Africani, i reietti della nuova Libia
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Caccia agli immigrati africani voluti da Gheddafi: donne stuprate, fame, razzismo e abusi

SAYAD
(Libia)
- «Cinque giorni fa sono stata violentata. Per mezz’ora, contro una barca. Da due uomini armati di mitra. Si davano il cambio. Prima si sono messi il preservativo. Poi mi hanno spinto al riparo delle imbarcazioni da pesca sulla banchina e costretta ad aprire le gambe con le braccia in alto, le mani appoggiate alla fiancata. Mi hanno presa da dietro. Non faceva troppo male. Ma li ho odiati. Mi sono sentita sporca, umiliata, abusata. Non potevo fare nulla, solo subire e piangere». Parla quasi con un sussurro Cinzia Swizzy, vent’anni, nigeriana, immigrata a Tripoli nel 2009. Sino a due mesi fa lavorava come aiuto-estetista nel cuore della citta’ vecchia. Ma la guerra ha sconvolto la sua esistenza, come quella di altre centinaia di migliaia (forse oltre un milione) di africani ai quali la politica delle «porte aperte» al continente sub-sahariano voluta da Muammar Gheddafi aveva permesso di venire in Libia.

BRACCATI - Da ospiti di riguardo, occasionalmente utilizzati dalla dittatura come «carne da cannone» per ricattare l’Italia e l’Europa sul rischio immigrazione illegale, a massa di diseredati, braccati dalle forze della rivoluzione, che al peggio li considera mercenari pagati dal Colonnello per reprimere le opposizioni, e al meglio come presenze sgradite, da espellere il prima possibile. Cinzia e’ una di loro. Ma particolarmente debole. Ha l’aria da ragazzina, molto fragile nel suo vestitino a fiori strappato che le arriva alle ginocchia, lasciandole scoperte le gambe magre, segnate da graffi freschi. Accetta di parlare solo dopo lunghe insistenze. Rivela il nome. Ma non vuole assolutamente essere fotografata. «Quella sera siamo state violentate in cinque. Ci hanno prese a caso, tra i gruppi di rifugiati che bivaccano qui tra i barconi da pesca tirati in secco. Io parlo con un giornalista solo perché magari potrà servire che vengano fermate le violenze contro le donne africane in Libia», dice seduta su di una stuoia. Attorno la ascoltano appena. Sono talmente abituati agli abusi, che un racconto in più non fa impressione. Colpisce molto di più che la ragazza parli con un occidentale. «Queste cose vanno tenute tra noi», osserva rabbioso un marcantonio con un bastone in mano. Ma poi si allontana.

La paura è di essere scambiati per mercenari del Colonnello ed essere uccisi (Reuters)
La paura è di essere scambiati per mercenari del Colonnello ed essere uccisi (Reuters)
MIRAGGIO EUROPA - L’abbiamo incontrata nel campo profughi di fortuna a Sayad, una trentina di chilometri a ovest della capitale. Una volta era noto come centro di addestramento del terrorismo internazionale. Secondo il piccolo contingente di ribelli armati, che ora monta di guardia ai cancelli sfondati, qui ci venivano i palestinesi di Fatah negli anni Settanta, i militanti dell’Ira, dell’Eta, Abu Nidal, gli estremisti islamici filippini legati ad Abu Sayaf, persino le Brigate Rosse e quelli della Baader Meinhof. Nel 1986 la base venne bombardata dagli americani, che colpirono tra l’altro anche le casematte del vecchio fortino italiano costruito negli anni Trenta. Da allora e’ diventata il punto di partenza piu’ importante delle «carrette del mare» che portano i clandestini verso Lampedusa. Da circa un mese e mezzo proprio tra le imbarcazioni arrugginite sono raggruppati un migliaio di africani. Quasi tutti si sono liberati dei passaporti. «Non vogliamo tornare a casa. Mandateci in Europa», recitano in coro. Tutti giovani o giovanissimi, arrivati da Sudan, Nigeria, Mali, Ciad, Costa d’Avorio, Togo, Camerun. Il campo non ha un vero ordine. In generale gli anglofoni stanno da una parte e i francofoni dall’altra.

NOTTI DI PAURA - Tutti ovviamente negano di essere mai stati mercenari di Gheddafi. Anche se un paio di ragazzi del Camerun ammettono che «purtroppo qualche soldato africano volontario nell’esercito del Colonello potrebbe nascondersi tra noi». Per lo piu’ si dicono vittime del «razzismo antiafricano delle nuove forze che comandano in Libia». Mancano di tutto. Per una settimana si sono ridotti a bere acqua di mare e mangiare un intruglio di farina sporca, olio di semi ed erbe raccolte nei prati e cotto su fuochi all’aperto. Ogni tanto gli attivisti di Medecins Sans Frontieres portano camion carichi di bottiglie d’acqua e si scatena il finimondo. La notte per loro e’ un incubo che si consuma nella paura in attesa dell’alba. «Ci riuniamo in piccoli gruppi. Le donne in mezzo per difenderle dai ribelli libici che ci vorrebbero violentare - racconta ancora Cinzia -. Aspettiamo. Ma non sappiamo bene cosa. Non credo ci sia piu’ posto per noi nella nuova Libia del dopo Gheddafi. Io vorrei scappare, partire, sparire».

Fonte >  Corriere.it


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