetario europeo prima e nell’eurozona poi, non sembra avere conseguito risultati risolutivi, visti gli esiti attuali. Durante i ‘terribili’ anni Settanta, quelli dei tassi di interesse reale negativi e della politica monetaria accomodante, il tasso di risparmio privato delle famiglie italiane superava il 31% del reddito nazionale (media periodo 1976-79); gli investimenti contavano per il 25% del PIL e la differenza positiva serviva a coprire un disavanzo di bilancio che oscillava annualmente tra il 5% e il 6%. Negli anni Ottanta dei tassi di interesse reale positivi la quota di investimenti sul PIL cade dal 25% al 21% per continuare la sua diminuzione (proxy dell’accumulazione) durante gli anni Novanta (17,5% nel 1996); nello stesso tempo diminuisce la quota di risparmi privati che perde sei punti in un decennio passando dal 32% al 26% (oggi è all’11%). La conclusione di questo breve ragionamento è che politiche fiscali recessive che arrivino al punto di scrivere in Costituzione il vincolo al pareggio di bilancio non solo sono controproducenti sul piano della crescita – qualsiasi punto di vista si abbia a riguardo della sua desiderabilità – ma non costituiscono nemmeno un impedimento assoluto alla crescita del debito pubblico perché non tengono conto del ruolo del tasso di interesse. Un sacrificio inutile, in altre parole, se non si mette in discussione il dogma del mercato come istituzione capace di garantire in ogni circostanza il ‘prezzo giusto’ a merci o a obbligazioni finanziarie. Dal momento che in una economia di mercato non c’è alcuna garanzia che il sistema raggiunga spontaneamente la piena occupazione del lavoro non solo nelle fasi cicliche negative, ma in generale in media sul ciclo, la spesa pubblica anche in disavanzo è e resta uno strumento fondamentale per il raggiungimento del pieno impiego ed è quindi insensato e pericoloso legarsi le mani. L’unica disciplina di bilancio che veramente serve a un Paese riguarda la qualità e l’equità della politica fiscale, sul versante delle spese come su quello delle entrate; i mitici ‘mercati’ sono in grado di mandare – al più – segnali quantitativi: spendere meno o imporre più tasse, indipendentemente da chi paga e per che cosa si spende. Rivedere lo statuto della BCE istituendo una norma per cui i rendimenti dei titoli del debito pubblico non possono eccedere un limite massimo che corrisponde al tasso effettivo di crescita dei Paesi europei ribalterebbe il piano del discorso spostando sui banchieri centrali l’onere dell’adeguamento costituzionale» (1).

La spoliazione da parte della Banche Centrali della sovranità monetaria ha, dunque, costretto gli Stati a procacciarsi il proprio fabbisogno monetario sui mercati finanziari.

Ora, fino a quando questi ultimi non sono stati globalizzati, con l’irruzione dei fondi speculativi mondiali gestiti dai cosiddetti money manager (i cui antesignani, non ancora così potenti come oggi, furono bollati da Pio XI nella Quadragesimo Anno del 1931 come «coloro che detenendo il denaro la fanno da padroni») nessuno se n’è accorto perché il debito pubblico rimaneva sostanzialmente interno ossia nelle mani degli stessi popoli. Fino agli anni Novanta, i titoli di Stato erano acquistati prevalentemente dai cittadini, dalle imprese e dalle banche commerciali di ciascuno Stato, non ancora esistendo o non ancora essendo stato messo efficacemente a punto il mercato mondiale di quei titoli.
 
Tuttora, ad esempio, il Giappone che ha una altissima spesa pubblica ed un rapporto debito/PIL pari al 200% (il che significa che il debito pubblico è il doppio del prodotto interno lordo) non viene attaccato dalla speculazione globale (ossia dai predetti fondi globali di investimento gestiti dai money manager) perché i suoi titoli di Stato sono quasi tutti in mani interne, nelle mani dello stesso popolo giapponese, sicché lo Stato ripaga capitale ed interessi al proprio popolo e non ai fondi speculativi ossia agli strozzini globali. In Giappone tutta la questione dell’indebitamento pubblico non è nient’altro che una immensa partita di giro, a costo zero o quasi, tra lo Stato ed il suo popolo.

A seguito della globalizzazione del mercato dei titoli di Stato ed in assenza di una Banca Centrale prestatrice di ultima istanza, gli Stati europei sono oggi caduti nelle mani degli strozzini globali e per ripagare capitale ed interesse a tali figuri – sempre in cerca di massimi profitti da interesse perché chiamati a gestire e far rendere, quasi senza investimento nell’economia reale, ingenti capitali privati, compresi i fondi pensioni dei Paesi anglosassoni dove il sistema pensionistico è privato e non pubblico – gli Stati dell’UE devono o aumentare la pressione fiscale o tagliare la spesa pubblica: il che significa o spennare i contribuenti o privatizzare servizi e Welfare.
 
Questo è stato il vero Golpe globale!

E di questo sono responsabili le nostre classi politiche, inette ed ignoranti, che non hanno saputo difenderci da un tale criminale disegno, anzi lo hanno assecondato (Giacinto Auriti, che citava Ezra Pound: «i politici sono i camerieri dei banchieri»!).
 
Dalla crisi si può uscire solo in due modi.

Il primo di essi consiste nel ripensare tutta la costruzione europea, alla luce di una nuova politica di tipo keynesiano. È necessario – contro il diktat tedesco – che la BCE si trasformi in prestatrice di ultima istanza per l’UE e gli Stati aderenti. Naturalmente non basta che la BCE diventi prestatrice di ultima istanza ma, perché assolva questo ruolo senza agevolare interessi privati, è assolutamente necessario che essa sia pubblicizzata – attualmente, infatti, è una istituzione a capitale privato che esercita, ovvero si è arrogata, pubbliche funzioni – , in modo da compensare il debito pubblico da emissione monetaria. Se, infatti, la Banca Centrale fosse interamente pubblica, gli Stati si indebiterebbero verso di essa, all’atto dell’emissione monetaria bancaria, soltanto in forma fittizia, perché, pur nella distinzione delle rispettive personalità giuridiche pubbliche, sia la Banca Centrale sia gli Stati, o l’UE, graviterebbero comunque nell’ambito del Pubblico e quindi del Politico, sicché coincidendo, o quasi, il creditore ed il debitore il debito sarebbe estinto o, appunto, soltanto fittizio.

L’altro modo di uscire dall’attuale crisi è quello di aspettare che la situazione arrivi al punto di non ritorno con la depressione globale che si profila, la disoccupazione di massa, le tensioni sociali alle stelle. Uno scenario che preparerà il terreno ad esiti violentemente rivoluzionari, di che tipo solo Dio lo sa: non dimentichiamoci che quello al quale stiamo assistendo è una sorta di replay della situazione storica della Germania di Weimar agli inizi degli anni ‘30 e sappiamo come è andata a finire!
Luigi Copertino         

• Il Golpe (parte II)

1) Confronta Maurizio Donato (Università di Teramo) Un vincolo di interesse in www.economiaepolitica.it (Rivista on line di critica della politica economica) 15 dicembre 2011.

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