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L’identità non è identitarismo
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Obiettando ad un punto sul mio articolo a favore del populismo, il lettore Pietro G – applaudito da molti altri – ha scritto:

«Il cittadino libero non può che essere il cittadino identitario, senza questo riferimento al popolo che definisce l'insieme delle identità : culturali, religiose, etniche ecc. rimane una figura formale e senza sostanza».

Vedo che si continua a confondere l’identità (nazionale, culturale, religiosa, eccetera) con «identitarismo»: il quale è o il riflesso difensivo di un’identità che si sente minacciata o incerta di sè, oppure è la creazione di «identità» artificiose, create di sana pianta, come il Gay Pride, o il jihadismo che pretende di rappresentare l’Islam e tutti i musulmani, o il«celtismo» di Bossi.

Per contro, l’identità è naturale e pacifica. Esempio: ho sentito un immigrato senegalese, musulmano praticante, battersi a favore dell’ora di religione cattolica a scuola per i suoi figli (che le «sinistre» vogliono abolire in ossequio ai musulmani, dicono) perchè è essenziale che «i miei figli conoscano le basi culturali e religiose della società in cui vivono e vivranno». E inoltre capisce benissimo che Cattolicesimo e Islam sono ugualmente colpiti dall’aggressione globalista  contro la spiritualità. Ecco una forte identità, che senza timore vuole la «cittadinanza», riconoscendovi un interesse comune.

Il senegalese è per me un cittadino, mio pari. Sono pochi gli immigrati musulmani a pensarla come lui? Forse (ma forse sono più di quel che si creda). In ogni caso, è il senegalese ad essere «popolo», e a poter parlare per il «popolo», e addirittura per «il popolo italiano», anche se fosse solo. Così, la politica, se fosse degna del suo nome, dovrebbe plasmare istituzioni che rafforzino quella metà di  «popolo» che è in ciascuno di noi (la& capacità, ancorchè imperfetta e immatura, di strapparsi all’interesse particolare) contro l’altra metà, celtica, finocchia, islamista o cristianista, o semplicemente corrotta e arraffatrice.

Ho un’obiezione fondamentale anche sul concetto che «Il cittadino libero non può che essere il cittadino identitario».

È esattamente il contrario. Pensate come sono liberi i mafiosi legati dalle norme dell’«onore» mafioso, che chi le viola viene trovato col sasso in bocca. O le clientele politiche del politico meridionale camorrista o ndranghetista, vedete quanto sono libere. Anche se sono «fiere della loro identità» dialettale.

La cittadinanza libera dalle identità, nella misura in cui queste diventano catene.

Vedete quanto sono libere le donne musulmane che si mettono il chador fino agli occhi, un costume ignoto in quasi tutto il mondo musulmano fino agli anni recenti (c’era, magari, nelle campagne; anche da noi il fazzolettone delle donne resistette a lungo come usanza rurale), e le loro figlie che devono sposaresconosciuti «venuti dal paese» per ordine di padri-padroni così incerti della loro autorità, da farsi dittatori almeno in famiglia.

Per giunta, invito a rileggere bene le frasi del filosofo francese: «L’identità comune» è il trucco con cui i noti poteri cercano di sostituire «lassenza di un progetto comune». Laddove «il cittadino libero lascia posto allindividuo fiero della sua identità», questo diventa una realtà statica, chiusa nelle rivendicazioni più microscopiche o sceme (l’adozione di figli alle coppie gay...), incapace di unirsi ai più per agire liberamente sul piano politico.

La libertà di starsene nella tana non è quella del cittadino: questo intende la libertà come un fatto dinamico, libertà per imporre un progetto comune, all’interno come nelle sedi internazionali e mondiali (il famoso «battere il pugno sul tavolo»). È la libertà dei combattenti.

Farò un esempio estremo e politicamente ultra-scorretto, al limite del reato: le SS erano un corpo che aveva come dottrina il razzismo e la superiorità razziale del tedesco, «identitario» al massimo. Nel fuoco della Seconda Guerra Mondiale, si trasformò in un incredibile corpo multinazionale: spagnoli e ucraini, tedeschi e mongoli, romeni e francesi e italiani, quando si è a fianco a respingere il nemico soverchiante per difendere un’idea del mondo, non c’è tempo per gli identitarismi. Così, chi lavora a fianco di immigrati in una fabbrica, non tiene conto se quello è musulmano o romeno o terrone, ma se è «lavativo» oppure no, collega o no. Se si può confidare in lui per l’azione collettiva. È la «civiltà del lavoro» a cui alludeva Mussolini, in una frase citata da un altro lettore: «Il lavoratore che assolve il dovere sociale senz’altra speranza che un pezzo di pane e la salute della propria famiglia, ripete ogni giorno un atto di eroismo».

Purtroppo, a molti italiani questa civiltà – come il lavoro stesso – è oggi negata dalla de-industrializzazione, e questa carenza ha non poco effetto sulla immaturità generale.

Mi ha molto commosso, in un TG, sentire un lavoratore dell’ILVA rispondere così al giornalista che, pietosamente peloso, gli chiedeva se non era preoccupato per la sua salute a lavorare in una fabbrica così inquinante: «Considerateci soldati. Qui non ci sono operai, ci sono soldati». Ecco la nobiltà che si acquista lavorando nelle fabbriche: come Cesare, Laborare necesse est, vivere non necesse.

Per quanti credono che la questione della «cittadinanza» contro identità venga dall’illuminismo massonico (la citoyenneté), ricordo ancora una volta che essa viene da Roma. L’antica Roma imperiale, che era nella realtà una confederazione di città-Stato dove le particolarità nazionali, religiose e culturali prosperavano intatte, ma dove le etnie imparavano il latino per diventare cittadini e accedere ai tribunali e alle cariche. Eventualmente, per liberarsi dalle catene identitarie. San Paolo, rabbino, ebreo, si dichiara orgoglioso «cittadino romano». E quando dice: dopo Cristo, «non esiste più nè giudeo nè greco», non aggiunge «... e nemmeno romano». Perchè «romano» non è una appartenenza etnica, ma uno status politico. Che non va superato, al contrario. Tant’è che Paolo si dichiara civis romanus per liberarsi dai farisei che volevano ucciderlo per le spicce, appellandosi a Cesare, ossia facendosi processare a Roma (da stranieri, in una lingua che lui non conosceva: Paolo non parlava il latino). Quale più grande onore sia stato tributato alla «cittadinanza romana», non saprei dire.

Ma naturalmente, il lettore Pietro G è in qualche modo giustificato dal suo riflesso identitarista e dal confondere populismo con identità. Il populismo, l’abbiamo detto, lo riconosce Coussedière, rappresenta un sintomo «della crisi dell’essere insieme come popolo»; un popolo sano e non ben rappresentato non ha bisogno di essere populista. Ma oggi «il mercato sta distruggendo la società», come aveva previsto l’economista-filosofo Karl Polanyi; la mondializzazione sradica tutte le «scorie culturali» e le appartenenze comunitarie, perchè sono di ostacolo al mercato unico mondiale.

È quasi ovvio che si cerchi una protezione nella «identità». Ma è appunto un atteggiamento passivo, sub-politico.



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