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Pentole e coperchi
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Il 14 febbraio 2005, un sofisticato e potentissimo ordigno esplosivo fece strage nel seguito del presidente libanese Rafik Hariri, uccidendo lui e altre 21 persone. Immediatamente, i media internazionali accusarono del misfatto i servizi siriani. Per volontà del presidente Bush, all’Aja fu allestito in fretta un tribunale internazionale dell’ONU per questo delitto; quattro generali libanesi, in carica il giorno dell’attentato, furono arrestati come mandanti dell’eccidio per conto della Siria.

Quattro anni di galera. Il 29 aprile 2009, lo stesso tribunale dell’Aja ha sancito l’innocenza e ordinato la scarcerazione dei quattro generali. Tutte le accuse sono cadute (1).

E’ un altro false-flag che viene smascherato. In Libano, in meno di un anno, sono state smantellate ben tre reti di spionaggio e provocazione al soldo del Mossad, e spesso gestite dall’ambasciata ebraica; ciò grazie all’attiva sorveglianza di Hezbollah.

I processi agli arrestati riveleranno probabilmente molte cose sui veri progettisti dell’assassinio di Hariri. E le complicità interne di cui i sionisti godevano nel cosiddetto «governo» di Siniora.

false_flag_siria.jpgIstruttivo rievocare le vicende cosiddette giudiziarie. Protagonista il tedesco Detlev Mehlis, il magistrato scelto come capo delle indagini per l’attentato: costui già nell’ottobre 2005 accusa come mandante dell’attentato Assef Shawkat, capo dell’intelligence siriana e soprattutto, cognato del presidente siriano Assad. Ciò in base a «testimoni» che sosteneva di avere fatto confessare. Il presidente Bush sollecitò una riunione strarordinaria dell’ONU per discutere la risposta internazionale contro la Siria «il più velocemente possibile».

Già, perchè la fretta era necessaria; ben presto i supposti testimoni, nerbo del castello accusatorio, hanno confessato di aver deposto il falso, su indicazione di un ministro libanese, Marwan Hamade. Detlev Mehlis ha dovuto dimettersi, pienamente screditato, per aver manipolato l’indagine e forzato le testimonianze d’accusa.

Fra l’altro, si scopre che Mehlis aveva già in altra occasione cruciale coperto agenti USA e israeliani: l’attentato del 1986 alla discoteca «La Belle» di Berlino, dove morirono due soldati americani, e che Mehlis – allora procuratore in Germania – «provò» essere opera dei servizi di Gheddafi (ciò che diede a Ronald Reagan il pretesto per bombardare la Libia). In realtà, nel ’98 un documentario della TV pubblica tedesca provava che alcuni dei sospetti  di quell’eccidio erano al soldo della CIA e del Mossad.

Il tutto non è poi tanto strano, se si considera che Mehlis è un ebreo, e che un (Lev) Mehlis fu segretario di Stalin, co-autore dei famigerati «processi farsa» sovietici, e ministro «del controllo di Stato», fino al 1950.

Scaduto Bush, e allontanatisi dalla Casa Bianca alcuni importanti neocon (il caso libanese era gestito dall’ebreo John Bolton, ambasciatore all’ONU per Bush), il castello di accuse non ha potuto reggere a lungo. Il successore di Mehlis al tribunale internazionale, il belga Daniel Bellemare, ha liberato i quattro generali ingiustamente accusati.

Il fatto è che la liberazione arriva poco più di un mese prima delle lezioni parlamentari in Libano: è praticamente uno spot elettorale gratuito per Hezbollah, che ha sempre sostenuto l’innocenza dei quattro ufficiali, e detto che il loro arresto era dovuto ad un complotto politico. Di fatto, il capo dei drusi Walid Jumblatt era arrivato al punto di insinuare che, essendo i quatttro generali difesi da Hezbollah, il loro capo Nasrallah era il mandante dell’attentato ad Hariri. Ma dopo la vittoriosa resistenza ad Israele nei 33 giorni di guerra del 2006, e con l’alleanza con il generale cristiano Aoun, Hezbollah appare come un blocco solido e unito, contro la coalizione avversaria, di filo-americani e filo-israeliani disorientati e divisi.

Anche in Europa, la perdita di presa dei neocon sulle leve del potere e lo stato di difficoltà della nuova amministrazione USA con altre gatte da pelare (disoccupazione inarrestabile, implosione della bolla carte di credito in vista) comincia ad avere effetti.

In Norvegia, un team di avvocati ha depositato presso la procura generale norvegese una richiesta di arresto ed estradizione per Ehud Olmert, Tzipi Livni (Esteri), Ehud Barak (Difesa), e sette generali israeliani, che accusano di crimini di guerra durante l’invasione di Gaza; fatto increscioso, visto che gli accusatori possono far testimoniare i due medici norvegesi che  operarono a Gaza nei giorni del massacro.

In Spagna, il noto super-magistrato Baltasàr Garzòn ha formalmente aperto un’inchiesta contro l’amministrazione Bush per la pratica della tortura. I documenti su tali pratiche resi pubblici dall’amministrazione Obama, secondo Garzòn, «rivelano quella che finora era stata solo un’intuizione: un piano di torture autorizzato e sistematico, con maltrattamenti di persone private della libertà senza alcuna accusa, e senza i diritti che spettano a qualunque detenuto».

In Germania, una personalità ebraica di spicco, Evelyn Hecht Galinski (è la figlia di un capo della comunità ebraica, il defunto Heinz Galinski) ha protestato contro «la guerra di  aggressione sanguinaria» di Israele a Gaza, accusando il governo Merkel di aver appoggiato incondizionatamente «lo stato di terrrore cui sono sottoposti i palestinesi» per timore della «lobby ebraica in Germania». La Galinski ha nominato espressamente il potente Consiglio Centrale degli Ebrei (tedeschi), accusandolo di essere «un altoparlante di Israele». (www.irna.ir/En/View/FullStory/?NewsId=462358&IdLanguage=3 )

A Gerusalemme Mairead Maguire, Nobel per la Pace (per la sua partecipazione agli sforzi di pacificazione nell’Irlanda del Nord), ha allestito una tenda di protesta nel quartiere di Silwan, dove 88 case di palestinesi sono sotto ordine di demolizione israeliano ed ha accusato Israele di «pulizia etnica, violazione del diritto internazionale, dei diritti umani e della dignità dei palestinesi».

Sono eventi che non avranno conseguenze reali (magari, certi personaggi non potranno andare da Israele a fare lo shopping in Norvegia o in Spagna), ma sono abbastanza per allarmare il nuovo governo di Israele, quello di Netanyahu. Il suo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman (normalmente dipinto persino nella stampa europea come «razzista» o «nazista»), comincia un giro in Europa per migliorare la sua immagine, con l’aiuto locale delle varie lobby (in Italia, il gruppo di deputati che fa capo alla Nirenstein).

Ma l’abitudine all’arroganza talmudica è dura a morire. In questa improbabile campagna-simpatia, Lieberman si fa precedere da una minaccia. Un alto responsabile del suo ministero (Esteri), vice-direttore per l’Europa, Rafi Barak, ha telefonato agli ambasciatori di Francia, Gran Bretagna e Germania protestando duramente contro «la politica europea verso Israele».

Il lettore si chiederà quando mai la politica europea verso Israele è stata meno che servile. Ma Barak aveva di mira la commissaria UE, Benita Ferrero-Waldner, che dopo i massacri di Gaza aveva auspicato un «congelamento» delle relazioni speciali verso Sion (di fatto, Israele è un membro della UE, con i vantaggi relativi e senza nessun obbligo).

«Da settimane diciamo a tutti in Europa che il governo di Israele ha bisogno di tempo per riformulare la sua politica, sicchè non si deve cominciare una guerra di stampa», ha esordito Barak significativamente.

«E’ importante che il dialogo sia maturo e discreto, senza fare dichiarazioni pubbliche. Altrimenti, se queste dichiarazioni continuano, l’Europa non potrà partecipare al processo diplomatico», ossia alle trattative «di pace» coi palestinesi, ha minacciato Barak.

Insomma: mentre noi facciamo le nostre pentole, voi tenete chiusi i coperchi. (Dictat Sioniste: Menace et Chantage Du Ministère des Affaires Etrangères Sioniste A L'Encontre De L'UE)

E’ bene sapere che questo è il personaggio messo al ministero da Tzipi Livni proprio per guidare la ben finanziata campagna di «relazioni pubbliche», alquanto rovinate dal genocidio di Gaza. E’ uno che contrasta alcuni appelli al boicottaggio commerciale e culturale di Israele, che si levano qua e là in Europa, con telefonate a università (colpevoli di non invitare «i grandi scrittori isrealiani così umani») o capi di sindacati, che si concludono con queste parole: «Chiunque  promuove il boicottaggio ne pagherà il prezzo». Uomo di Tzipi Livni, ma identico al truculento razzista Lieberman.

In piena paranoia, l’ebrea Ira Stoll ha scritto sul Wall street Journal un articolo dove lamenta che la crisi economica sta «facendo montare l’antisemitismo». La gente, dice, comincia ad accusare apertamente del disastro «i farabutti banchieri ebrei», e la «Federal Reserve sionista». L’ex funzionario della CIA Michael Scheuer, oggi docente alla Georgetown university,  parla senza esitazione sul suo blog della «quinta colonna pro-israeliana» che è «formata da indiscussi nemici dell’America».

E conclude Ira Stoll: «Come ogni anno, quando noi ebrei ci riuniamo la sera del venerdì per celebrare il Seder del passaggio, reciteremo le parole della Hagaddah, il libro che narra l’esodo degli ebrei dall’Egitto: “In ogni  generazione, essi (i goym) si leveranno contro di noi per distruggerci”» (2).

Povere vittime.

Ovviamente non c’è  nulla di vero, anzi, l’Europa continua a collaborare discretamente (a coperchio chiuso) alle sempre nuove pentole fabbricate dai talmudici. Un esempio?

Si è da poco conclusa, il 9 aprile, una delle più grandi manovre militari nel Golfo. Manovre in cui la forze armate tedesche e francesi (insieme agli americani) hanno insegnato ai militari sauditi e degli emirati (sunniti)  come combattere contro l’Iran  ciita, se Israele andrà all’attacco delle installazioni nucleari. Circa 240 piloti e militari tedeschi, con Tornado, Phantom, 31 bombardieri  della squadriglia «Boelcke» e 71 della «Richtofen», hanno addestrato i piloti sauditi a «pianificare ed applicare operazioni complesse e multinazionali di combattimento aereo nelle situazioni tattiche più realistiche possibili».

Le battaglie e i bombardamenti aerei simulati sono avvenuti su una zona di 61.200 chilometri quadrati, il più vasto campo operativo mai visto per esercitazioni militari europee (la Nellis Air Base del Nevada, dove si esercitano i piloti europei della NATO, è solo la metà).

Lo scopo è vidente: escluso che i sauditi attacchino direttamente l’Iran, essi vengono però preparati a fare sbarramento contro possibili ritorsioni iraniane, nel caso che Israele o gli USA bombardino le basi nucleari di Teheran.

La solita lobby ha convinto i ricchi petrolieri sunniti che «L’Iran sciita si vuole imporre come super-potenza egemone regionale», e insomma ha trasmesso agli arabi un po’ della paranoia talmudica (3).

Berlino è «partner strategico» nell’operazione. Ed è stato compensato: la famiglia Aabar, una delle più potenti tribù di Abu Dhabi, è entrata nell’azionariato della Daimler con il 9%, promettendo di salire fino al 20. In maggio il ministro dell’economia Guttenberg  visiterà la potente kabila per convincerla a «salvare» la Opel e sottrarla alla Fiat. 




1) I quattro generali scagionati sono Jamil Sayyed, all’epoca capo della sicurezza generale; Raymond Azzar, capo dell’intelligence, Ali al-Haji, ex capo della sicurezza interna, e Mustafa Hamdan,  comandante della guardia presidenziale di Hariri.
2) Ira Stoll, «Anti-Semitism and the Economic Crisis», Wall street Journal,  6 aprile 2009.
3) «Westward Expansion», German  Foreign Policy.com,  6 aprile 2009.


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