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La guerra giusta
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Ci scrive un lettore:

«Gentile direttore e uomini di EFFEDIEFFE,

vi ringrazio per l’esaustivo articolo ‘La guerra giusta’. Voglio rileggerlo meglio quando tornerò a casa perchè ora sono in un internet point. Leggendo uno degli ultimi paragrafi (Errore per difetto), mi avete dato una risposta indiretta alla lunga riflessione che ho scritto al direttor Blondet tempo fa, a cui mi sembra non mi sia mai arrivata risposta. Spero di avervi stimolato quella volta a scrivere questo articolo, interessante, documentato e coerente. Credo che il tema sia uno dei più importanti per l’uomo, quello di fare un’analisi quanto più acuta possibile sulla guerra e su i suoi presupposti.

Vorrei chiedervi nuovamente, però, se ritenete sia necessario perdonare questi umanitaristi globalizzatori, proprio i fautori in ombra o alla luce che muovono le leve di questo mondo, non perchè bisogna essere tutti pacifici e un po’ freakkettoni (sarebbe una giustificazione tautologica), ma perchè essi sono accecati. Combatterli, anche con pugno di ferro, ma non odiarli, ovvero non giustificando la propria azione di guerra e repressione/contenimento di un’ingiustizia come se fosse vera e giusta in sè contro altri che sono ingiusti e falsi in sè. Non sarebbe come punire un cieco che sbatte ovunque le sue membra rompendo a destra e a manca, in quanto cieco?

La domanda potrebbe sembrarvi banale, necessitante di un mero sì o no, come risposta. Ma credo che in questo mondo, e anche purtroppo tra i nazional-cattolici o cattoleghisti, ci si comporti spessissimo se non sempre come se si giudicasse e combattesse un nemico totalmente colpevole, punibile e distruttibile in quanto tale. Un atteggiamento del genere non è altrettanto accecante come quello del nemico che si vuole combattere e che crede di avere ragione quando non la ha? Non necessita di un discernimento una riflessione del perdono durante la lotta? (d’altronde, non avete chiuso il forum di EFFEDIEFFE per questo, perchè ormai stracolmo di gente che furoreggiava senza discernimento, e che senza volerlo abbrutiva il forum?)
Insomma: si può, e cosa vorrebbe dire veramente, combattere e perdonare contemporaneamente?

Spero di essere stato chiaro, se non lo sono stato scrivetemi e quando torno a casa mi spiegherò quanto meglio possibile.

Grazie.

Milo»



San Tommaso d’Aquino insegna che bisogna combattere senza odiare - anche se una certa misura d’ira è legittima e necessaria, perchè senza sdegno per l’ingiustizia, anche il giudice non può giudicare bene (e qualità degli ksatrya è il rosso «tamas», l’impetuosa anima che Platone chiamò «irascibile»).

Quel che noi scriviamo sul giornale, documentando le malefatte dei poteri forti, non è inteso a suscitare odio, ma a rivelare ciò che viene nascosto accanitamente dai media; nella convinzione che se la gente «non sa», nemmeno agisce e si mobilita contro il male.

Sì, certi nostri lettori furoreggiano senza discernimento, e fanno cascare le braccia (diciamo le braccia). Quando ho rievocato la difesa dei Cavalieri di Malta contro i turchi, un lettore ha scritto:

«Non avete idea come mi piacerebbe scendere nelle strade in armatura e fare a pezzi un bel po’ di invasori (immigrati). Spero che prima di morire potrò assistere ad una guerra di liberazione EUROPEA!».

Questo è un sentimento ripugnante, meschino ignorante, dunque  non-europeo, e particolarmente vile: il tizio che vorrebbe fare a pezzi gli immigrati, coltiva voglia di sterminio contro deboli, non contro i turchi - che i cavalieri di Malta affrontarono quando erano forti, anzi preponderanti. Questo genere di teppisti dell’odio fanno poi, come sappiamo, dei combattenti vigliacchi e tremebondi, pronti a mettersi al servizio del più forte, sedotti dalla visione della pura violenza. Un sentimento da servi.

Ovviamente, da molti commenti risulta che non si è capito il senso del racconto dei Cavalieri di Malta.

La storia d’Europa ha tre o quattro episodi bellici epocali: la difesa greca contro i persiani (Termopili e Salamina), le guerre contro Annibale, la battaglia di Lepanto (di cui la difesa di Malta è una preparazione), e la difesa di Vienna assediata. Sono stati quattro episodi cruciali per un motivo che dovrebbe essere evidente (ma che non lo è a molti lettori): se avessero vinto gli altri, la civiltà europea non sarebbe esistita. Saremmo persiani, punici, ottomani, musulmani. Il che non è «male assoluto».

I persiani avevano una grande e generosa civiltà, Annibale era un genio militare, nell’impero ottomano vigeva un’ampia tolleranza religiosa, e le identità avevano un posto (gli albanesi stettero sicuramente meglio sotto il «turco» che sotto il loro dittatore Enver Hoxha, e molti dignitari della Porta erano albanesi). Ma per motivi molto profondi, che sarebbe impossibile esaminare qui, in quei momenti cruciali parve ai difensori d’Europa di non poter tollerare d’essere inglobati e integrati in un’altra civiltà; a costo di qualunque sacrificio, si sentì che la civiltà europea non era solo la «casa» di una speciale identità, ma il centro di valori radicali e radicati, senza cui «non si può essere».

La bellezza come misura e la libertà critica greca; il diritto romano e la sua forza integratrice; la cavalleria cristiana; la cristianità già declinante e critica (ma a Vienna, nel 1683, a incitare le truppe fu il cappuccino Marco d’Aviano, confessore dell’imperatore d’Austria, col crocifisso in mano, davanti ai combattenti; ed era stato lui a mettere insieme la lega faticosamente).

Queste battaglie di difesa hanno formato la civiltà europea come tale, ossia questa straordinaria continuità greco-romano-cristiana di tremila anni, ininterrotta nonostante le fratture e i collassi storici. Una continuità continuamente «voluta» e recuperata; si perse la conoscenza del greco, e dunque dei testi di Platone e dei lirici, e la si volle ritrovare; il diritto romano fu perennemente riaffermato nonostante ogni fondamentalismo «religioso» (la guerra dei cent’anni, fra cattolici e luterani); nel momento di perdere tutto, una società tornò ad inginocchiarsi a Maria, e a combattere col Rosario fra le dita.

E’ un bene prezioso, che la voglia di «ammazzare immigrati» sporca e nega. Non siamo più quegli europei, sicchè la prossima volta non ci saranno più trecento spartani, nè i pochi cavalieri a Malta, nè Marco d’Aviano. Ci saranno solo teppisti e tifosi, che fanno pessimi difensori, e soldati vigliacchi.

E’ essenziale combattere senza odio. E’ cristiano, ma prima ancora, è romano: Roma fu la cordiale «chiamata di genti diverse e originariamente ostili a fare qualcosa di grande assieme»; una volta vinti, i nemici erano chiamati ad associarsi all’impresa comune, alle cariche, al governo - e ai doveri romani, insieme alla gloria di Roma.

Il lettore capirà che l’ebraismo è l’esatto contrario di questo: Israele non vuole associare a sè; vuole separare, discriminare, ed è dunque incapace di mantenere la civiltà, oltrechè del tutto estranea alla civiltà europea. L’America in mano agli ebrei, costretta a combattere le guerre degli ebrei, non ha nemmeno provato ad integrare nel suo ordine (comunque sia) iracheni e afghani; li sta ammazzando a caso, da sette anni, esattamente come fanno gli israeliani con i palestinesi; creano instabilità, non si assumono responsabilità verso i vinti e i dominati.

I romani costruirono acquedotti per tutti, e ponti e strade; gli ebrei, hanno riempito la Terra Santa di muri, reticolati, posti di blocco, lager. Per i romani non esistettero «nemici assoluti» (con una sola eccezione, la semitica Cartagine, che fu rasa al suolo e vi fu sparso il sale, perchè nulla rinascesse), ma alleati di domani, e - dopodomani - concittadini.

Il discorso, ormai, è teorico. Non solo perchè in Europa ci sono tifoserie demenziali, servilità ad altri poteri, e loschi interessi «forti». Ma perchè la guerra «giusta» è forse impossibile, data la natura delle armi in gioco, totalmente distruttiva ed auto-distrttiva.

L’uranio impoverito è molto più sterilizzante del sale che Roma sparse sui resti di Cartagine. Lo spargiamo sui nostri stessi soldati, ormai ridotti a mercenari.



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