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Una peste del grano. Anzi due.
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Da marzo, l’Iran ha comunicato alla FAO di aver identificato nei suoi raccolti una forma più virulenta del patogeno del grano. Si tratta di un fungo simile alla «ruggine del frumento» (Puccinia graminis) chiamato «Ug99» perchè è stato scoperto per la prima volta in Uganda appunto nel 1999 (1).

Da lì l’infestante – che distrugge oltre il 70% delle coltivazioni – si è diffuso verso l’Etiopia, poi in Egitto, Yemen, Turchia e Siria. Le sue spore, che si sviluppano a milioni in piccole pustole arancio scuro sulle spighe, si diffondono verso Est portate dai venti dominanti, anche a grandi distanze.

Ora la FAO ha avvisato di mantenere la massima vigilanza nei Paesi ad oriente dell’Iran: Afghanistan ed India, Turkmenistan, Kazakhstan e Uzbekistan, e soprattutto il Pakistan, che è la porta del granaio asiatico, ossia verso i Paesi suddetti, produttori di un quarto del frumento del mondo.

La Monsanto e gli altri produttori di OGM, che hanno visto l’affare nella sciagura, stanno attivamente cercando varietà di grani geneticamente modificati che siano resistenti al fungo (2). Anche Norman Borlaug, il Nobel autore della «rivoluzione verde» (finanziata dai Rockefeller) degli anni '60, s’è messo al lavoro per selezionare razze di frumento resistenti alla nuova peste.

Fino ad oggi si è trovato che, su 12 mila varietà sperimentate, il 90% non resistono all’Ug99. Si lavora sulle altre. Ma anche se si selezionasse immediatamente una specie resistente, occorreranno due-tre anni per avere abbastanza sementi resistenti da seminare nel 20% delle estensioni attualmente coltivate a grano e frumento nel mondo.
Centinaia di milioni di persone, da Haiti al Bangladesh all’Egitto, non possono aspettare tre anni per andare a tavola.
E intanto i prezzi salgono, molto ripidamente.

E' istruttivo apprendere che, ancora nel 2005, la FAO affermava che nel mondo si producevano abbastanza alimentari da nutrire ogni uomo nel mondo con oltre 2.800 calorie quotidiane, molto più del necessario, e il 18% di calorie in più prodotte nel 1960, nonostante l’aumento della popolazione. Naturalmente il problema non era (e forse anche oggi non è) di produrre di più, ma di distribuire o produrre meglio localmente; non un problema tecnico dunque, ma sociale e politico.

L’agribusiness è oggi in mano a non più di sei gigantesche multinazionali, il Cartello del Grano (3), che ha conformato le coltivazioni mondiali secondo i principii della interdipendenza globale e – naturalmente – del profitto. E in questi mesi di scarsità e rialzo dei prezzi delle materie prime agricole, i profitti di questi grandi gruppi – come delle petrolifere mentre il greggio rincara – sono alle stelle.

Nei soli primi tre mesi del 2008 la Archer Daniel Midlands (ADM, la più grossa del Cartello), ha vantato profitti per 1,15 miliardi di dollari, il 55% più dell’anno scorso. La Cargill ha dichiarato profitti dell’86% in più. La Bunge y Born, del 189%.

Per le multinazionali delle sementi e degli erbicidi, la tendenza è ugualmente al rialzo. La Monsanto vanta profitti del 54%  in più dell’anno scorso, la Dupont  settore Agricolture and Nutrition, il 21% in più. Incredibile l’aumento dei profitti dei grandi gruppi che vendono fertilizzanti: si va dal 186% della Potash Corporation, al 1.200% della ditta Mosaic (4).

Il Cartello del Grano non produce in proprio (se non marginalmente): fa profitti comprando i grani in erba ai coltivatori, poniamo in Argentina o in Australia e Canada, e li trasporta e rivende nel mondo dove c’è «domanda». Le sei aziende controllano l’85% dei commerci granari mondiali; tre di loro l’83% del mercato del cacao; altre tre, l’80% del mercato bananiero.

Non è solo che simili potenze possono «fare i prezzi», comprando ai produttori in massa al minor prezzo, e vendendo al più alto. E’ che da un trentennio, il Cartello e i gruppi associati hanno imposto una ristrutturazione dell’agricoltura sul piano mondiale, per adattarla alle loro esigenze e necessità di volumi. Tipicamente, nei Paesi produttori sottosviluppati hanno scoraggiato la produzione per autoconsumo e imposto o «consigliato» le produzioni agricole da export, perchè sono monetizzabili, valutabili in dollari, e producono liquidità.

Il Fondo Monetario ha esercitato su quei Paesi, spesso indebitatissimi, la sua «persuasione». Producete arachini e cacao per l’esportazione, così guadagnerete i dollari per servire il debito nazionale. Altrimenti...

Le esigenze del Cartello hanno ovviamente imposto produzioni a monocultura, su scala estensiva, con industrializzazione dell’agricoltura (la Archer Daniel Midland ha «inventato»  il «latte» di soia e la finta «carne» di soia, che comportano un trattamento in fabbrica): è la forma postmoderna delle piantagioni coloniali. Fondo Monetario e  Banca Mondiale hanno contribuito, applicando i dogmi del liberismo globale.

Il primo: ridurre gli addetti alla produzione agricola, che nel Terzo Mondo sono «troppi» perchè «inefficienti», e devono calare all’ideale 4% degli agricoltori USA rispetto alla popolazione americana. Conseguenza, uso più massiccio di fertilizzanti, trattori e macchinari a gasolio, maggior consumo d’acqua per irrigazione, ed espulsione dalle campagne di masse umane che finiscono nelle megalopoli-bidonvilles del sottosviluppo, disoccupate e sottoccupate.

Secondo dogma imposto: i Paesi poveri sono stati obbligati ad «aprire il mercato nazionale» alle merci estere, ossia alla «concorrenza». Gli alimentari prodotti in USA, Canada e Australia a prezzi stracciati (e con sussidi all’export da parte dei rispettivi governi) hanno rovinato i coltivatori locali e – forse anche peggio – hanno creato abitudini alimentari «innaturali», l’affezione di massa a cibi che non solo non vengono prodotti in loco, ma non possono esservi prodotti per ragioni
climatiche.
Tipicamente, gli africani sono diventati consumatori di riso, che in Africa difficilmente cresce. E perciò importatori e dipendenti dall’estero. Ciò ha aumentato la produzione alimentare mondiale.

Ma con una distorsione fatale: i Paesi poveri producono immense quantità di «cibi» che non mangiano (cacao e arachidi da export), mentre devono importare da migliaia di chilometri, e pagando in valuta estera, il cibo che mangiano.

La Colombia lamenta il 13% della sua popolazione in stato di malnutrizione; nonostante ciò, produce ed esporta il 62%  dei fiori freschi  che si vendono in USA. L’India ha il 20% della sua popolazione in malnutrizione cronica, eppure nel 2004 ha esportato riso sbramato per 1,5 miliardi di dollari, e frumento per 322 milioni. Il Kenia, che era autosufficiente ancora 25 anni fa, importa l’80% degli alimenti che consuma, mentre l’80% delle sue esportazioni consiste in prodotti agricoli pregiati sui mercati mondiali.

Tutto questo risponde alle esigenze dei grandi gruppi agro-industriali e commerciali, per i quali la produzione di cibo non serve a nutrire i popoli , ma primariamente a fare profitti. La scusa è che, naturalmente, il «loro» sistema è più «efficiente». Ma loro misurano la «efficienza» in termini di prezzi mondiali, e sostengono che ciascuno, in un mercato mondiale «libero e aperto», può spuntare i prezzi più bassi possibili.

La fragilità di questa «efficienza» abbiamo cominciato a constatarla da alcuni mesi: una tensione nell’offerta, con fenomeni speculativi finanziari conseguenti, è bastata a far schizzare alle stelle i prezzi internazionali. La decisione di Vietnam, India ed Egitto (ad altri Paesi) di ridurre le esportazioni di riso e grano per ricostituire le scorte nazionali, o nutrire prima i propri cittadini, ha provocato carestie dall’altra parte del mondo, da Haiti al Senegal. I presunti vantaggi della interdipendenza – ossia della dipendenza delle nostre cene dai mercati mondiali – hanno mostrato di colpo la loro vera faccia.

Del resto, anche nei tempi migliori, le coltivazioni locali, in regime di tendenziale autarchia, per il consumo interno, possono costare di più delle derrate acquistabili sul mercato-mondo: ma i consumatori li pagano nella loro moneta nazionale e non in dollari (scarsi, e da ottenere con le esportazioni), e inoltre la coltivazione in autarchia tiene sui campi  famiglie di agricoltori che altrimenti finirebbero negli slum urbani, e salvaguardia la cultura tradizionale. Non è proprio necessario che i nostri bambini siano ghiotti solo di Coca Cola e hamburger nel panino, nè che gli africani rifiutino il miglio e la kassava perchè si sono abituati al riso. Anche così si disruggono le culture umane, e le «identità» nazionali.

Oggi anche Bill Gates, associatosi ai Rockefeller nella «Alliance for a Green Revolution in Africa», finanzia studi per sviluppare «varietà più produttive e resistenti dei principali alimenti africani, per consentire ai piccoli coltivatori africani di produrre raccolti maggiori, più varii e più affidabili». Sembra il riconoscimento che sia necessario dare priorità all’agricoltura da consumo locale. Ma la presenza dei Rockefeller in questa grande iniziativa umanitaria, lascia qualche dubbio. E la Monsanto è pronta a proporre i suoi ibridi che «aumentano la produzione». L’autosufficienza continua ad essere un tabù, nella mente di questi signori che pensano in grande.

E’ questo il vero problema: la mentalità  di chi ha creato il sistema di interdipendenza globale, che a sua volta ha creato mentalità – ricerca di profitti monetari e nuove abitudini alimentari, con perdita delle competenze locali in agricoltura di sussitenza. E’ il sistema che, in fondo, rende obeso un bambino italiano su tre a forza di merendine (il surplus mondiale di zuccheri e noccioline e soya, bisognava pur venderlo a qualcuno), e due su tre americani. Ma finchè la rete del commercio libero mondiale reggeva e consegnava le merci a navi intere, non ci siamo preoccupati.

Ora, è come se una mano avesse cominciato a strappare quella rete cui tanto orgogliosamente avevamo affidato i pranzi e le cene a prezzo abbordabile. Due anni di siccità i Australia. Un inverno pieno di gelate in Argentina e Canada. Raccolti di riso ridotti a Giava e in Bangladesh per via di alluvioni e tifoni. Ed ora, il fungo Ug99, una ruggine del grano, ma virulenta, di una distruttività senza precedenti.

Sembra che una spietata saggezza guidi quella mano: come volesse mostrarci quanto è fragile tutto ciò che chiamiamo «progresso» e «sicurezza», e farcene constatare le conseguenze sulla natura, e nel nostro stomaco. I nostri soldi di carta valgono sempre meno, rispetto al cibo. I profitti finanziari sbiadiranno, se il grano sarà prezioso come l’oro. Ma vediamo il lato positivo: non più bambini obesi.



1) «UN alert: one fourth of world’s wheat at risk from new fungus», World Tribune, 13 maggio 2008.
2) William Engdahl, «Will wheat-killer fungus be used to spread GMO wheat?», GlobalResearch, 30 marzo 2008.
3) Del cartello fanno parte grandi aziende poco note al pubblico, di proprietà familiare (non sono quotate in borsa, onde scongiurare scalate) e con capitali immensi, che hanno cominciato ad accumulare dal tardo ‘800, col commercio di grani dall’Ucraina in Europa, in partenza dal porto di Odessa. La più antica è la ditta Louis-Dreyfus, fondata dall’omonimo mercante alsaziano nel 1879, poi la «Fribourg Frères», che oggi si chiama Continental Grain. La Cargill fu fondata da un William Cargill del Winsconsin con un socio bielorusso, Julius Hendel. La Bunge y Born fu creata da mercanti olanedesi e svedesi per commerciare il grano argentino, insieme a soci di nome Hirsch. Le famiglie a capo di queste imprese, che non appaiono mai nel «jet set», sono spesso imparentate.
4) Ian Angus, «Capitalism, agribusiness and the sovereign food alternative», GlobalResearch, 11 maggio 2008.


 

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