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Il cavaliere e il suo cane
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L’eroe del Bhagavad Gita è, come forse si saprà, Arjuna.
Poco prima della battaglia fra i Kaurava e i Pandava, Arjuna vede nelle schiere avversarie molti amici e parenti; gli manca il cuore, non vuole combattere.
Gli appare Krsnha, che lo spinge ad uccidere, perché questo è il dharma del guerriero.
Ad Arjuna che esita, il dio insegna che, se fa quel che deve indifferente ai risultati, anche
il guerriero omicida diventa simile allo yogi: «domate le passioni, la beatitudine è prossima, perché egli è diventato Brahman…Vedendosi in tutte le cose e tutte le cose in lui, egli vede la stessa cosa ovunque».
Nella Gita c’è, ed è forse la prima volta, la rivelazione del dio personale, che può salvare i fedeli dagli effetti del loro karma (in termini cristiani, rimettere i peccati); ma Krshna è sempre
e comunque il «dissolutore» indù: alla fine, si mostra all’eroe esitante come il divoratore che ingoia tutto, amici e nemici, nella «pace che culmina nel nirvana e che esiste in Dio».
E’ il passo supremo della poesia mistica indiana; ed è Arjuna l’eroe che supera non solo il bene
e il male, ma anche il dharma; che rinuncia a rinunciare.

Ma qui, vogliamo parlare dell’altro eroe del Mahabharata.
Quello che non entrò in paradiso, e che ci è più vicino ed umano.
E’ Yudisthira, il fratello maggiore di Arjuna.
Re e cavaliere senza macchia, martire del dharma guerriero.
La figura più tormentata e infelice.
Ha giurato di non rompere mai un voto: per questo deve accettare l’invito a un gioco di dadi,
in cui perde il suo regno, ed è l’inizio dell’epica guerra fratricida del poema.
Yudisthira combatte la sua guerra e vince; ma il suo cuore è così straziato dai milioni di morti (l’iperbole è tipica dell’India) che vuole ritirarsi nella foresta.
I parenti lo obbligano a prendere il trono.
Deve farlo (dice: «questa è la regola fondamentale; non fare ciò che si vorrebbe. Io agisco come mi è stato ordinato, il Fato controlla tutte le creature»), ma non vorrebbe: perché regnare comporta,
tra i doveri del re guerriero, non solo guerra ma inganni, stratagemmi, spionaggio: e Yudisthira
non ha mai detto una bugia.
Yudisthira maledice il dovere che è suo: «non v’è nulla di peggiore del dharma degli kshatria»,
e tuttavia lo compie fedelmente.
Al momento di eseguire il sacrificio del cavallo dei re vittoriosi, gli appare una mangusta che dice (come i profeti nella Bibbia): «tutto il tuo sacrificio non vale un’oncia d’orzo», e Yudisthira capisce ed approva che Dio non vuole sacrifici animali, ma carità.
Accetta le leggi delle quattro caste, eppure ne vede - ed è il solo - l’ingiustizia e l’assurdità.

Ad un certo punto, in sua presenza si narra la storia di un brahmano, affamato durante
una carestia, che obbliga un fuori-casta a dargli la carne di un cane per saziarsi.
Il fuoricasta risponde che un bramano non deve prendere un cibo impuro da un uomo impuro;
ma il bramano replica che neppure le azioni cattive possono danneggiare un brahmano.
Ebbene: Yudisthira è dalla parte del fuori-casta, più retto e santo del brahmano.
«Se viene prescritto un atto orribile che è contrario alla fede e alla verità [devo approvarlo]? Devo disprezzare l’esempio dello schiavo giusto? Se il dharma è veramente diventato così debole, allora sono profondamente e totalmente disperato».
Perché Yudisthira è l’uomo morale, assetato di giustizia: una giustizia sostanziale, non formale
o tradizionale.
Come uomo morale, si chiede - unico nel poema, e nel mondo indù - perché c’è il male nel mondo. Perché la sofferenza degli innocenti.
E’ uomo di dolore.

Sua moglie Draupadi è violentata dai nemici, e la donna (che è un alter ego di Yudisthira) lancia un’inaudita bestemmia verso il Signore che permette il male: «egli non tratta le sue creature come farebbe un padre o una madre; gioca con le sue creature come il bambino con le bambole».
Poi si rivolge al marito: «contemplando la disgrazia che ti ha abbattuto e la prosperità
di Duryodhana [il re nemico, brutale guerriero violentatore], io accuso il Creatore che vede simile ingiustizia…Se è vero che le azioni compiute un tempo seguono chi le ha commesse [è la legge
del karma], allora da queste azioni malvage lo stesso Signore sarà contaminato».
Terribile accusa, mai pronunciata in nessun testo sacro, né prima né dopo: che Dio sia colpevole
del male che permette, e soggetto al karma delle male azioni che, onnipotente, non impedisce.
Yudisthira non ha altro da dire alla moglie, se non di essere paziente nell’avversità.
E’ chiaro che la domanda urge anche il lui: perché Dio consente il male?
Yudisthira è il personaggio più tragico del bene: può rinunciare a tutto, ma non alla giustizia.
Ed ecco quale fu la sua fine.

Dopo quindici anni di regno, è pieno di disgusto per «la forza, la violenza e il regno e noi stessi, che mentre viviamo, siamo già morti».
Si spoglia delle insegne regali e va nella foresta, seguito dalla moglie e dai fratelli, fra cui Arjuna. Tutti cadono e muoiono l’uno dopo l’altro, finchè Yudisthira resta solo.
O non proprio solo, perché un cagnolino lo segue, e non vuole lasciarlo.
E gli si fa’ incontro Indra, il dio: vieni con me, il Paradiso ti attende; tua moglie e i tuoi fratelli
vi sono già entrati.
Ma la risposta del re giusto è stupefacente.
Vale la pena di riportare il dialogo: Yudisthira: «questo cane mi è sempre fedele (bhakta, devoto). Lascialo venire con me, perché ne ho compassione».
Indra: «tu sei ora spoglio della mortalità e sei mio pari. Oggi gusterai le gioie del paradiso.
Rinuncia al cane: non c’è nulla di crudele in questo».
Yudisthira: «è difficile per un cavaliere compiere un’azione poco cavalleresca. Non desidero
una gloria per la quale devo rinunciare ad una creatura che mi è leale».
Indra: «in paradiso non c’è posto per uomini con cani…Rinuncia».
Yudisthira: «[…] Non posso abbandonare chi è in pericolo, o chi mi è fedele, o chi è senza amici e afflitto, o incapace di difendersi, o chi è in pericolo di vita, dovesse costarmi la vita. Questa è la mia inviolabile promessa» (1).
Indra: «[…] Hai rinunciato ai tuoi fratelli teneramente amati, e persino a Draupadi. Con le tue opere hai conquistato il mondo. Eppure non vuoi rinunciare a questo cane, sebbene tu sia votato alla rinuncia totale. Oggi sei fuori di te».
Yudisthira: «i morti non li posso riportare in vita. Però finchè vissero, non li abbandonai. Abbandonare un amico leale, mi sembra un’azione tanto malvagia quanto spaventare qualcuno
che cerca insieme a te un santuario, che ammazzare una donna, che derubare un brahmano,
che violare un accordo».

Yudisthira è l’eroe della cavalleria; tutto ciò che professa in questo colloquio è l’etica
- e l’epica - cavalleresca più alta.
Fedele alla sua nobiltà, rinuncia al paradiso se il cane non può entrarvi con lui.
Alla fine (un po’ banalmente) il cagnolino si rivela come lo stesso dio Dharma, e porta l’eroe
in paradiso con sé.
Ma non è ancora il termine della ventura.
In paradiso, Yudisthira vede che c’è anche Duryodhana: il nemico brutale, il violentatore superbo, banchetta sontuosamente.
Si trova lì, gli viene spiegato, perché ha compiuto il suo dharma di guerriero: non ha mai indietreggiato di fronte al nemico.
Poi, gli mostrano l’inferno: e lì vede i suoi giusti fratelli, e la sua moglie violata, nei tormenti.
Per Yudisthira è troppo: lo prende la collera, come non gli era accaduto nemmeno in battaglia,
e maledice il dharma degli dèi.
Questo atto - questa giusta indignazione - è la causa per cui il paradiso gli è chiuso.
Gli dèi non lo puniscono: lo immergono nelle acque del Gange celeste, questo Lete indiano
che dà l’oblio.
Ma non il nirvana.
 
Egli non ha accettato l’imperscrutabile volontà divina che è superiore ad ogni morale e giustizia, non ha giocato l’enigmatico gioco che è la perfezione.
Non ha detto: «ad ogni costo, sia fatta la Tua volontà».
La giustizia gli era più cara dell’«amore» perfetto: quello che «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Non ha capito che quella «ingiustizia» è la carità divina.  
Yudisthira dovrà rinascere sulla terra.
Ripercorrere il cammino della vita.
Avrà a fianco il suo cagnolino, per il quale ha rinunciato al paradiso.
Ma è proprio stato lasciato fuori?
Si osa pensare  che questa storia non sia amara come sembra.
Che per il cavaliere Yudisthira, irriducibile assetato di giustizia, l’unico paradiso possibile
sia proprio quello: camminare avendo al fianco l’amico più fedele.
E che Dio gliel’abbia dato.

Viene alla mente un altro cavaliere letterario, con lo stesso destino: Pilato, il procuratore,
come lo racconta Bulgakov in «Il maestro e Margherita».
L’ultima scena vede Pilato che - sia o no un sogno - sale sulla scia che la Luna lascia sul pavimento, e discute animatamente con l’Uomo che avrebbe voluto tenere presso di sé per assillarlo
di domande, ma che invece ha fatto suppliziare.
Ora i due camminano nella luce di luna; discutono su quel loro argomento interrotto, «che cos’è
la verità?».
Sono in così totale disaccordo, che Pilato non vorrebbe mai finire di discutere con quell’Uomo,
di ribattere, di argomentare.
Nella luce, muto, le orecchie ritte, li segue il nero cane del procuratore, il molosso.
L’unico amico che Pilato abbia sulla terra.
E chi non si contenterebbe di quel paradiso?  



1) Qui è, in poche parole, l’intero codice dei cavalieri, di quelli Rajput come di quelli cristiani. L’inviolabile promessa è il voto cavalleresco di lealtà, di non commettere mai un atto ignobile o vile, di soccorrere gli indifesi, di mettere al servizio dei deboli la loro forza.

 
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