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La «nuova centrale atomica» iraniana
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I giornalisti ci hanno aggiunto del loro: in non so quale programma RAI, ho sentito affermare che la rivelazione della «centrale atomica segreta» era contenuta in un «laptop» trafugato fuori dall’Iran.

Si tratta del falso di cui abbiamo già parlato, fabbricato dai servizi israeliani, e rigettato dalla AIEA: oltretutto, le informazioni del laptop non riguardavano la supposta centrale atomica segreta, bensì presunti progetti di modificare la testata di un missile Shahab per sistemarci una testata nucleare.

bomba_iran.jpgNon è stato dato rilievo – ovviamente – all’immediata risposta di Ahmadinejad: «Le attività nucleari pacifiche dell’Iran avvengono nel completo rispetto delle norme della AIEA e sotto la sua supervisione», dato che l’Iran ha sottoscritto il trattato di non-proliferazione (NPT). La presunta centrale atomica è in realtà un apparato di arricchimento dell’uranio, e non funziona ancora, essendo ancora in costruzione. Comincerà a funzionare fra 18 mesi. Secondo le norme del Trattato di non-proliferazione, che consente lo sviluppo del nucleare civile, una nazione firmataria ha il dovere di avvertire la AIEA di un nuovo impianto sei mesi prima che cominci a funzionare. Dunque, conclude Ahmadinejad, l’Iran è nella norma. Naturalmente, i capi di Stato occidentali e la stessa AIEA hanno replicato che secondo il Trattato, l’Iran ha l’obbligo di notificare ogni nuovo impianto fin dal momento del progetto.

Con un articolo sul Guardian (1), Scott Ritter dà ragione ad Ahmadinejad. Chi è Scott Ritter, e perchè è credibile?

Scott Ritter è un ufficiale dei Marines, esperto d’intelligence, che è stato capo degli ispettori dell’ONU, ed in questa veste ha ispezionato le fabbriche di armi dell’Iraq di Saddam dal 1991 al 1998. E’ diventato famoso nel 2003, nei giorni in cui l’amministrazione Bush si preparava a invadere l’Iraq con la scusa che aveva segrete «armi di distruzione di massa», perchè affermò pubblicamente che quelle armi di distruzione di massa, in Iraq, semplicemente non esistevano. Scott Ritter fu oggetto di una campagna di stampa frenetica, dettata da Israele e da Washington: si disse persino che aveva ricevuto denaro da Saddam Hussein. Ora sappiamo che aveva ragione lui: in Iraq non c’erano armi di distruzione di massa.

Che cosa dice Scott Ritter? Che la «centrale atomica» testè scoperta presso Qom non è una centrale atomica, ma un impianto di arricchimento dell’uranio, con 3 mila nuove centrifughe in via di installazione. E che a rendere nota alla AIEA l’esistenza di tale impianto è stato lo stesso governo di Teheran, volontariamente; anche se la fabbrica era sotto controllo satellitare da parte dei servizi USA e israeliani «da diverso tempo».

Adesso Obama e gli altri maggiordomi globali dicono che l’Iran ha violato le «regole» dei Trattati NPT. Ora, tali regole sono scritte nero su bianco nell’articolo 42 del «Safeguard Agreement», e Codice 3.1 della «Parte Generale degli Accordi Sussidiari» (detto «protocollo addizionale») del trattato NPT, che definisce i termini con cui l’Iran si è impegnato verso la AIEA. In base a tale protocollo l’Iran è obbligato ad informare la AIEA di ogni decisione di costruire un impianto ospitante centrifughe, anche se non ancora non c’è  nell’impianto materiale nucleare.
Questa informazione dà diritto alla AIEA di cominciare l’accesso e le ispezioni.

Questo protocollo aggiuntivo è stato firmato dall’Iran nel dicembre 2004, spiega Ritter, ma non è stato ancora ratificato dal parlamento iraniano, sicchè non è legalmente cogente. L’Iran tuttavia lo ha applicato come gesto di buona volontà e di «confidence building», intendendolo come una misura volontaria. Nel marzo 2007, viste le chiusure con cui si risponde alle sue aperture, ha smesso di applicare il «protocollo aggiuntivo», ed è tornato ad applicare le norme generali dell’accordo di salvaguardia annesso al NPT, da cui è legalmente obbligato. Questa norma generale obbliga Teheran a notificare alla AIEA un nuovo impianto solo sei mesi prima della introduzione nell’impianto stesso di materiale fissile.

L’impianto di Qom ora «scoperto» non è adatto a creare un’arma nucleare: è un impianto uguale a quello già esistente a Natanz, e ispezionato dalla AIEA, in cui le centrifughe trattano l’esafluoruro di uranio (UF6) per concentrarlo al 5%. Non c’è stata alcuna deviazione clandestina di materiale fissile in questo impianto, ossia sottratto alle ispezioni AIEA; per il semplice fatto che l’impianto è ancora in costruzione e non sarà operativo che fra 18 mesi.

Ma anche ammettendo i peggiori sospetti – ossia che lì gli iraniani volessero segretamente arricchire l’UF6 al 5% per portarlo al 90% necessario per una bomba (il che, con sole 3 mila centrufughe, richiederebbe mesi ed anni) – in ogni caso la auto-dichiarazione di Teheran vanifica il sospetto: perchè adesso la AIEA pretenderà di ispezionare quell’impianto, e lo stesso Ahmadinejad ha dato il consenso alle nuove ispezioni.

«This site will be under the supervision of the IAEA and will have a maximum of five percent (uranium) enrichment capacity», ha dichiarato il ministro iraniano dell’Energia Ali Akbar Salehi alla TV iraniana (2).

Naturalmente, se si vuole, si può mantenere vivo il sospetto perchè il nuovo impianto è all’interno di una base militare, e perchè è una duplicazione (minore) dell’impianto di Natanz.

Perchè c’è stata questa duplicazione?

La risposta di Scott Ritter è: probabilmente, per fornirsi di una «profondità strategica» e far sopravvivere il programma nucleare, nel caso di un bombardamento israeliano. L’impianto è stato progettato in piena era Bush, quando le minacce di bombardamento preventivo erano quotidiane, ed appoggiate da Washington (Dick Cheney premeva per la «soluzione finale»); adesso, il regime iraniano ne rivela l’esistenza, come risposta all’atteggiamento più conciliante di Obama. Insomma, ha mandato un messaggio di conciliazione, e ha compiuto un atto di trasparenza, sperando in una risposta positiva della nuova amministrazione.

Teheran sta dicendo: nel nuovo clima politico, non abbiamo più bisogno di tali duplicazioni.

Il problema dunque qui non è Teheran; è la risposta di Obama (e del cosiddetto «Occidente») ad una tale evidente buona volontà. Invece di cogliere la palla al balzo, Obama si è rimangiato tutte le sue vaghe aperture, ed ha minacciato sanzioni ancora più «paralizzanti» o schiaccianti (crippling, dal verbo «storpiare). Ha fatto dichiarazioni gravissime, che implicano rottura e una sorta di punto di non-ritorno verso la guerra preventiva, del tipo:

«Adesso il governo iraniano deve dimostrare con gli atti le sue intenzioni pacifiche, o essere chiamato a rendere conto in base alle norme internazionali».

Ma che altro deve fare Teheran? Ha già rivelato le sue intenzioni pacifiche, e precisamente con l’atto di notificare di sua iniziativa l’esistenza dell’impianto - ancora non funzionante - di Qom.

Ora, questa dichiarazione appare la replica della triste favola di Fedro sul lupo che accusò l’agnello di intorbidargli l’acqua: «Superior stabat lupus, inferior agnus». E non è nemmeno il caso di ricordare che dovrebbe essere piuttosto Obama, che sta continuando le guerre di Bush in Iraq, Afghanistan e Pakistan, a «dimostrare con gli atti le sue pacifiche intenzioni» o essere chiamato a rendere conto.

Qui, il problema è ancora più grave: Obama è costretto a replicare alle aperture di Teheran con minacce che sembrano il preludio ad una intensificazione delle ostilità, o addirittura aprono la via all’aggressione preventiva israeliana.

Si è dovuto rimangiare le sue frasi conciliatorie. Che cosa lo ha obbligato?

La risposta è chiara: la ben nota lobby. L’intero partito democratico nota con terrore che i finanziamenti elettorali sono diventati esigui, e che i maggiori donatori privati hanno voltato le spalle: segnale concreto della soddisfazione della lobby. I senatori e i parlamentari democratici, allarmatissimi, temono di non vincere le elezioni parlamentari del 2010; lo stesso Obama è a rischio di diventare uno dei pochi presidenti non riconfermati per il secondo mandato nel 2012 (3). La pressione dei politicanti che temono per il seggio, e sullo stesso presidente, è evidentemente «crippling», ossia schiacciante e paralizzante.

E’ possibile che l’amministrazione Obama «non possa permettersi» la politica annunciata da Obama verso Teheran e verso il mondo islamico in genere; e che, per salvare il suo mandato, il neo-presidente sia costretto ad ordinare l’attacco, o a lasciar attaccare da Israele, le installazioni iraniane.

E’ questa la vera tragedia. Che la superpotenza  sia ostaggio della lobby, e non riesca a cambiare politica, perchè Israele non vuole. Che per salvare se stesso, Obama possa davvero dare l’ordine di un attacco che il presidente Medvedev ha paventato pochi giorni fa, dicendo che «provocherebbe soltanto una nuova catastrofe umanitaria»: la voce stessa del buon senso e dell’umanità, inascoltata. E che i media occidentali incitino misure estreme contro l’Iran, sotto dettatura israeliana, da irresponsabili (4).

Anche la Russia, del resto, ha votato con tutti gli altri membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU la proposta Obama, che ha impegnato (a parole) le cinque potenze nucleari a «creare un mondo libero da armi atomiche», senza invitare Israele a partecipare al disarmo. Solo una settimana prima, gli USA hanno posto il veto ad una risoluzione ONU che invitava Israele a firmare il Trattato di non-proliferazione.

Se l’utopico sogno di un disarmo atomico globale si realizzasse, il risultato sarebbe questo: che solo Israele potrebbe, nel mondo, tenersi le sue 300 testate.

Netanyahu – che preme su Obama ed ha telefonato a Nancy Pelosi e a parecchi senatori democratici (5) perchè l’America attacchi immediatamente l’Iran, dopo la scoperta della «centrale segreta» («Se non ora, quando?») – ha dichiarato che il mondo non può sopportare «un regime folle, di fanatici religiosi, armato di bombe nucleari».

Per una volta, occorre dargli ragione: quel regime è Israele. Teheran, le bombe, non le ha ancora.

Maurizio Blondet


(articolo pubblicato il 27 settembre 2009)



1) Scott Ritter, «Keeping Iran honest», Guardian, 25 settembre 2009.
2) Jay Deshmuck, «Iran to put new uranium plant under IAEA supervision», AFP, 26 settembre 2009.
3) Il vicepresidente Joe Biden sta compiendo in questi giorni una disperata tournée per raccogliere fondi in vista delle elezioni del 2010. Ha ammesso che i repubblicani possono riguadagnare 35 seggi alla camere bassa: se accade, ha detto, «è la fine per i programmi che Obama sta cercando di portare avanti». Anche il commentatore William Pfaff ha scritto che, con la sua insistenza sul congelamento degli insediamenti in Cisgiordania, Obama rischia la sconfitta del partito democratico nel 2010, e la sua rielezione nel 2012. Nel suo ultimo scontro con Obama, Netanyahu gli ha reso noto che l’occupazione della Cisgiordania è volontà di Dio, e «la volontà di Dio non è negoziabile per Israele». Vedere «The Consequences of the Palestinian-Israel Status Quo», Antiwar 26 settembre 2009.
4) Fra  i nostri commentatori fanatici si distingue VittorioEmanuele Parsi su La Stampa del 26 settembre, con un articolo che ricalca pedissequamente la propaganda israeliana. La «scoperta» della centrale atomica iraniana, dice, «suona come una sfida beffarda non solo alle Nazioni Unite che avevano più volte esplicitamente vietato all’Iran di proseguire il proprio programma di arricchimento dell’uranio. Ma anche al nuovo corso ostentatamente intrapreso dal presidente americano fin dal suo esordio. Ma la cosa ben più sorprendente è che il presidente sarebbe stato informato dai suoi servizi di intelligence e, addirittura, dal suo predecessore Gorge W. Bush dell’esistenza di questa centrale segreta. Se così fosse, paradossalmente, la vera notizia non sarebbe più la scoperta della centrale clandestina, ma quella dell’occultamento della scoperta e del motivo e della tempistica della rivelazione. Tutta la dinamica degli eventi sembra quantomeno indicare che la Casa Bianca possa essere inciampata in una mano davvero malgiocata nel poker nucleare con l’Iran». La conclusione di Parsi: bisogna bombardare.
5) Un lettore commenta a questo proposito: «Ma ce l’immaginiamo un altro capo di governo (Berlusconi, magari) che telefona a parlamentari americani per convincerli a votare una legge che interessa a lui?».



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