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Fine dei partiti. Ecco il partito-regione
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«Schiacciante vittoria di Vendola in Puglia. E’ la grande sconfitta di D’Alema»: così i giornali.

Sconfitta per D’Alema? E’ molto di più. E’ la sconfitta definitiva del Partito Comunista Italiano, per chiamarlo col suo vero nome mal nascosto dagli pseudonimi «democratici». Il solo partito che Mani Pulite aveva lasciato indenne perchè potesse prendere il potere sul vuoto lasciato dalle macerie giudiziarie di DC e PSI, è arrivato finalmente al capolinea.

E’ finito il partito che pretendeva di esercitare la sua storica «egemonia sulle sinistre», che credeva fosse ancora possibile «dettare la linea» nel ventunesimo secolo dell’anarchismo corpuscolare, dell’edonismo nichilista individuale di cui Vendola, l’omosessuale cattolico un po’ comunista, è l’incarnazione esemplare.

Non ci dorremo del tramonto del Partito Comunista. Ci duole per il secondo aggettivo: «Italiano». Perchè in Puglia è stato colato a picco l’ultimo partito «italiano», nazionale, centralizzato e centralista, che governa dal centro la sua «base». Ma quale base, ormai? D’Alema, la presunta volpe politica, l’auto-nominato super-intelligente stratega, quello che ne sa di più di tutti, non ha capito un piccolo particolare: il cambiamento storico della società. Ossia che la «base» a cui dare ordini dal centro, semplicemente, non c’è più. C’è un pullulare di anti-Berlusconi e di no-Tav, di giustizialisti e di girotondini, residui di centri sociali e di finocchietti «trasgressivi», di ballarò e di travagliò, di mastelliani, di vendoliani e bassoliniani con interessi locali incistati, il malaffare comunale e provinciale: in breve, c’è ormai un verminaio di anarchismi minimi, di interessi piccini e di insubordinazioni incoercibili.

Pierluigi Bersani
   Pierluigi Bersani
Patetico Bersani, dopo la bastosta in Puglia: «La linea non cambia». La linea: patetico linguaggio paleocomunista. Merce scaduta. La «linea», nel caso contingente, consisteva nel fare alleanza con l’UDC di Casini dovunque possibile nelle Regioni; il candidato del Partito in Puglia, Boccia, aveva come unica qualità quella che sul suo nome l’UDC locale era disposto a convergere. Una strategia, se vogliamo chiamarla così. Ma «la base» non c’è stata, s’è rivoltata ed ha votato quello con l’orecchino.

E’ stata, anche, la reazione rancorosa dal basso all’ultimo trucco che i partiti «italiani», ossia centrali e nazionali, hanno escogitato per sopravvivere: l’abolizione delle preferenze, perchè gli elettori possano votare soltanto quei nomi che il Partito ha scelto. Abbiamo un parlamento di nominati, che non abbiamo voluto. Ma il PCI ha aggravato la situazione a causa della sua  «doppiezza» (un’altra sua storica specialità): votate chi diciamo noi, però vi facciamo scegliere con le «primarie», come in America. Non si può essere centralisti e poi far votare i militanti locali. O meglio, si poteva quando gli elettori comunisti erano i robot trinariciuti di Guareschi, quelli che sognavano Stalin e facevano la vendita militante dell’Unità porta a porta. Ora non ci sono più.

D’Alema ha voluto essere «democratico come Obama» e stalinista sotto sotto. Si può essere più scemi?

Eppure lo dovevano capire, D’Alema e Bersani, quel che sta succedendo. In Lazio, per sperare di vincere, non hanno osato presentare un candidato comunista-italiano-egemone delle loro scuderie;
hanno dovuto accettare la candidatura di Emma Bonino, una esterna assoluta, libertaria e liberista peggio della Thatcher, e pure anticomunista. Una di «destra» nell’accezione corrente della parola, pro-mercato, pro-banchieri, pro-Israele, pro-guerre americane, che più non si può.

 Flavio Delbono
   Flavio Delbono
Ma il fatto è che il Partito Comunista Italiano non ha più uomini suoi.  La matrice storica della «classe dirigente comunista», l’Emilia-Romagna e la Toscana, è da anni diventata sterile. La guardia è stanca. Il sindaco di Bologna Delbono si deve dimettere perchè accusato dalla sua amante, tale Cinzia, di averla condotta in fughe d’amore all’estero, pagando con la carta di credito del Comune; e per tacitarla, le aveva promesso «consulenze» comunali.

Fateci caso: anche Cofferati, sindaco di Bologna, già capo supremo della CGIL cinghia di trasmissione del Partito e grande speranza della politica centralista comunista, s’era dimesso «per amore»: a cinquant’anni da tempo suonati, s’innamora di una dipendente, divorzia dalla vecchia e sposa la nuova. E  si ritira a vita privata per stare col figlioletto nato dall’unione. Quanto al governatore laziale M’Arrazzo, scelto dal PCI, lo sappiamo: anche lui ha dovuto dimettersi per una privatissima «storia d’amore» col transex brasileiro.

E’ un sintomo che D’Alema, se non fosse stato distratto dalla sua passione per le regate coi miliardari, non avrebbe dovuto sottovalutare. Quando una dirigenza comunista si dedica al sesso, e mette le sue passioni private al di sopra del Partito, vuol dire che non ha più niente da fare in politica. Se non altro, che ha troppo tempo libero (e troppi soldi). Anche D’Alema ha tempo e soldi per le regate, del resto.

Davvero, la guardia è stanca. Smobilita. Abbandona i fucili, scende dalla corazzata Potiomkin, e va al bordello. O ad Annozero, il che è lo stesso.

Ora bisogna capire che cosa sta nascendo dalla fine dei partiti nazionali, «italiani», e la cosa riguarda anche il Pdl. Stanno nascendo, con impetuosa vitalità, i partiti regionali. In Puglia non c’è più il PD, c’è il Partito Vendola, il partito dell’orecchino, bisessuale però cattolico e amato dai preti. A Roma c’è il partito-Bonino, che farà della sanità laziale l’abortoio-modello, antiproibizionista e anti-preti.

Ma il fenomeno è travolgente e onnipresente: in Lombardia non c’è il PDL ma il partito Lega-Formigoni, in Sicilia il partito-mafia trasversale, in Calabria il partito n’drangheta, a Napoli il superpartito-camorra; in Emilia Romagna, nasce un partito-Guazzaloca che insidia il Pdl, in Piemonte, il partito-Chiamparino, in lotta contro i no-Tav.

Son tutti partiti incistati negli interessi locali, senza alcuna ambizione nè convenienza a diventare «nazionali». E in questa regressione, il Meridione è più «avanzato» proprio perchè è più provinciale, più dialettale e chiuso.

Il motivo per cui i partiti nazionali scompaiono, e pullulano i partiti regionali, è evidente: è che i soldi veri sono nelle Regioni. Lì ci sono le occasioni di mazzette e prebende al disotto del controllo pubblico; lì i mille «centri di spesa» che sfugono all’osservazione; lì ci sono gli interessi locali e criminali che, in cambio di appalti senza concorso nelle aziende pubbliche privatizzate, garantiscono voti permanenti, e perciò il permanente potere. Solidissimo. Rinnovato eternamente nella sua «legittimità» da continue primarie che mobilitano i loschi interessi locali.

Questo non vale solo per il (ex) Partito Comunista Italiano. Appena Berlusconi uscirà di scena (manca poco, e tutti si stanno già preparando) anche il PDL si sgretolerà in partitelli locali, governati da cacicchi, capi-bastone e appaltatori locali, inamovibili proprio perchè locali. Ad accaparrarsi i soldi della Sanità, la vera cassaforte delle Regioni, nella felice collusione di un «pubblico» grande pagatore di privati immobiliaristi o para-sanitari che non sopravviverebbero un secondo senza i soldi della Regione: come quel Tarantino che aveva al suo servizio le D’Addario per rallegrare i potenti e farsi dare l’appalto dai soddisfatti. E poi ci sono i soldi delle provincie, e i soldi degli ottomila Comuni.

Il solo partito che in questo nuovo sgretolamento localista prospererà è l’UDC: il partito di Casini e di Caltagirone. Quello che teorizza la «politica dei due forni», l’alleanza di comodo ora con i comunisti, ora coi berluscones.

Altro che politica dei due forni: i forni per Casini diventano venti. La politica dei venti forni.

Con malinconica coscienza ci domandiamo: che cosa sarà l’Italia senza partiti nazionali? E la risposta è malinconicamente certa: sarà peggio. I partito-regioni esprimono una «classe dirigente» persino più provinciale e meschina di quella che conosciamo. Più irresponsabile nella sua piccineria furbesca. Più disonesta. E’ il «federalismo» che si sta attuando, ma nel modo più patologico. E’ la rottura dell’unità nazionale, in una versione che Bossi non avea previsto. Altro che «secessiùn».

Eterogenesi dei fini, se i leghisti capissero questa espressione, un po’ troppo filosofica per loro.



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