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Quando tutto cominciò
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Da molti anni pittore di corte e ritrattista su commissione dell’aristocrazia, ancorché aderente all’ideologia illuminista che era quasi un luogo comune del suo ambiente «progressista», Francisco Goya viene colto dalla misteriosa malattia, di cui sappiamo quasi nulla; una crisi gravissima, che lo lascia sordo e sconvolto. Vediamo però che da quel momento la sua espressione artistica è stravolta: esprime qualcosa che nessun committente gli avrebbe mai commissionato; incubi, succubi, pazzi, sabba, volti umani in cui traluce la bestialità. «È un mondo dell’orrido divenuto immanente, connaturato al mondo; si è insediato nell’uomo stesso». Così Hans Sedlmayr in La Perdita del Centro, l’insuperato saggio che analizza la storia dell’arte come «sintomo».

È qualcosa che avviene in precisa relazione con la Rivoluzione francese. Parigi riempie l’Europa di speranze nervose e frementi. Personalità diverse e lontanissime come Goya a Madrid e Kant a Koenigsberg, alla notizia che i parigini hanno espugnato la Bastiglia nel luglio 1789, sentono che «è il primo atto di una nuova epoca», che «il popolo di tutta Europa si sta svegliando». Goya cade malato, e comincia a dipingere i suoi «sogni» e «capricci», nel 1792: a Parigi è instaurato il Terrore, giungono le notizie dei massacri e dei ghigliottinati a catena. È quel 1792, in cui, dice Sedlmayr, «molti artisti vengono posseduti da forze demoniache. Lo scultore X. Messerschmidt, spinto da un impulso interiore, atteggia sempre i suoi volti a una smorfia; nell’arte, spesso gelida, di Fuessli sono innegabili gli elementi di una autentica allucinazione; in quell’epoca J. Flaxman ha la visione del volto del diavolo che lui, non so perché, ha chiamato “lo spirito della pulce”, the ghost of the flea... E come se nell’uomo si sia aperta una porta verso il mondo degli inferi e come se questo mondo minacciasse con la sua follia coloro» che, come sono gli artisti, rabdomanti dell’umanità, «hanno visto troppo di quanto esiste in esso».

Messerschmidt può essere stato un rabdomante molto precoce, è scomparso nel 1783. Scultore magistrale, germanico-viennese, pareva avviato ad un solido meritato successo come artista di corte: nel 1763 aveva scolpito la coppia imperiale su commissione di Maria Teresa. Dagli anni ’70, non riesce a scolpire se non questi suoi autoritratti:

Non si tratta affatto di scherzi, né di volontaria parodia. Esprimono una vera sofferenza. Messerschmidt li scolpì – con l’evidente sua magistrale capacità – attribuendo loro un valore scientifico: voleva lasciare questi documenti a futuri ricercatori che sarebbero stati in grado, sperava, di diagnosticare la sua strana e specifica malattia. È importante aggiungere che egli fu obbligato a produrre questo materiale, non era una sua produzione volontaria della sua soggettività; nel 1774 si candidò ad un importante posto di professore, che s’era liberato all’Accademia di Belle Arti di Vienna – posto quanto mai ufficiale, devoto al neoclassicismo imperiale – e ne fu respinto proprio a causa di queste sculture. Il potente Ministro conte Kaunitz, pur generoso mecenate e protettore di artisti, giudicò che la «confusione nella testa» dell’artista avrebbe danneggiato l’imperiale istituzione.

Le diagnosi di follia ovviamente non mancano, anzi vengono da sé. Temo, però, che esse vengano moltiplicate per tranquillizzare noi stessi, mantenendoci sul piano della patologia mentale, deviazione sessuale repressa o addirittura organica (si è parlato di malattia di Crohn, un disturbo intestinale...). Forse ci conviene attribuire a pazzia la spiegazione che lo stesso Messerschmidt, invece, diede all’amico che lo visitò nel 1783: con la sua arte, disse, aveva suscitato l’ira dello Spirito della Proporzione. Questo Spirito (del classicismo?) lo «spaventava e torturava la notte» facendogli subire umilianti sodomizzazioni. Ciò che Messerschmidt diagnostica in sé non è una malattia, è una colpa.

Fuessli, svizzero che operò a Londra (dove morì nel 1825), è già fin troppo noto ed apprezzato – non a caso – dal pubblico d’oggi, per il suo Incubo (1781).

Una giovane donna dalle forme seducenti dorme, ma inquieta: un essere mostruoso e comico venuto dalle tenebre circostanti le grava sul petto, una cavalla dagli occhi di brace – mezzo di trasporto per l’inferno – la spia da quella tenebra. La fanciulla sogna sogni torbidi, proibiti.

 

È interessante ricordare il rapporto che Fuessli ebbe con lo «spirito della proporzione», se con ciò si alluda al classico: l’arte antica, il monumentale olimpico fu per lui il sublime olimpico. Però irraggiungibile; «un universo irrimediabilmente perduto». È l’«artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche», membro di un’umanità ormai troppo piccola, che non può che piangere sull’incommensurabile differenza.



L’anziano amico Benjamin Robert Hayden ha testimoniato che nel suo studio londinese, Fuessli aveva dipinto una popolazione di «demoni, streghe che fabbricano incantesimi, Satana che vola sul caos circondato dal fuoco, grandi peccatori, terrore e sangue». Qualcosa di simile, in coincidenza impressionante, alle «pitture nere» di cui Goya riempirà freneticamente le pareti della sua casetta di campagna, la Quinta del Sordo, nel 1820. L’evocazione del corpo umano classico, frequente in Fuessli, è regolarmente insidiata da qualcosa che la classicità ignorava, il demoniaco – identificato, si intuisce, con la concupiscenza. Ormai è impossibile gettare sui nudi lo sguardo olimpico.



Caspar David Fridedrich (1744-1840) non era ancora ventenne nel ’92 del Terrore robespierriano. A buon diritto ha il suo posto in questa galleria di rabdomanti dell’anima collettiva, perché ci ha portato un altro elemento che l’arte classica aveva tenuto fuori dalle sue possibilità espressive: la natura cieca e schiacciante la fragilità vivente. «Per la prima volta viene rappresentata la mortale rigidità del mondo dei ghiacci», scrive Sedlmayr.



«La nave sepolta da masse di ghiaccio in una disperante solitudine è (...) un possente simbolo dell’uomo abbandonato». Per essere più chiaro, Fuessli rende possibile leggere il nome della nave che viene stritolata dai ghiacci insensati dell’Artico: «Speranza».

John Flaxman, inglese, era a Roma quando scoppiò la Rivoluzione e vi rimase durante l’intero suo corso. Completamente inteso a scoprire la perfezione del classico, verso il 1792 tratta temi classici (illustrazioni per l’Iliade, l’Odissea) rinunciando del tutto alla pittura e all’elemento plastico: con lui «compare per la prima volta il disegno lineare, puro disegno in cui la linea ha la funzione di disegnare i contorni, e non di modellare».



È il monocromo che allora si attribuiva alle sculture greche erroneamente, ma è in sé un sintomo: la pittura a linea «ha al tempo stesso qualcosa di arcaicizzante e immaterialmente spettrale, e non è un mero caso che essi sia adatta specialmente a rappresentare il mondo degli spettri, un mondo freddamente trascendentale»: è il classico dei «neoclassicismo», sentito come regno dei morti e delle ombre. Non a caso la scultura neoclassica, gessosa, s’è destinata da sé a monumenti funerari, e ne ha riempito i cimiteri nell’età del Liberty.

Tuttavia non fu Flaxman, come scrive per sbaglio Sedlmayr, ad aver avuto la visione dello Spirito della Pulce. È stato il suo amico-nemico William Blake (1757-1827). Questo pittore, teosofo, misterioso, simpatizzò per la Rivoluzione e fu aedo (ai suoi tempi) del «free love». Ostile alla Chiesa, scrisse: « Come il bruco sceglie le foglie migliori per deporvi le uova, così il prete lancia i suoi anatemi contro le gioie più grandi». Scrisse anche: «Le prigioni sono costruite con le pietre della legge, i bordelli con i mattoni della religione», manifesto in nuce di ogni futuro libertarismo radical-progressista: l’utopia della libertà senza leggi (senza Stato) e del diritto alla felicità (sessuale).

Blake raccontò a vari amici, in diverse circostanze, dell’essere «dalla lingua rapida dardeggiante fuori dalle bocca, con la pelle a scaglie d’oro e di verde» che gli era apparso. Il suo biografo Alexander Gilchrist riporta che verso il 1790, «Blake, la sola volta nella vita, vide uno spirito... stando una sera alla porta del suo giardino a Lambeth e guardando per caso in alto, vide una cupa orribile figura, squamosa, maculata, assolutamente spaventosa, che scendeva dalle scale per braccarlo. Spaventato quanto mai fu né prima né dopo, scappò a gambe levate dalla casa».

Dell’apparizione, Blake fece uno schizzo a caldo, cercando anche di coglierne la dentatura che la creatura mostrò per un attimo.


Più volte tornò a fare di questo tema il soggetto delle sue pitture fino alla celebre immagine, datata verso il 1820.


L’essere ha in mano una coppa piena di sangue umano, da cui beve: da qui s’intende sia lo Spirito della Pulce. Fatto notevole, Blake lo volle dipingere su mogano, con inserti di foglia d’oro: segno che dell’orribile visitatore si compiacque.

Nello stesso 1820 Francisco Goya ebbe una ricaduta della sua malattia; ricaduta tremenda, da cui il medico amico Arrieta lo trasse come dal pozzo della morte. Ripresosi, riempì le pareti di casa delle pitture nere, fra cui il Saturno spaventoso che mangia il cadavere sanguinante. Immagine di primordialità totale, anteriore a qualunque civiltà prima di ogni dio. Lo stesso Saturno è terrorizzato di quel che mangia, colto da una fame incoercibile e infinita.

A quel tempo Goya – non un intellettuale – aveva visto l’esito omicida delle sue vacue speranze progressiste. L’armata napoleonica aveva nel 1808 invaso la Spagna; la truppa giacobina aveva suscitato la reazione del popolo cattolico, che la logorava con una resistenza popolare molecolare, onnipresente: guerra partigiana. Napoleone aveva decretato la nuova strategia: «Envers les partisans, on se bat à la partisane»: ossia senza leggi, terrorizzando, torturando.

Quando incide febbrilmente i suoi Desastres de la Guerra, Goya documenta – diremmo oggi – i crimini di guerra dall’armata francese:



Corpi nudi, mutilati ed oscenamente appesi agli alberi come monito, impiccati, soldati che spaccano un cadavere con le spade,


e decine di civili uccisi con la garrota per il possesso di un coltello (para una navaja), cadaveri a cui s’è messa beffardamente una croce nelle mani cadaveriche.

Un orrore che supera enormemente tutte le fantasie, sogni ed incubi che in passato hanno fatto irruzione nei sonni della ragione in Goya. Qualcosa che l’Europa non ha mai conosciuto prima nemmeno nei suoi tempi più feroci: e sono cose, bisogna ripeterlo, che Goya ha visto coi suoi occhi viaggiando da Madrid a Saragozza. Schizza rapido e veloce, in bianco e nero, adotta la tecnica nuova dell’incisione all’acquaforte che permette la moltiplicazione delle copie, per un evidente motivo: egli è, in quel momento, il fotografo di guerra, vuole urlare al mondo le atrocità che i francesi hanno commesso. Goya dice la verità, l’agghiacciante verità di questo secolo che si apre: secolo di ideologie di ferro, di Gulag, di tempeste d’acciaio, di sterminio, di campi della morte coperti di teschi dall’Ucraina alla Cambogia, di fetore di cadaveri insepolti, secolo di masse eliminate, secolo senza pietà. Il secolo sotto il dominio dell’Omicida fin dall’Inizio.

A questo porta, dirà Jaspers, «un mondo da cui esula completamente la fede, nel quale vivono gli uomini macchina che hanno perduto sé stessi e la propria divinità», la fine della dignità e della nobiltà umana, il caos abissale che si apre sotto la civiltà europea.

Contrariamente all’inglese Blake, Goya non si compiace dell’irruzione del satanico; lo denuncia, lo urla. Anzi, il suo genio agghiacciato che non è intelligenza mentale ma «veggenza di sonnambulo», coglie «la nozione che è andata del tutto perduta nell’uomo dei secoli diciannovesimo e ventesimo: oggi, nella migliore delle ipotesi, l’uomo riesce ancora a capire il peccato in maniera grettamente morale, ma non riesce a sentirlo come un turbamento dell’ordine cosmico, del cosmo umano, dell’intera vita e delle fonti di essa» (Sedlmayr).

È letteralmente così. Goya è l’ultimo uomo che riesce a vedere che, avendo fatto morire Dio in sé, coi suoi sogni di essere autonomo e libero, l’uomo ha fatto peggio che peccare; ha scosso le colonne dell’Essere. È il cosmo che è stato stuprato, e lo stupro continua.

Ma quello che è veramente tragico, è che tale super-lucida coscienza non trascina Goya al ritorno alla fede, a qualche sorta di pentimento. Non è che non vuole; non può. Non crede più. Fra i Desastres de la Guerra , incide questo:



Quest’uomo inginocchiato, che nella notte alza gli occhi al Cielo ed allarga le braccia in muta implorazione, evoca per noi il Cristo nell’Orto degli Ulivi, quando sudò sangue. Non può essere altro. Ma Goya no: e lo suggerisce la didascalia che appone all’incisione. «Tristi presentimenti di ciò che deve avvenire», «Tristes presentimientos de lo que ha de acontecer» . Una frase atea, cronistica. Goya non ha dipinto il Cristo, e lo vuol far sapere. Che non si sia in realtà accorto di aver evocato la Notte degli Ulivi, o che abbia rigettato in sé la suggestione, è il dubbio con cui dovremo restare.

Certo è che nelle pitture nere si intravvede, oltre l’irruzione definitiva di forze infere troppo potenti per essere contrastate da un sol uomo, un’angoscia personale: muoio dannato.



Anch’io ho fatto parte del Sabba, e non ho nessuno a cui chiedere perdono.




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