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Un forte puzzo di false flag
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L’assassinio dell’ambasciatore Stevens in Libia? Ecco cosa ne dice Vittorio Dan Segre, vecchissimo collaboratore del Giornale dai tempi di Montanelli, sullo stesso Giornale:

«In questo attentato ci sono elementi che possono far diventare l’assasinio di Bengasi una data storica come quella di Sarajevo, la 'scintilla' che fece scoppiare la Prima Guerra mondiale».

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Poichè Dan Segre è un israeliano e vecchissimo arnese (è nato nel 1922) dei servizi prima britannici poi del Mossad, («ha partecipato di persona alla creazione dello Stato d’Israele» dice la sua auto-biografia) si può ben dire che esprime – sull’orribile strano fatto di violenza accaduto a Bengasi – una speranza israeliana, un desiderio, un wishful thinking. Dopotutto, l’attentato alle Twin Tower dell’11 settembre 2001, «non ha cambiato la storia del Medio Oriente», e tutta a vantaggio di Israele?

Sicuramente Netanyahu ha bisogno di una «scintilla» per trascinare Washington e l’Europa (ovviamente) nella guerra generale di Sion contro l’Iran, l’Islam, il mondo. Con l’effetto aggiuntivo di affondare le speranze di rielezione dell’odiatissimo presidente Barah Husein Obama, facendogli scoppiare in faccia la sua supposta politica di appeasement verso i musulmani, di cui l’accusa Netanyahu e la lobby americana.

Esattamente questo dice Dan Segre, il vecchio arnese:

«Sembra probabile che l’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia porti acqua al mulino di Romney. Il candidato che ha basato la strategia della sua campagna sull’accusa dell’incompetenza economica di Obama, sui risultati disastrosi di una politica di quietismo nei confronti dell’imperialismo islamico (sic) e di abbandono degli alleati democratici» ossia, traduciamo, di Israele. Segre bolla in Obama la «profonda mancanza di leadership nei confronti del pericolo nucleare che non è quello del possesso dell’arma nucleare ma di questa arma nelle mani del piu anti americano regime islamico l’iraniano e del più solido alleato, sostenitore dei valori democratici e occidentali nel Medio Oriente – Israele» (Gli scenari geopolitici della strage di Bengasi).

Sembra proprio di sentir parlare Bibi. Quello che a caldo, l’11 settembre 2001, giudicò «buona cosa» il mega attentato del supposto Bin Laden, per poi correggersi: «Gli americani capiscono ora che abbiamo lo stesso nemico».

In questi giorni, Bibi Netanyahu aveva più di una ragione per fremere di rabbia contro Obama. Aveva preteso un colloquio urgente col presidente USA (per ripetergli il solito motivo: attacca l’Iran!), e la Casa Bianca aveva rifiutato: non c’era spazio nell’agenda del presidente. Inaudito! DEBKA File, la voce ufficiosa dei servizi giudaici, parimenti ribollente di sdegno: «Rifiutando di ricevere Netanyahu, Obama ha riportat l’orologio al punto più basso delle relazioni (reciproche), in coordinamento con il generale Martin Dempsey (il capo degli Stati Maggiori Riuniti, ndr) che il 30 agosto avevga detto: Non voglio essere complice se Israele sceglie di farlo, intendendo di attaccare lIran» (By refusing to see Netanyahu, Obama sharpens his Iran dilemma).

La rabbia è andata di sicuro alle stelle quando il più diffuso giornale ebraico, Yedioth Ahronoth, ha rivelato di colloqui segreti fra Teheran e la Casa Bianca. Emissari di Washington avevano informato emisssari di Teheran che gli Stati Uniti non avevano nessuna intenzione di appoggiare un eventuale attacco israeliano. Si noti che Netanyahu aveva chiesto, anzi preteso, da Obama una dichiarazione di guerra all’Iran per Yom Kippur oppure all’assemblea generale dell’ONU il 25 settembre. Obama faceva il contrario. Ci sono statei urla, strida, Netanyahu insulta l’ambasciatore americano (un giudeo, del resto, di nome Shapiro).

Obama meritava una lezione. Una scintilla. Una replica dell’attentato di Sarajevo 1914, l’inizio della Grande Guerra (Obama talks to Iran and washes hands of Israeli attack, Ynet reports).

Ed ecco i disordini a Bengasi, nella simbolica data dell’11 settembre. Quel gruppo di «Al Qaeda» non ha attaccato solo con kalashnikov, ma con RPG, una mitragliatrice, mortai. «I jihadisti avevano informazioni d’intelligence di precisione sorprendente», ha scritto la Reuters, «sulla posizione di un rifugio (safe house) dove l’ambasciatore è stato portato di corsa durante gli scontri».

Il britannico Independent cita un capitano Fathli al Obeidi, comandante della Brigata 17 Febbraio che ha cercato di soccorrere gli americani asserragliati nella safe house: «La precisione dei tiri di mortaio che ci hanno colpito è stata troppo alta per qualunque rivoluzionario» libico (effettivamente li abbiamo visti per mesi, quei rivoluzionari, sparacchiare a casaccio anche a se stessi, in attesa che gli aerei NATO li liberassero dall’esercito di Gheddafi) (Revealed: inside story of US envoy's assassinatio).

Conferma Mike Rogers, che presiede la Commissione d’Intelligence della Camera bassa americana: «È stata un’azione ben coordinata e ben fornita di armamento. C’è stato fuoco diretto e fuoco indiretto, e manovre militari come parte di un attacco molto organizzato». Esecuzione professionale.

Professionali anche i fotografi e i cameramen che hanno ripreso la scena. Come questa orribile foto del cadavere dell’ambasciatore; che ricorda molto le riprese degli ultimi istanti di Gheddafi. Qui, però, niente immagini mosse e sfocate, la ripresa è sinistramente perfetta. È stata ripresa da tutti i giornali USA, giusto per far ribollire un po’ gli americani qualunque, insomma far scoppiare la scintilla: guerra! Guerra! Guerra!



Non siete abbastanza sdegnati, americani? Allora sentite anche questa: «Diverse fonti medio-orientali asseriscono che l’ambasciatore Stevens è stato sodomizzato prima di essere ucciso». Credere o non credere? Le prime versioni dicevano che Stevens era morto di asfissia da fumo (dell’incendio provocato nell’attacco), e si è scritto che «egli è stato scoperto a terra in stato d’incoscienza da gente locale, e portato all’ospedale, il Centro Medico di Bengasi, dove un dottor Ziad Abu Ziad», dopo aver tentato di rianimarlo per 90 minuti, non ha potuto far alto che constatarne la morte.

Ora, invece, è stato ammazzato dai ribelli, che prima l’hanno violentato: si sa, i musulmani lo fanno... Ma questa informazione è vera? Qual è la fonte? Se si cerca bene, si scopre che la fonte primaria è un’agenzia libanese ignota, Tayyar.org, la quale però cita a sua volta come fonte la AFP. L’agenzia francese... o la Associated Foreign Press americana, assa meno nota? Non ci è dato sapere. Tayyar pubblica in arabo.

Ayman al-Zawahiri
  Ayman al-Zawahiri
La ben organizzata operazione è avvenuta durante i disordini di musulmani sdegnati per il famigerato filmetto pieno di insulti e di oscenità contro Maometto, su cui torneremo. Ma prima, bisogna dire questo: 24 ore prima dell’attacco, nientemeno che l’attuale capo di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, appare in un video «di un forum jihadista» (mai che ci dicano l’indirizzo internet): in questo video, Zawahiri comunica che è stato ucciso a giugno (da un drone americano) il suo secondo, Abu Yaya al-Libi, e incita i libici a vendicarne la morte.

Ciò consente a DEBKA di titolare: «Al Zawahiri ha ordinato personalmente ad Al Qaeda di assassinare l’ambasciatore Stevens», usando «venti professionisti» (il Mossad sa la cifra esatta!) e a tutti i media europei ed americani di assicurare che «è stata Al Qaeda». Anche se l’incitamento video di Al Zawahiri non indicava un bersaglio specifico per la vendetta.

Ma scusate, allora non c’entra più il filmetto osceno e blasfemo che ha provocato la rabbia delle folle islamiche, se il capo di Al Qaeda ha incitato all’assassinio prima ancora che il trailer del filmetto fosse diffuso tra le masse islamiche (un miliardo e mezzo di fellahin e beduini tutti collegati al web, come si sa). Oppure Al Zawahiri ha organizzato anche il filmetto per eccitare lo sdegno come copertura per l’azione? Ma esisterà poi, questo Al-Zawahiri, al difuori dei «forum islamisti» che nessuno riesce a localizzare?

Yaya al-Libi
  Yaya al-Libi
Anche l’ucciso, Yaya al-Libi – ossia «il libico» – ha una storia strana. Fino a qualche mese fa, era il «combattante della libertà» più in vista contro il regime di Gheddafi, adesso è stato ucciso come terrorista. Prima ancora era stato jihadista islamico in Afghanistan. Lì, era stato catturato, torturato (pardon, interrogato) nella prigione di Bagram, la più grossa base americana a Kabul. C’era stato tre anni. Poi era scappato, nel 2005, da quella inaccessibile fortezza: così dicono. Scappato o più probabilmente, liberato per impiegarlo temporaneamente come «combattente della libertà», prima di farlo fuori come ridiventato «terrorista»?

E veniamo al filmetto che ha fatto scoppiare la scintilla. A tutta prima, il Wall Street Journal (di Murdoch) indica come produttore un israelo-americano, immobiliarista in California, di nome Sam Bacile, e lo intervista. Poi la israeliana Channel 10 dice che «Sam Bacile» non esiste, è lo pseudonimo di qualcun altro, quasi certamente un copto egiziano rifugiato in USA. Il fatto è che la prima fonte in assoluto ad indicare Sam Bacile come reale è Ynet.news, l’agenzia di stampa israeliana più vicina ai «coloni» fanatici. Anzi, l’agenzia spiega che Sam Bacile parla correntemente arabo, e che ha girato il film con i fondi di cento donatori ebrei. Così il sito della giornalista palestinese Kawther Salam, che riporta i passi dell’agenzia in ebraico (US Ambassador Killed: Fingers Pointing at Israel).

L’agenzia AP invece identifica il colpevole del film insultante in tale Nakoula Basseley Nakoula, un copto islamofobo che abita anche lui in California, e che si sarebbe presentato come Bacile. Nakoula risulta per di più essere un truffatore condannato nel 2010 per frode bancaria. Un giornale californiano, Press Telegram, risale invece ad un altro copto islamofobo di nome Joseph Nasrallah Abdelmasih, capo di un’organizzazione chiamata «Media for Christ». Però si scopre subito che questo copto ha partecipato come oratore ad una clamorosa protesta pubblica contro la costruzione di un centro islamico a Manhattan tenuta l’11 settembre 2010, ritenuto dai manifestanti «troppo vicino a Ground Zero».

Organizzatrice principale, l’ebrea americana Pamela Geller, che ha fondato un movimento dal sobrio nome «Stop Islamization of America!», oltre che un libello contro Obama, dal titolo significativo: «The post-american presidency»». Il copto, o più coti, sembrano dunque essere interni a circoli ebraici ultra-antimusulmani, con attivisti noti per il loro odio esagerato come David Horowitz e Daniel Pipes, ebrei. Nella diffusione del trailer ha una parte anche il «reverendo» Terry Jones, quello che ha già provocato disordini bruciando copie del Corano, e che risulta essere un ex agente della CIA.

Salta fuori un’attrice che ha preso parte al filmetto, Cindy Lee Garcia, e dice: «Non si parlava di Maometto, ma dell’antico Egitto». Effettivamente alcuni attori sono stati tratti in inganno, e le frasi offfensive sul Profeta risultano doppiate (‘Innocence of Muslims’ actors, crew duped by director).

Oltretutto, il trailer è rimasto su Youtube per due mesi senza far danno, fino a quando «viene doppiato in arabo-egiziano da persone che Sam Bacile dice di non conoscere», e solo allora comincia a provocare le desiderate scintille. La faccenda diventa così ingarbugliata, le tracce sono state così confuse, che il serissimo Christian Science Monitor finisce per concludere: «Forse non esiste nemmeno il film anti-islamico». Esiste solo il trailer di 14 minuti (There may be no anti-Islamic movie at all).

C’è da aggiungere che Gordon Duff, un ex colonnnello dei Marines con buoni agganci nell’intelligence, scrive che i disordini a Bengasi sono stati preparati per giorni; un manifesto con la scritta in arabo – e in inglese, per le telecamere – «Pronti a morire per Maometto» è stato distribuito con giorni d’anticipo.


Secondo Duff, mentre la folla impazzava, l’attacco omicida sarebbe stato messo a segno «da una unità delle nuove forze speciali degli Emirati Arabi Uniti in diretta collaborazione con il Mossad». Duff non specifica le sue fonti e può essere prevenuto; ma non gli si può dar torto se sente nella tragedia «il puzzo di un false flag Mossad» (Embassy Killings in Libya, the Stench of CIA/Mossad “False Flag”).

Che aggiungere? Ah sì. «Secondo importanti fonti diplomatiche, il Dipartimento di Stato aveva credibili informazioni, 48 ore prima che la folle caricasse il consolato di Bengasi e l’ambasciata del Cairo, che le missioni americane sarebbero state prese di mira, ma nessun allarme è stato dato ai diplomatici» che, sul terreno, erano a rischio. Così le agenzie. Ciò ricorda fin troppo i numerosi avvertimenti che il presidente George Bush Jr. ricevette sulla preparazione di un grande attentato l’11 settembre 2001, e che la Casa Bianca, la CIA e le altre agenzie «trascurarono». Persino Vladimir Putin avvisò gli americani che si stava tramando un attentato con aerei; tutto inutile.

È possibile che l’azione sia stata condotta da guerriglieri salafiti che sono burattini del servizi israeliani? Niente di più facile: i fanatici sono ciechi, e facili da strumentalizzare. Va ricordato che anche il movimento ultrà Hamas fu creato di sana pianta dal Mossad, manipolando mentalmente giovani palestinesi arrestati, per creare uno scomodo avversario estremista all’OLP di Arafat.

Si può ricordare anche quest’altro fatto: lo scorso 12 giugno 2012, le autorità egiziane hanno arrestato un tizio che si mescolava alle folle di Piazza Tahrir e cercava di reclutare giovani esagitati organizzandoli a compiere atti illegali, distruttivi o violenti, per aggravare il caos e provocare reazioni estreme da parte delle forze di Polizia o dell’esercito egiziano (Mossadnik Captured in Egypt Involved in Pipeline Blast).

Chaim Grappelli
  Chaim Grappelli
Il tizio si chiama Chaim Grappelli/Grapel, (אילן גרפל), è un israeliano americano, ex parà dell’esercito israeliano (in questa veste ha partecipato ad atrocità nella seconda guerra del Libano 2006), entrato in Egitto con un visto falso nel gennaio. Ha confessato fra l’altro di aver partecipato a far esplodere il gasdotto che fornisce gas egiziano alla Giordania e a Israele. Un agente provocatore, danneggiatore, spia, infiltrato che, mentre svolgeva il suo lavoro per lo spionaggio giudaico, non tralasciava di esprimere un po’ di odio tipicamente ebraico per Barak H. Obama. Come dimostra questa foto: ovviamente Grapel è il bianco.




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