La «nuova centrale atomica» iraniana
06 Ottobre 2009
I giornalisti ci hanno aggiunto del loro: in non so quale programma
RAI, ho sentito affermare che la rivelazione della «centrale atomica
segreta» era contenuta in un «laptop» trafugato fuori dall’Iran.
Si tratta del falso di cui abbiamo già parlato, fabbricato dai servizi
israeliani, e rigettato dalla AIEA: oltretutto, le informazioni del
laptop non riguardavano la supposta centrale atomica segreta, bensì
presunti progetti di modificare la testata di un missile Shahab per
sistemarci una testata nucleare.
Non
è stato dato rilievo – ovviamente – all’immediata risposta di
Ahmadinejad: «Le attività nucleari pacifiche dell’Iran avvengono nel
completo rispetto delle norme della AIEA e sotto la sua supervisione»,
dato che l’Iran ha sottoscritto il trattato di non-proliferazione
(NPT). La presunta centrale atomica è in realtà un apparato di
arricchimento dell’uranio, e non funziona ancora, essendo ancora in
costruzione. Comincerà a funzionare fra 18 mesi. Secondo le norme del
Trattato di non-proliferazione, che consente lo sviluppo del nucleare
civile, una nazione firmataria ha il dovere di avvertire la AIEA di un
nuovo impianto sei mesi prima che cominci a funzionare. Dunque,
conclude Ahmadinejad, l’Iran è nella norma. Naturalmente, i capi di
Stato occidentali e la stessa AIEA hanno replicato che secondo il
Trattato, l’Iran ha l’obbligo di notificare ogni nuovo impianto fin dal
momento del progetto.
Con un articolo sul Guardian
(1), Scott Ritter dà ragione ad Ahmadinejad. Chi è Scott Ritter, e perchè è credibile?
Scott Ritter è un ufficiale dei Marines, esperto d’intelligence, che è
stato capo degli ispettori dell’ONU, ed in questa veste ha ispezionato
le fabbriche di armi dell’Iraq di Saddam dal 1991 al 1998. E’ diventato
famoso nel 2003, nei giorni in cui l’amministrazione Bush si preparava
a invadere l’Iraq con la scusa che aveva segrete «armi di distruzione
di massa», perchè affermò pubblicamente che quelle armi di distruzione
di massa, in Iraq, semplicemente non esistevano. Scott Ritter fu
oggetto di una campagna di stampa frenetica, dettata da Israele e da
Washington: si disse persino che aveva ricevuto denaro da Saddam
Hussein. Ora sappiamo che aveva ragione lui: in Iraq non c’erano armi
di distruzione di massa.
Che cosa dice Scott Ritter? Che la «centrale atomica» testè scoperta
presso Qom non è una centrale atomica, ma un impianto di arricchimento
dell’uranio, con 3 mila nuove centrifughe in via di installazione. E
che a rendere nota alla AIEA l’esistenza di tale impianto è stato lo
stesso governo di Teheran, volontariamente; anche se la fabbrica era
sotto controllo satellitare da parte dei servizi USA e israeliani «da
diverso tempo».
Adesso Obama e gli altri maggiordomi globali dicono che l’Iran ha
violato le «regole» dei Trattati NPT. Ora, tali regole sono scritte
nero su bianco nell’articolo 42 del «Safeguard Agreement», e Codice 3.1
della «Parte Generale degli Accordi Sussidiari» (detto «protocollo
addizionale») del trattato NPT, che definisce i termini con cui l’Iran
si è impegnato verso la AIEA. In base a tale protocollo l’Iran è
obbligato ad informare la AIEA di ogni decisione di costruire un
impianto ospitante centrifughe, anche se non ancora non c’è
nell’impianto materiale nucleare.
Questa informazione dà diritto alla AIEA di cominciare l’accesso e le ispezioni.
Questo protocollo aggiuntivo è stato firmato dall’Iran nel dicembre
2004, spiega Ritter, ma non è stato ancora ratificato dal parlamento
iraniano, sicchè non è legalmente cogente. L’Iran tuttavia lo ha
applicato come gesto di buona volontà e di «confidence building»,
intendendolo come una misura volontaria. Nel marzo 2007, viste le
chiusure con cui si risponde alle sue aperture, ha smesso di applicare
il «protocollo aggiuntivo», ed è tornato ad applicare le norme generali
dell’accordo di salvaguardia annesso al NPT, da cui è legalmente
obbligato. Questa norma generale obbliga Teheran a notificare alla AIEA
un nuovo impianto solo sei mesi prima della introduzione nell’impianto
stesso di materiale fissile.
L’impianto di Qom ora «scoperto» non è adatto a creare un’arma
nucleare: è un impianto uguale a quello già esistente a Natanz, e
ispezionato dalla AIEA, in cui le centrifughe trattano l’esafluoruro di
uranio (UF6) per concentrarlo al 5%. Non c’è stata alcuna deviazione
clandestina di materiale fissile in questo impianto, ossia sottratto
alle ispezioni AIEA; per il semplice fatto che l’impianto è ancora in
costruzione e non sarà operativo che fra 18 mesi.
Ma anche ammettendo i peggiori sospetti – ossia che lì gli iraniani
volessero segretamente arricchire l’UF6 al 5% per portarlo al 90%
necessario per una bomba (il che, con sole 3 mila centrufughe,
richiederebbe mesi ed anni) – in ogni caso la auto-dichiarazione di
Teheran vanifica il sospetto: perchè adesso la AIEA pretenderà di
ispezionare quell’impianto, e lo stesso Ahmadinejad ha dato il consenso
alle nuove ispezioni.
«This site will be under the supervision of the IAEA and will have a
maximum of five percent (uranium) enrichment capacity», ha dichiarato
il ministro iraniano dell’Energia Ali Akbar Salehi alla TV iraniana
(2).
Naturalmente, se si vuole, si può mantenere vivo il sospetto perchè il
nuovo impianto è all’interno di una base militare, e perchè è una
duplicazione (minore) dell’impianto di Natanz.
Perchè c’è stata questa duplicazione?
La risposta di Scott Ritter è: probabilmente, per fornirsi di una
«profondità strategica» e far sopravvivere il programma nucleare, nel
caso di un bombardamento israeliano. L’impianto è stato progettato in
piena era Bush, quando le minacce di bombardamento preventivo erano
quotidiane, ed appoggiate da Washington (Dick Cheney premeva per la
«soluzione finale»); adesso, il regime iraniano ne rivela l’esistenza,
come risposta all’atteggiamento più conciliante di Obama. Insomma, ha
mandato un messaggio di conciliazione, e ha compiuto un atto di
trasparenza, sperando in una risposta positiva della nuova
amministrazione.
Teheran sta dicendo: nel nuovo clima politico, non abbiamo più bisogno di tali duplicazioni.
Il problema dunque qui non è Teheran; è la risposta di Obama (e del
cosiddetto «Occidente») ad una tale evidente buona volontà. Invece di
cogliere la palla al balzo, Obama si è rimangiato tutte le sue vaghe
aperture, ed ha minacciato sanzioni ancora più «paralizzanti» o
schiaccianti (crippling, dal verbo «storpiare). Ha fatto dichiarazioni
gravissime, che implicano rottura e una sorta di punto di non-ritorno
verso la guerra preventiva, del tipo:
«Adesso il governo iraniano deve dimostrare con gli atti le sue
intenzioni pacifiche, o essere chiamato a rendere conto in base alle
norme internazionali».
Ma che altro deve fare Teheran? Ha già rivelato le sue intenzioni
pacifiche, e precisamente con l’atto di notificare di sua iniziativa
l’esistenza dell’impianto - ancora non funzionante - di Qom.
Ora, questa dichiarazione appare la replica della triste favola di
Fedro sul lupo che accusò l’agnello di intorbidargli l’acqua: «Superior
stabat lupus, inferior agnus». E non è nemmeno il caso di ricordare che
dovrebbe essere piuttosto Obama, che sta continuando le guerre di Bush
in Iraq, Afghanistan e Pakistan, a «dimostrare con gli atti le sue
pacifiche intenzioni» o essere chiamato a rendere conto.
Qui, il problema è ancora più grave: Obama è costretto a replicare alle
aperture di Teheran con minacce che sembrano il preludio ad una
intensificazione delle ostilità, o addirittura aprono la via
all’aggressione preventiva israeliana.
Si è dovuto rimangiare le sue frasi conciliatorie. Che cosa lo ha obbligato?
La risposta è chiara: la ben nota lobby. L’intero partito democratico
nota con terrore che i finanziamenti elettorali sono diventati esigui,
e che i maggiori donatori privati hanno voltato le spalle: segnale
concreto della soddisfazione della lobby. I senatori e i parlamentari
democratici, allarmatissimi, temono di non vincere le elezioni
parlamentari del 2010; lo stesso Obama è a rischio di diventare uno dei
pochi presidenti non riconfermati per il secondo mandato nel 2012
(3).
La pressione dei politicanti che temono per il seggio, e sullo stesso
presidente, è evidentemente «crippling», ossia schiacciante e
paralizzante.
E’ possibile che l’amministrazione Obama «non possa permettersi» la
politica annunciata da Obama verso Teheran e verso il mondo islamico in
genere; e che, per salvare il suo mandato, il neo-presidente sia
costretto ad ordinare l’attacco, o a lasciar attaccare da Israele, le
installazioni iraniane.
E’ questa la vera tragedia. Che la superpotenza sia ostaggio della
lobby, e non riesca a cambiare politica, perchè Israele non vuole. Che
per salvare se stesso, Obama possa davvero dare l’ordine di un attacco
che il presidente Medvedev ha paventato pochi giorni fa, dicendo che
«provocherebbe soltanto una nuova catastrofe umanitaria»: la voce
stessa del buon senso e dell’umanità, inascoltata. E che i media
occidentali incitino misure estreme contro l’Iran, sotto dettatura
israeliana, da irresponsabili
(4).
Anche la Russia, del resto, ha votato con tutti gli altri membri del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU la proposta Obama, che ha impegnato (a
parole) le cinque potenze nucleari a «creare un mondo libero da armi
atomiche», senza invitare Israele a partecipare al disarmo. Solo una
settimana prima, gli USA hanno posto il veto ad una risoluzione ONU che
invitava Israele a firmare il Trattato di non-proliferazione.
Se l’utopico sogno di un disarmo atomico globale si realizzasse, il
risultato sarebbe questo: che solo Israele potrebbe, nel mondo, tenersi
le sue 300 testate.
Netanyahu – che preme su Obama ed ha telefonato a Nancy Pelosi e a parecchi senatori democratici
(5)
perchè l’America attacchi immediatamente l’Iran, dopo la scoperta della
«centrale segreta» («Se non ora, quando?») – ha dichiarato che il mondo
non può sopportare «un regime folle, di fanatici religiosi, armato di
bombe nucleari».
Per una volta, occorre dargli ragione: quel regime è Israele. Teheran, le bombe, non le ha ancora.
Maurizio Blondet
(articolo pubblicato il 27 settembre 2009)
1) Scott Ritter, «Keeping Iran honest», Guardian, 25 settembre 2009.
2) Jay Deshmuck, «Iran to put new uranium plant under IAEA supervision», AFP, 26 settembre 2009.
3) Il
vicepresidente Joe Biden sta compiendo in questi giorni una disperata
tournée per raccogliere fondi in vista delle elezioni del 2010. Ha
ammesso che i repubblicani possono riguadagnare 35 seggi alla camere
bassa: se accade, ha detto, «è la fine per i programmi che Obama sta
cercando di portare avanti». Anche il commentatore William Pfaff ha
scritto che, con la sua insistenza sul congelamento degli insediamenti
in Cisgiordania, Obama rischia la sconfitta del partito democratico nel
2010, e la sua rielezione nel 2012. Nel suo ultimo scontro con Obama,
Netanyahu gli ha reso noto che l’occupazione della Cisgiordania è
volontà di Dio, e «la volontà di Dio non è negoziabile per Israele».
Vedere «The Consequences of the Palestinian-Israel Status Quo», Antiwar
26 settembre 2009.
4) Fra i nostri
commentatori fanatici si distingue VittorioEmanuele Parsi su La Stampa
del 26 settembre, con un articolo che ricalca pedissequamente la
propaganda israeliana. La «scoperta» della centrale atomica iraniana,
dice, «suona come una sfida beffarda non solo alle Nazioni Unite che
avevano più volte esplicitamente vietato all’Iran di proseguire il
proprio programma di arricchimento dell’uranio. Ma anche al nuovo corso
ostentatamente intrapreso dal presidente americano fin dal suo esordio.
Ma la cosa ben più sorprendente è che il presidente sarebbe stato
informato dai suoi servizi di intelligence e, addirittura, dal suo
predecessore Gorge W. Bush dell’esistenza di questa centrale segreta.
Se così fosse, paradossalmente, la vera notizia non sarebbe più la
scoperta della centrale clandestina, ma quella dell’occultamento della
scoperta e del motivo e della tempistica della rivelazione. Tutta la
dinamica degli eventi sembra quantomeno indicare che la Casa Bianca
possa essere inciampata in una mano davvero malgiocata nel poker
nucleare con l’Iran». La conclusione di Parsi: bisogna bombardare.
5) Un lettore
commenta a questo proposito: «Ma ce l’immaginiamo un altro capo di
governo (Berlusconi, magari) che telefona a parlamentari americani per
convincerli a votare una legge che interessa a lui?».
|
La
casa editrice EFFEDIEFFE, diffida dal riportare attraverso attività di spamming e mailing
su altri siti, blog, forum i
suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il
copyright ed i diritti d’autore. |
|
Home >
Free Back to top
Nessun commento per questo articolo
Aggiungi commento