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Arte: e la Chiesa scelse il materialismo
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 La storia del pensiero cristiano appare interamente abitata da una straordinaria complessità di elaborazioni teoriche e pratiche dell’espressione, nei più diversi registri e domini del pensiero estetico-creativo. In larghissima parte, questa storia coincide con la storia dell’Occidente. Dopo tutto, se l’Occidente ha una coscienza storica del significare, e ha sviluppato una coscienza evolutiva delle espressioni del pensiero e dell’arte, lo deve alla legittimazione cristiana dell’impulso creativo in cui l’umano si appropria delle modalità ermeneutiche – e non puramente dogmatiche, o disciplinari, o rituali – dell’esperienza del sacro.

Sullo sfondo di questa lunga tradizione occidentale opera un gesto di vera e propria rifondazione teologica dell’estetico, che appare inestirpabile dal destino del cristianesimo: come anche delle tradizioni artistiche che esso ha nutrito nella nostra cultura, comprese quelle che si sono separate dall’identità confessante della fede. Il gesto di cui parlo è la miracolosa decisione antignostica del cristianesimo, audacemente formulata sin dal principio della sua elaborazione culturale. Una simile decisione può ben essere intesa come l’atto di fondazione di una teologia del sensibile. Dico decisione «miracolosa», perché l’improbabilità del gesto teorico non finirà mai di stupirci.

La decisione antignostica è pura invenzione controcorrente nei confronti del pensiero filosofico e religioso più alto dell’epoca contestuale agli inizi cristiani. Il suo fondamento è, anzitutto, il più roccioso realismo della veritas hebraica circa la bontà della creazione, compreso il mondo materiale. Il suo vertice è il realismo della notitia evangelica dell’incarnazione umana del Figlio, che non si scioglie neppure in Dio. E il suo approdo la convinzione della risurrezione dei morti, che misteriosamente riscatta e trasfigura in pura bellezza l’elemento sensibile, nel quale hanno preso «corpo» le più alte invenzioni della mente e le migliori affezioni dello spirito.

Emozioni indisgiungibili dalla vita eterna, che la vita dell’arte incide nell’anima per la sua destinazione. Decisione improbabile, dicevo, per un cristianesimo assediato dalla nobile tradizione delle più antiche religioni del mondo, che avevano affinato le loro pratiche di rimozione del sensibile come via della redenzione e della luce dell’anima.

Decisione culturalmente imbarazzante, per un cristianesimo osservato dall’alto di una sapienza filosofica illuminata, che raccoglieva nella vita della mente, e nella via di una theoria affatto indifferente al logos del sensibile (oggi ereditata dall’ideale della mathesis scientifica). Ebbene, il cristianesimo, sollecitato dalla cultura dominante a nobilitarsi per la via di una trasformazione in religione dello pneuma incorruttibile, ostile nei confronti della irredimibile volgarità dell’aisthesis mondana, rifiutò semplicemente l’alternativa. Nel lunghissimo metabolismo di questo sconvolgente passaggio (fosse più generosamente ripercorso in questa chiave, nell’ambito delle stesse discipline ecclesiastiche) si potrebbero scorgere i segni, tutt’altro che timidi, del germe della singolarità cristiana di un’estetica teologica virtualmente al lavoro.

La storia dell’arte, indagata lungo questo solco, è infinitamente più eloquente della convenzionale storia della teologia e della spiritualità, considerate separatamente e selettivamente, in base alle convenzioni di un codice scolastico (filosofico come teologico) ormai palesemente inadeguato a dar conto della realtà. Purché la storia dell’arte, a sua volta, incominci di nuovo a raccontarsi in tutta la sua larghezza, altezza, profondità: come storia di sensi e sensibilità delle passioni più intime e più alte, e non semplicemente come storia di invenzioni stilistiche e di espedienti tecnici.

Nel flusso di questo racconto, troverebbe facile collocazione anche la liquidazione di una memoria stereotipa che ha ridotto a spenta citazione – apologetica o subalterna – i sobri canoni ecclesiastici sull’argomento. L’ispirazione antignostica è quella che fornisce infatti l’impulso decisivo alla risoluzione del Concilio Secondo di Nicea, del 787, che sancisce l’illegittimità del principio iconoclasta, pur riconoscendo la verità dei fraintendimenti che esso colpiva (idolatria, superstizione, manipolazione e mercanteggiamento dell’icona sacra). La fedeltà alla logica dell’incarnazione del Figlio è il fuoco dell’argomentazione risolutiva.

L’esito dell’ortodossia, come del resto l’intero contenzioso della polemica iconoclasta, non ha comunque nulla a che fare con il tema della qualità tecnica e stilistica dell’immagine artistica, nel senso in cui noi lo intendiamo ora, nella maturata <+corsivo>libertà <+tondo>cristiano-occidentale dell’espressione estetica. È vero d’altra parte, come ormai la cultura della religione riconosce di nuovo chiaramente, che il pronunciamento in favore della rappresentazione sensibile del sacro, ha dignità di teologia. Il mondo non è una caduta del divino nelle regioni della corporeità spregevole, bensì il riflesso dell’amorevole condiscendenza divina che lo mette a disposizione di una creatura che porta la sua «immagine e somiglianza».

L’espressione artistica, nel regime antignostico della verità cristiana della creazione e dell’incarnazione, lavora al livello della bellezza – ineffabile, irraggiungibile, inimmaginabile – della creatività divina. Perché è proprio quella bellezza, e non meno che quella, il punto generatore di ogni azzardo dell’immaginazione creativa, che cerca il suo lampeggiare nel visibile.

Pierangelo Sequeri

Fonte >
Avvenire.it , 13 novembre


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