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Cristo per soli adulti
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Come resuscitare un Cristo virile, ormai dimenticato, seppellito sotto un manto secolare di ignavia e di irresolutezza?

Composto in un atto di dignità suprema, l’Uomo della Sindone cela le pudenda sotto le mani. Dovettero comporlo cosi le donne pietose che lavarono quel cadavere, rimediando all’impudicizia scomposta della morte violenta. Nondiméno, il sesso di quel morto traspare in tutto il corpo, in quell’ampio torace e nei fianchi stretti, nella muscolatura allungata e nervosa, in quel volto barbuto e severo, nell’alta statura; è una virilità da atleta, da guerriero deposto. Quello che vediamo nel sonno della morte è un campione della mascolinità.

Gli anonimi artisti greci che fusero i due guerrieri di Riace, o il bronzeo Poseidon del museo d’Atene, furono i soli a saper rendere quell’ampiezza paurosa, quell’orgoglio involontario e soggiogante che irradia da una nudità virile compiuta: soli, con la traccia della Sindone. Essi vollero rendere quell’irradiazione della virilità - in cui per essi consisteva il divino - che supera di molto il possesso di organi sessuali: non la taurinità zoologica, ma il potere maschile di decisione e di conquista.

E’ quella la radiazione che ci restituisce la Sindone. Gesù nacque maschio, fatto che la banalità clericale mette tra parentesi: non tanto per timoratezza, quanto, temo, per soggezione alla banalità moderna che riduce il sesso a un accidente, a una difference genitale, proprio mentre non si stanca mai di parlarne. Solo nel nostro tempo, e nella falsità giornalistica contemporanea, si può «cambiare sesso» con un intervento chirurgico; per Cristo e i suoi contemporanei, il senso della frase sarebbe stato equivalente a «cambiare destino». Perché Israele sapeva che, all’inizio, «maschio e femmina Dio li creò»: si nasce a questa vita in uno dei due sessi. Il che vuol dire che fin dal principio ti è aperta una metà dei destini possibili, mentre l’altra metà ti è irrevocabilmente chiusa. Solo la frivolezza radicale d’oggi può aver indotto certe zitelle britanniche della Chiesa anglicana a rivendicare il «diritto» delle donne al sacerdozio - che Cristo volle riservato a maschi capaci di essere padri - supponendo che almeno in chiesa il sesso «non conti». E solo un’angoscia nichilistica di fuga dalla propria identità e dal proprio destino che illude i transessuali. Li anima forse la voglia di non farsi precludere, nel coito, i piaceri che prova l’altro sesso: ciò, per quanto tragicamente ossessivo, ancora partecipa della banalità contemporanea.

Platone vide nel coito la prova di una miseria basale, della nostra incompletezza fondamentale che nell’amore carnale cerchiamo ciecamente di sanare: ciò che viviamo - o che ci vive - come lussuria è sete ontologica, la nostalgia dell’Essere senza condizioni e senza divisioni. E suppose, come stato perfetto dell’uomo - prima della storia o alla sua fine - una natura androgina, segno della raggiunta completezza e autonomia.

Solo in apparenza Gesù disse la stessa cosa, quando rimproverò i Sadducei, materialisti anche per l’aldilà, che nel regno dei Cieli «non si sposa né si è sposati». Nell’aldilà, è vero, cessa la condizione di maschio e di femmina genitali. Ma Platone non intuì quello che sa il popolino cristiano, le vecchiette che accorrono alle statue della Vergine sanguinante: che anche nell’aldilà, i Due che ci hanno preceduto col corpo restano - inequivocabilmente - Uomo e Donna. Gesù risorto, che i discepoli a tutta prima non riconoscono (forse il corpo di prima, «senza apparenza», era diventato lo splendido atleta della Sindone?), è sicuramente un maschio, e come maschio sale, sotto i loro occhi, finché una nuvola non lo nasconde. Maria di Nazareth lasciò questo mondo ad Efeso, che era da secoli il santuario della «donna divina», dell’archetipo femminile: mai in duemila anni il popolino ha visitato là una presunta tomba di Maria, da sempre ha covato la certezza - approvata dal dogma di recente - che essa è salita in Cielo. Dopo la dormitio Virginis, l’Assunta: in cielo col suo corpo di donna. Femminile in eterno: per questo l’Apocalisse la rappresenta alla fine dei tempi con la luna femminile sotto i suoi piedi: l’intero mondo agitato di qua, dove vivono esseri che per essere generati muoiono, è posto sotto il manto di Lei: la Vita, ogni vita le è affidata.

Gli artisti greci del bronzo avevano più ragione di Platone, quando riuscirono a raffigurare quella virilità che non muore. Ogni essere viene al mondo per natura maschio o femmina; non occorre imparare ad essere tori o montoni. La virilità dell’uomo invece deve in qualche modo essere appresa: è la fedeltà a una vocazione. La condizione biologica fonda un modello a cui si tende, la virilità è un perfezionamento. Quando è compiuta, la virilità informa tutto l’essere. C’è un modo solo virile di compiere semplici gesti, nel parlare, nel passo, nel sonno (il sonno profondo di Cristo sulla barca, che la tempesta non turba), e nel porsi davanti al mondo e alla vita. Gli scultori greci cercarono di fondere nel bronzo quella virilità costitutiva e immortale.

Gesù nacque maschio, anzi Primogenito - il maschio da cui Israele s’aspetta che con la paternità, nella discendenza, perpetui il Nome - e lo fu in quel modo eminente, super-biologico. Per capire quanto sia essenzialmente diverso il rapporto che la virilità ha con la vita, basta vedere la sua morte.

Non avrebbe mai potuto essere una dormitio. E’ una morte violenta e pubblica, come in guerra. E il suo sudore di sangue nella notte degli Olivi, ha qualcosa della veglia d’armi: l’accettazione della morte per conquistare qualcosa che sta al di là della morte. Perché la fertilità di questo Primogenito, la sua paternità che darà figli spirituali, deve passare attraverso la morte.

Ecco qui il paradosso che il Femminile non potrà mai capire: l’impossibilità della virilità a vivere della sola vita biologica, la sua prontezza alla morte per «cose» che stanno totalmente oltre l’orizzonte della vita.

Quest’incommensurabilità del virile, al femminile, è espressa, nel suo lato morale o politico, da un racconto giapponese. Lo cito a memoria: cinque nobili giovani congiurano contro l’Imperatore. La madre di uno di loro, dietro una tenda, ascolta il loro conciliabolo. Volendo salvare il figlio da ciò che ritiene un rischio folle, chiede udienza al sovrano: rivela la congiura, ad un patto; che l’Imperatore risparmi la vita di suo figlio. L’Imperatore fa arrestare i congiurati; ordina che quattro siano decapitati; risparmia il quinto, come ha promesso. Ma il figlio, saputo che deve la vita al tradimento di sua madre, commette seppuku, sventrandosi con la propria spada.

Donna, la madre ha perso il figlio con l’atto con cui sperava di salvarlo; uomo, il figlio s’uccide perché viva il suo onore. E’ fra l’altro, l’apologo della virilità come «chiamata» militare. Anche la femminilità è chiamata - essere umani significa soprattutto assumere la vita come compito, non vivere come già si è - ma i compiti del femminile sono ancora nell’orizzonte della vita; l’uomo è chiamato a superare quell’orizzonte.

Cristo è maschio in questo modo eminente. «Lo zelo della mia casa mi consuma» dice, e «sono venuto a portare il fuoco nel mondo, e cos’altro voglio se non che arda?».

Egli è completamente lanciato, assorbito nel suo compito. Il Vangelo, in un episodio insolito e lancinante, mostra almeno una volta l’effetto che una simile virilità, d’un uomo come Gesù, esercita su una donna.

Un dialogo erotico

La donna è la Samaritana, che l’incontra all’antico pozzo di Giacobbe: una trentenne o quarantenne dobbiamo pensare, nell’età della piena coscienza di piacere agli uomini. Acutamente consapevole che il suo corpo, l’anca bella e ampia su cui regge la brocca, attrae gli sguardi. Anche a lei piacciono gli uomini, come sapremo, e la visita al pozzo è la piccola festa quotidiana dell’eros per le donne del suo tempo. Un pozzo in Palestina, duemila anni fa, è il luogo degli incontri arditi: arrivano di continuo cammellieri e pastori, si scambiano sguardi e battute che in ogni altro luogo e circostanza sarebbero proibiti. Ogni innamorato o bellimbusto che voglia sedurre una donna, andrà al pozzo; e le donne, che lo sanno, per prender l’acqua indossano gli orecchini e le cavigliere d’argento.

Non m’invento nulla, ho visto quest’atmosfera eccitata ed erotica in India, sulle gradinate dei fiumi dove le lavandaie battono i panni. Le donne indiane, che hanno nude le braccia ed il ventre (e nel sud, prima che venisse l’uomo bianco con il suo sguardo lubrico, anche le mammelle), non mostrano mai le gambe: ma se volete vedere gambe di donne indiane, andate al ghat -alla gradinata - delle lavandaie. Infatti i bellimbusti (e i turisti) s’attardano nel solo luogo dove le donne si tirano su il sari ben oltre il ginocchio. L’impudicizia è autorizzata dalla necessità; e se un uomo le guarda (o un turista le fotografa) mentre torcono i panni nell’acqua verde a gambe nude, o mentre li sbattono accovacciate agitando piacevolmente il sedere, le giovani - anziché offendersi e coprirsi d’istinto come farebbero in quello stesso luogo se fossero sorprese a fare il bagno - ridono, ammiccano, e lanciano frasi salaci. Per questo all’intera casta delle lavandaie in India si attribuiscono facili costumi, e i loro canti professionali, quelli che cantano mentre lavano, sono maliziosi, benché parlino infinitamente di Dio.

Con questo spirito vanno le donne al pozzo in Palestina: luogo affollato all’alba e al tramonto, baraonda di belati e bramiti, polvere e uomini neri di sole che trattengono le bestie vogliose d’acqua. Odore di maschile sudore, e le donne giovani, timide e ardite, che in gruppo si lanciano tra loro commenti salaci, tutte tintinnanti d’argento. Meno timida, la bella quarantenne di Samaria ci va a mezzogiorno (era circa l’ora sesta); ora cattiva per prender l’acqua che servirà nella giornata, ma buona per un’esperta di uomini, che non si contenta di battute salaci e di occhiate. Nel sole a picco, al pozzo si è in pochi: l’assenza di testimoni può mutare un incontro non intenzionale in un’occasione eroticamente seria.



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Il calcolo si rivelò esatto anche quel mezzogiorno. Al pozzo c’è un Uomo solo (i discepoli infatti se n’erano andati in città a comprare da mangiare, dice il testo: la vicina città di Sachar, da cui veniva la donna). E se l’aspetto di quel viaggiatore affaticato dal viaggio era quello che la Sindone ci ha tramandato, la donna può essersi congratulata con sé del suo sapiente ritardo. E precisamente come la bella s’aspetta - dopo che lei, puntando una caviglia nervosa, ha tirato su la brocca gocciolante - l’Uomo le rivolge la parola.

«Dammi da bere». Né «per favore» né «grazie».

Ma la donna non può adontarsene, perché la gentilezza virile verso la femminilità nascerà oltre mille anni più tardi. Anzi coglie l’occasione: lui le ha rivolto la parola, dunque si può attaccare discorso.

E lei subito: «Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?»

Provocante, essa cela sotto la provocazione «politica» beffarda - forse un luogo comune, una battuta da pozzo - la domanda che non può essere posta apertamente: dunque t’interesso, io? (Perché i giudei infatti non hanno rapporti con i samaritani, dice il testo).

Le rispose Gesù: se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è colui che ti dice: dammi da bere, tu glielo avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva.

Un indovinello scherzoso: cosi l’intende la Samaritana, e cosi è in un certo senso. La risposta pronta di uno che sta al gioco delle provocazioni, e che anzi l’invita a conoscerlo (se tu sapessi chi è colui...), e parla già di qualcosa che solo e proprio lui può dare a lei: c’è in quelle parole un’intimità ardita che ha superato di colpo tutti i preliminari. E tuttavia, anche un’alterezza regale che disorienta l’esperta di amanti: al punto che, benché per nulla smontata gli replichi ancora beffeggiatrice - come fanno le donne esperte con un possibile corteggiatore - involontariamente già abbandona il «tu» indeterminato e svalutativo della prima apostrofe. Lo chiama «Signore», infatti:

Signore, non hai neppure un secchio e il pozzo è profondo. Da dove prendi dunque l’acqua viva? Forse sei tu più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo, e ne bevve lui e i suoi figli e il suo bestiame?

Inutile sottolineare che anche questa domanda ne sottintende un’altra, più provocante: fammi dunque vedere l’uomo potente che dici d’essere. E la replica di Gesù è anch’essa densa di sottintesi erotici, in modo che solo secoli di timoratezza clericale ci fanno giudicare sorprendente:

Colui che beve di quest’acqua avrà ancora sete. Colui invece che beve dell’acqua che gli darò io, non avrà sete mai più; ma l’acqua che gli darò diverrà in lui una sorgente che zampilla verso la vita eterna.

Non ha bisogno di Freud, la donna di Samaria, per intendere il doppio senso. Sa per esperienza cosa simboleggia quell’acqua - acqua femminile, acqua del cavo pozzo - di cui gli uomini tornano ad avere sete; lo sa perché ha quel pozzo deliziosamente umido nel centro di sé, e sa che i maschi non desiderano che tornarvi, mai sazi. E d’altra parte, crede di sapere fin troppo bene a cosa allude lo «zampillo» di quell’altra acqua, che Lui offre a lei. Del resto, un’immemoriale nozione distingue una sessualità anche nelle acque: la femminile e oscura, acqua dei visceri terrestri, nei pozzi in cui si riflette la luna, e la maschile acqua sorgiva che sprizza con forza chiara.

Non si può dunque presumere che a Cristo sfugga il doppio senso. E se i timorati possono stupire che egli non vi si sottragga, anzi vi si presti, ciò è motivato da una moralità probabilmente poco pulita. Il doppio senso ha appunto due sensi: e i bigotti, come la Samaritana, ne scorgono subito il senso sensuale. Cristo legge evidentemente, del doppio senso, quello alto e arduo.

Come dirlo?

Può aiutarci l’ironia di Karl Kraus: «La psicanalisi smaschera il poeta al primo sguardo, a lei non la si fa e sa con assoluta precisione che cosa significa veramente il Corno Magico del Fanciullo. E sia. Ma ormai sarebbe ora nascesse una scienza dell’anima che, quando uno parla di sesso, gli sveli che in realtà si riferisce all’arte. Per questa carrozza di ritorno alla simbolica mi offro come guidatore».

Il paradosso di Kraus, il quale non ignorava che l’oggi tollera la verità cruda solo se detta per scherzo, è una verità profondamente seria. E il passo evangelico la illustra. La Samaritana prova ad esercitare la sua seduzione femminile su Cristo: l’Uomo votato al suo compito, alla pubblica morte, l’apice della virilità metafisica. Un simile Uomo non solo non ha tempo per il sesso - ha altro da fare - ma quando parla di eros, è dell’Arte che intende. Offre l’acqua che «zampilla», sapendo bene che l’ascoltatrice penserà al seme della voluttà; nell’istante stesso, egli - come dice un canto religioso - prosciuga in lei «ciò che è umido», rettifica ciò che nella donna è sinuosamente obliquo.

Con vera saggezza il latino chiamava effeminatus l’uomo che soggiace ai piaceri del sesso, perché centrare la propria vita sulla sessualità è femminile. Gesù non ha nulla di effeminatus. La sua castità non si esprime nel tener gli occhi bassi, ma nel tenerli in alto; sarà la Samaritana a dover abbassare i suoi, quando il Primogenito la trapasserà con la sua potenza.

Ciò avviene subito dopo che lei, maliziosa, gli chiede quell’acqua zampillante: «Signore, dammi quest’acqua, affinché non abbia più sete e non debba più venire qui ad attingere». Essa è pronta a cogliere il frutto della sua seduzione.

La risposta di Cristo è: «Va’, chiama tuo marito e ritorna qui».

Ma che c’entra qui evocare il marito, nella schermaglia erotica fra due sconosciuti al pozzo? Era proprio l’argomento da sottacere, che qualunque bellimbusto volgare avrebbe evitato. Difatti lei balbetta, confusa e irritata: «Non ho marito».

«Hai detto bene, non ho marito, perché hai avuto cinque mariti e ora quello che hai non è tuo marito. Quanto a questo, hai detto il vero».

L’eros come gioco è finito. Comincia un’altra partita, quella della verità che illumina di colpo le cose nascoste. Il primo, era la seduzione femminile a condurlo; ora è la virilità. E la Samaritana è buona testimone della virilità di Gesù. Esperta com’è, avrebbe deriso lo sconosciuto al pozzo, se vi avesse ravvisato un rinunciatario. Invece lascia il secchio e corre in città a proclamare la potenza dell’uomo che ha appena incontrato: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto: che sia Lui il Messia?».

Conquistata da Gesù, in un modo che lei non s’aspettava; e questo modo, se trascende, non nega la virilità naturale, anzi la comprende necessariamente. Proprio quest’assenza spiega - sia detto per incidens - perché il clericalismo di oggi attragga e conquisti cosi poco. Gli mancano in misura eccessiva la nettezza e la chiarezza, la capacità calda di amicizia, la magnanimità generosa, persino l’eloquenza, che sono tutte virtù maschili. Soprattutto, gli manca il potere soggiogante, analogo maschile della seduzione, che Cristo prova sulla Samaritana. Gli eunuchi diranno invano «Lascia tutto e seguimi».

Un alto clero evidentemente virile, nel senso qui descritto, evocherebbe di nuovo questa potenza: basterebbe per attrarre sulla Chiesa la popolarità e un’autorità incarnata che persino gli avversari riconoscerebbero con rispetto; provocherebbe certamente il malcontento dell’harem clericale, le invidiuzze e i sussurri impotenti, il timore di veder lacerati decenni di femminei intrighi e accomodamenti col secolo. L’alto clero preferisce da tempo, ormai, le frigide esangui sicurezze del serraglio.



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