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Lettera dalla Norvegia
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Ho ricevuto questa mail da una lettrice che abita in Norvegia, e mi spiega il perchè.

«... In Italia, dopo la laurea in Matematica, ho lavorato per sette anni in banca nell’amministrazione delle risorse informatiche. Tale occupazione, inquadrata da un contratto a tempo indeterminato, mi ha dato la possibilità di guadagnare un ottimo stipendio ma nello stesso tempo mi ha esposta a delle situazioni che mi venivano sempre più a noia. In primo luogo scoprii che la gerarchia non era basata sul merito ma sull’obbedienza ai superiori, in secondo luogo mi accorsi che il mio lavoro si era ben presto trasformato in un ‘ posto di lavoro’: un posto che avrei dovuto occupare a vita con le stesse mansioni e la perdurante sottomissione gerarchica all’obbediente di turno. Decisi quindi di lasciare il mio ‘posto di lavoro in banca’. Passai un periodo molto triste: dovunque io andassi ed a chiunque io mi rivolgessi trovavo sempre delle porte chiuse. Fui quindi costretta a concludere che in Italia, con mia triste sorpresa, pareva non esserci più un ruolo per me. Fu quello il momento in cui mi risolsi a cercare per me stessa un ruolo all’estero e fu quello un periodo brutto perchè mi ero ormai convinta di non valere più nulla: ‘Se nessuno in Italia più ti vuole è perchè ormai, per il mondo del lavoro, nulla più tu vali’ pensavo. Quando fui assunta da un importante istituto di ricerca norvegese fui davvero sorpresa: ‘Comè potuto accadere? Allora, forse, valgo ancora qualcosa!’ pensai con grande meraviglia. È tre anni che lavoro in Norvegia. L’inizio non è stato facile. Oltre a tutte le comprensibili difficoltà che ogni emigrante deve affrontare, ho dovuto anche confrontarmi con dei problemi rilevanti nell’ambiente lavorativo. Per esempio ho dovuto abituarmi ad avere dei responsabili competenti. Può sembrare strano ma in Italia, dopo tanti anni di lavoro, avevo ormai accettato l’idea che la gerarchia fosse basata sull’obbedienza e non sulla competenza. Non posso però negare che qui in Norvegia, dopo le difficoltà di adattamento causate dall’iniziale sorpresa, non mi è dispiaciuto abituarmi ad una gerarchia basata invece sulla competenza e non sull’obbedienza. Ho affrontato altre rilevanti difficoltà quando ho dovuto confrontarmi con il concetto di lavoro di gruppo. In Italia ‘il lavoro di gruppo’ è una qualità molto ricercata ed ambita e per questo, di solito, tutti i lavoratori assicurano di possederla. In effetti, secondo la mia esperienza personale, le cose stanno proprio così: quasi tutti i lavoratori, quando sono chiamati a lavorare in gruppo, lo eseguono in modo efficace in quanto cercano efficacemente di appropriarsi del lavoro altrui assumendosene i meriti. Confesso che qui in Norvegia, nella mia esperienza personale e dopo uno smarrimento iniziale, non mi è dispiaciuto abituarmi ad un concetto di lavoro di gruppo completamente diverso. L’Italia, nonostante le continue villanìe inferte dal suo stesso popolo, è un Paese meraviglioso per il clima, per la cultura in tutte le sue espressioni e per la meraviglia dei suoi paesaggi. Qui in Norvegia il clima è ostile, la cultura rarefatta ed il paesaggio mirabile ma monotono. Mi piacerebbe molto poter ritornare a vivere nel mio amato Paese! Finchè esso sarà abitato dagli italiani, però, temo che il ritorno mi sarà impossibile. Finchè l’Italia sarà abitata dagli italiani, e la Norvegia dai norvegesi, temo che casa mia rimarrà qui dove sono ora. In una terra dal clima ostile, la cultura rarefatta ed il paesaggio mirabile ma monotono. Una terra, però, che mi ha accolto, mi ha dato un ruolo e mi ha fatto esclamare ‘Allora, forse, valgo ancora qualcosa!’. Possa il mio saluto trovarla sereno e (nuovamente) in piena salute. Michela»


Che dire? Grazie per la mirabile levità con cui metti il dito su due piaghe dell’italiano collettivo, due cause essenziali del nostro degrado di civiltà. Una è la tua piacevole sorpresa nel trovarti, in Norvegia, a lavorare con superiori competenti. È vero, da troppo tempo in Italia, negli uffici, laboratori o redazioni, non conosciamo più il piacere di collaborare, di obbedire, ad un capo che davvero «ne sa di più», che ti insegna qualcosa. Ci siamo così abituati al fatto che il capo sia un mediocre quando non un cialtrone; che sia sulla poltrona di comando per tutt’altri motivi che il merito professionale, che alla fin fine ci sembra normale. A me ha ricordato che l’ultima metà della mia vita professionale (di giornalista, che è un modesto artigianato in confronto al lavoro scientifico tuo, Michela) l’ho spesa proprio sotto un capo del genere; con la sensazione sconfortante di dovere in permanenza camminare a ginocchia piegate, per adeguarmi alla sua statura.

Ciò – e grazie per averlo ricordato – «non è normale». Anzi, quando diventa un fenomeno comune anzichè un’eccezione anomala, come ormai è in Italia, è chiaramente questo il motivo per cui siamo una collettività mentalmente vuota, per cui le qualità intellettuali non hanno valore, che non produce idee, opere e innovazione, non fosse che per mancanza di stimoli dall’alto: in una parola, un popolo in arretramento storico. E il fenomeno si auto-alimenta, aggravandosi, ad ogni successione di potere: i mediocri e incompetenti infatti fanno muro, coalizzati, per non lasciar salire i migliori, da cui si sentono minacciati. Fino all’assurda selezione a rovescio (il darwinismo dei peggiori) che ha prodotto l’ultima «classe politica» terminale: da Bossi al Trota, da Berlusconi con le sue mignotte ministre, che si sceglie come delfino uno yes-man senza il «quid».

La seconda piaga in cui metti il dito (grazie per l’umorismo con cui rivesti la giusta amarezza) è la ben nota «attitudine al lavoro di gruppo» come viene intesa nell’umanità aziendale: dove il collega o il superiore ti ruba il lavoro e si fa bello dei risultati. Mi piacerebbe sapere se anche nella lingua norvegese esistano espressioni idiomatiche come «fare la scarpe», «guardarsi le spalle», o  «pugnalare alla schiena», che intessono il linguaggio nelle nostre aziende, redazioni e università. A ragione ci ricordi, Michela, di quante energie sprechiamo inutilmente, qui, per «farci le scarpe» o «guardarci le spalle», quanta creatività, vitalità, capacità dedichiamo a queste attività – che sono degradanti, sia per chi le fa ma anche per chi le subisce – sottraendole alla produttività intellettuale  superiore.

Che fatica, però, vivere nel Bel Paese. La fatica di stare in una inciviltà, in un quadro di slealtà e di diffidenza reciproca, in cui invece la massima parte degli italiani sembra stare a suo agio, anzi sviluppando in modo insuperabile le abilità meschine necessarie per galleggiare, anzi emergere nell’ambiente. Proprio di queste «abilità» i migliori sono meno dotati, perchè lo sviluppo di queste abilità rende meschini mente e carattere, sporca una personalità che abbia rispetto di sè.

Immagino che molti, sentendo il tuo caso, trasecoleranno: ma come, un posto «a tempo indeterminato» in banca, uno stipendio sicuro, un avanzamento di carriera assicurato, e questa lascia tutto? Per noia?! Solo perchè il suo capo era un cialtrone o – per usare un’altra tipica  espressione idiomatico-aziendale – uno str...? È appunto il modo di pensare della mediocrità, che produce ed espande la mediocrità generale. Fino al punto che non c’è spazio da noi per i non-mediocri, dato che quelli, i meschini, fanno massa per difendere i posti mediocri che hanno mediocremente, meschinamente conquistato.

Secondo valutazioni ad occhio, sono ormai fra i 250 mila e i 600 mila i giovani neolaureati di talento e qualità, che hanno abbandonato l’Italia perchè qui non c’erano posti adatti alle loro qualifiche, e li hanno trovati all’estero. Dovrebbe essere una emergenza nazionale, un allarme generale della nazione. Ma questo è il Paese dove il rettore Frati (della Sapienza) mette in cattedra moglie, figlio e figlia (tre docenti ordinari) e non viene arrestato (1). ... Davvero, ai migliori non resta che l’esilio.

Michela non è un’emigrata; è – usiamo una parola nobile – un’esule. In cui, sulla nostalgia, fa premio il contenuto dolore per l’ingiusto esilio. Un’esule cacciata via, come tutte le altre centinaia di giovani migliori di noi che hanno trovato lavoro e stima fuori di qui. A noi non resta che rimanere, e domandarci: perchè questo popolo peggiora? Perchè non rettifica i suoi vizi e le sue falle evidenti, che lo trascinano in basso? Come si fa a migliorare una intera collettività? C’è un metodo? Ci penserò.




1) Per avere un’idea dell’eloquio romanesco  e della mentalità del Magnifico Rettore, si può leggere questo articolo "Assumo i miei parenti? Se lo meritano"



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