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Il corpo risorge?
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«Salve Direttore,

sono un giovane credente, e le ho scritto perché ci terrei ad avere un Suo pensiero circa una questione… escatologica. So bene che la Fede è (primariamente) uno slancio oltre la ragione, e un tuffo nel Mistero (o salto nella fede, come direbbe Kierkegaard). Ma (perdoni la mia curiosità, frutto probabilmente di un’impostazione filosofica della vita che tende a definire, nei limiti del nostro intelletto, quante più cose possibili) mi preme saperne di più riguardo ciò che il Cattolicesimo (o forse il Cristianesimo in generale) afferma riguardo il destino delle nostre persone dopo la dipartita. Sarò più chiaro: cosa si intende, a Suo avviso, per “resurrezione dei corpi”? È un’espressione allegorica che i luterani e le sette protestanti hanno interpretato letteralmente (sbagliando)? O invece si deve pensare che il destino finale dei figli di Dio sia ancora la “materia”? Tertulliano parlò di una resurrezione finale in “corpi spiritualizzati”. Lessi anche una citazione da un libro di Benedetto XVI° (Escatologia: morte e vita eterna) che dice: “Per la Chiesa antica è significativo che non esisteva alcuna affermazione dottrinale circa l’immortalità dell’anima” — tenendo a precisare che il cristianesimo delle origini si concentrò, almeno nei primi tempi, sul concetto di resurrezione della carne che non su quello dell’immortalità dell’anima.

So che è un dogma della Chiesa Cattolica, ma so anche che può essere non ben interpretato. Spulciando, giorni fa, nel blog di Antonio Socci ho letto: “il cristianesimo è profondamente materialista: i suoi due fondamenti sono addirittura l’Incarnazione di Dio e la resurrezione dei corpi”. Teologicamente nulla da dire, ma lessicalmente parlando quel Cristianesimo definito “profondamente materialista” a me pare una bestialità bella e buona. Rivelativo fu poi, ad esempio, sentire dalla bocca di una testimone di Geova, che loro appartengono a tale setta perché (cito testualmente) “credo tantissimo, e voglio di nuovo tornare qui, in questo mondo, e fare di nuovo i bagni (a mare)”. Mi rendo conto della miseria davvero estrema di questa citazione... ma gliel’ho riferita perché pare essere indicativa di un certo (penoso) modo di sentire attuale.

In definitiva… l’aspirazione finale non è il Regno dei Cieli? Perché fare riferimento (letteralmente) alla resurrezione dei “corpi”? Se essi poi saranno corpi con potenzialità non inferiori a quelle delle anime beate, perché (è questa la mia domanda) definire una certa differenza tra i due? Questo, sinceramente, non riesco a comprenderlo. In più, come si è visto, con questa espressione si tende più a creare una generale confusione (dottrinale-spirituale) che non altro.


Saluti, Giuseppe».
 



Caro Giuseppe, mi piacerebbe essere in grado di risponderti. Ma della resurrezione dei corpi, ne so quanto te, e forse un po’ meno di te che ci hai riflettuto. La nostra esperienza ci dice che ogni corpo umano muore, e marcisce. I filosofi greci, cui dobbiamo l’idea dell’immortalità dell’anima, non concepirono mai una resurrezione della carne, corruttibile per essenza; anzi la aborrirono, considerando il soma un sèma, il corpo una prigione per l’anima, ingabbiata come un passerotto nella gabbia delle sue infermità, imperfezioni degli organi di senso e delle sue passioni, che aspira solo a volar via libero.

Dai greci abbiamo a tal punto assorbito la concezione della separazione dell’anima dal corpo, la diversità radicale di quella, immortale e sottile, da questo grave e infermo, che la nozione di resurrezione dei corpi ci pare inverosimile, residuo del rozzo materialismo ebraico — che effettivamente non giunse a concepire l’immortalità se non tardi, sotto l’influenza ellenica.

Di contro a questi ottimi argomenti, non ho da opporre che un fatto: il Corpo di Cristo. L’insistenza con cui ha annunciato la propria resurrezione, il fatto che sia apparso agli apostoli e a centinaia di discepoli nel suo corpo – certo, un corpo che entrava nelle stanze chiuse, ma che poteva toccarsi, e che poteva mangiare – e la recisa decisione con cui san Paolo replicò c qualcuno che (come te e me) dubitava della resurrezione dei morti: «Se non ci dev’essere la resurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto; e se Cristo non è risorto, inutile è la nostra predicazione e vana la nostra fede».

Ovviamente si può concludere che sì, vana è la fede di Paolo, Cristo non essendo risorto, e nessun altro risorgerà: e si esce dalla fede apostolica. La Chiesa ha sempre insistito sulla materialità del Cristo eucaristico: «Corpo e Sangue» oltre che «anima e divinità». Come ho già raccontato, nel 1996 a Buenos Aires, un’ostia consacrata ha sanguinato; esaminato il reperto nel 2000 (per tre anni era rimasto chiuso nel tabernacolo della sacrestia), un celebre medico legale, dottor Frederic Zugibe, associato di patologia forense alla Columbia University, lo identificò al microscopio come «un lacerto di muscolo cardiaco umano, presso la valvola sinistra», che aveva subito «intense sofferenze» e che gli parve prelevato «da un uomo che era vivente al momento del prelievo», visto che vi pulsavano ancora globuli bianchi, segno di una «infiammazione in atto»: e nei muscoli cardiaci morti non vi può essere infiammazione alcuna.

A me – che ho condotto un’inchiesta in loco su questo fatto e di cui parlerò in un libro in uscita nei prossimi mesi per EFFEDIEFFE – ha impresso serenità: e vorrei tanto poterla trasmettere anche a te. Non ha risposto alle mie domande; ma le ha troncate. Non è spiegabile, è assurda, ma è la realtà. E davanti alla Realtà non c’è che da cadere come l’apostolo Tommaso in ginocchio, dicendo: «Mio Signore e mio Dio!».

In qualche modo, una spiegazione si può ricavare dagli insegnamenti Paolo, che in modo diffuso ha parlato del tema: il Padre non ci ha creato come anime, come angeli; ci ha voluti, noi uomini, fatti di «corpo e anima». Ed è questo che fa del genere umano il «centro» dell’ordine cosmico, fra la Natura e le potenze angeliche superiori, Troni, Principati, Dominazioni di cui pochissimo sappiamo. Per questo, quando i nostri progenitori peccarono d’orgoglio («Sarete come dèi»), la sovversione fu così tragica. Da dominatori della Natura (Adamo aveva il potere di «dare i nomi agli animali»), ne diventammo dominati: soggetti cioè alle pulsioni del bìos, sottoposti alla zoologica fame e sete, schiavi delle brame vitali; da signori a servi della generazione sessuale, e di conseguenza alla malattia, invecchiamento e morte.

È indicativo che nessun uomo mai abbia accettato la morte come un fatto naturale, parte della vita biologica; l’ha sempre vissuta invece come un’offesa, una ferita alla sua vera natura — che morte non conosceva. San Paolo giunge a dipingerla come una potenza ostile, demoniaca: «L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1 Corinti, 15, 26). Analogamente, per il buddhismo Mara, la morte, è anche il Tentatore.

Il fatto è che il peccato originario non ha fatto decadere solo l’uomo dal suo status; ha sconvolto la natura stessa, l’ha sovvertita e degradata, sicché ogni creatura incosciente è coinvolta nella infermità e nella mortalità: tanto è centrale la posizione di Adamo nell’ordine cosmico. Bisognerebbe dir meglio che la sua posizione è «cruciale», posta all’intersezione della gran croce fra natura e sopra-natura, materia e forma, essenza e sostanza, «anima e corpo», fra libertà e servitù, fra l’imperio e il subìre. «Noi siam vermi/ nati a formar langelica farfalla», dice benissimo Dante (Purg. X, 129).

Ciò fa sì che soltanto l’Uomo possa ricostituire l’ordine universale che ha sconvolto. Nessun altro essere è in grado di compiere questa missione, perché solo l’uomo – fra gli esseri della natura – partecipa ai due stati, ed ha l’intelletto e la volontà, può capire e volere la scelta di liberazione. Lo dice san Paolo, nella visione grandiosa, tonante, inimmaginabile, dell’eroico progetto di Cristo:

«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che lha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando ladozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Romani 8, 19-23).

Come vedi, si insiste: gemiamo per «la redenzione del nostro corpo», come gli altri esseri, privi di ragione, – leoni e gazzelle, querce e magnolie, pietre e vene di metallo, erbe e gigli che la sera già seccano – «nutrono la speranza di essere liberati dalla corruzione»: anch’essi saranno immortali? Intenda chi può.

Ma l’Uomo non poteva più rimediare. È una cosa che i contemporanei, sordi alla metafisica e chiusi in una visione gretta e (quando va bene) moralistica del peccato, non sanno e non vogliono capire la sovversione fondamentale dell’ordine cosmico che esso provoca: se Dio è tanto misericordioso ed è onnipotente, perché non ha rimesso il peccato originale e non ci ha ricostituiti gratis nello stato edenico? Dopotutto, Adamo peccando non aveva tolto nulla a Dio, aveva solo danneggiato sé stesso... ciò significa non capire che, nel Regno, la giustizia è divina quanto la misericordia. Lassù non ci sono amnistie votate da parlamenti corrivi, e riduzioni di pena da giudici evolutivi di manica larga. L’offesa fatta a Dio merita, rigorosamente, la pena capitale; e tuttavia nessun uomo, ormai diminuito a essere zoologico in un ordine degradato della natura, poteva «soddisfare» (come dice Tomaso d’Aquino) alla offesa infinita fatta alla maestà divina.

Questo è veramente «il caso serio», come direbbe Kierkegaard: la Misericordia non poteva applicarsi se non veniva adempiuta la Giustizia. Fu allora che il Figlio, il Verbo attraverso cui «tutto è stato creato», leggendo nella mente del Padre la volontà di misericordia per l’Uomo caduto, si offrì: «Sacrificio ed offerta non gradisci, né olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: ecco io vengo (nel rotolo del libro di me è scritto) a fare la tua volontà». Occorreva che l’Obbediente prendesse la natura di uomo, il corpo d’uomo nato da donna, per offrirsi innocente alla punizione che ogni uomo merita, per l’offesa fatta a Dio: la pena di morte, e la morte sulla croce — la croce reale e la croce metaforica, intersezione fra la natura e il Regno invisibile.

La parola «occorreva» qui non esprime necessità: Egli non vi era obbligato in alcun modo. Scelse liberamente, e con ciò noi – chiusi nella natura degradata che è il «regno della necessità» – intravvediamo la legge che vige lassù: la legge dell’Amore senza riserve, che è la legge dell’assoluta libertà – la liberazione da sé, che è la norma e la beatitudine celeste. Egli, sottoponendosi al supplizio capitale al posto nostro, «soddisfece per la colpa del genere umano», con un sovrappiù inimmaginabile di misericordia anche del Padre: infatti «fu per Dio un gesto più generoso di misericordia che se avesse perdonato i peccati senza esigere alcuna soddisfazione», dice l’Aquinate, in quanto «ci donò un riparatore nel Figlio».

L’Abramo antico, che sale sul monte col cuore gravato, pronto a sacrificare Isacco, era Sua figura. In questi senso Gesù è re-sacerdote «secondo lordine di Melchisedek»: Melchisedek significa «re di giustizia», le Scritture lo dicono «re di Salem» — e Salem vuol dire «pace». Il re di pace e di giustizia, il sovrano universale, la Misericordia e il Rigore uniti, dunque ha conciliato in sé la giustizia penale (la collera divina) con la misericordia, la pace che viene profusa «in terra agli uomini di buona volontà». Nulla ha più in comune il suo sacerdozio con quello ebraico, che sgozzava capri per la colpa di un popolo, inefficaci; Melkisedek aveva come rito l’offerta del pane e del vino, per tutta l’umanità. Padre Pio, ricordo, quando affranto dalla passione rivissuta nella sua carne alzava l’Ostia nella Messa, sentiva che stava avvenendo una distruzione e una nuova creazione del mondo.

Se si accetta tutto questo – capisco che è difficile – si possono intuire le conseguenze del nostro riscatto. Una: il Figlio stesso avendo pagato per noi, non ci ha restaurati nel semplice ordine edenico, ma in quello molto più alto della grazia soprannaturale, nel Regno di Dio che non abbiamo affatto meritato: per questo il peccato di Adamo è chiamato «felix culpa», colpa fortunata. L’Eden era un giardino, ossia ancora natura; ora ci è aperta la Gerusalemme celeste, che è una città quadrata, fatta di gemme preziose e su cui non splende più il sole, ma il Sole di Cristo. L’altra conseguenza è che il Corpo di Gesù, avendo subìto liberamente per amore il supplizio, non sarebbe stato più abbandonato da Lui come una spoglia e una scoria. Egli è per sempre alla destra del Padre puro Spirito col Suo corpo, l’Uomo nostro eroe, con le ferite splendenti di gloria. E dietro a Lui anche noi, se ci sforziamo di entrare «per la porta stretta», Lo vedremo coi nostri occhi corporei. Anche i dannati saranno di nuovo «nel corpo», perché l’essere umano è stato così voluto da Dio.

Tu ti chiedi come può essere. Secondo me è inutile sforzarsi di immaginarlo, tanto questa realtà è contraria alla nostra esperienza — esperienza sempre confermata di corpi che si corrompono nella morte. Sai anche, ovviamente, ciò che risponde Paolo: «O stolto, quello che semini non prende vita, se prima non muore. E tu non semini il corpo che deve venire, ma un nudo granello di frumento. Dio poi gli dà corpo come vuole, e a ciascun seme il proprio corpo». Dunque sarà la differenza tra la ghianda e la quercia che ne nasce: incomparabile.

«Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale». E ciò perché «Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. (...) E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste».

Con una conclusione che disorienta invece di esplicare: «Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità».

È una cosa che dobbiamo credere per fede. Ovviamente è forte la tentazione di non credere una sola parola; ma allora dobbiamo sbrigarci a cercare una via di salvezza, con urgenza, perché questa breve vita umana (la sola dalla quale ci si può salvare) ci è data una sola volta. Lo stesso san Paolo esorta chi non crede alla resurrezione a cercare altrove, perché «se speriamo in Cristo solamente per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (I Cor. 15, 19). Non ha alcun senso fare come Gesù comanda, perdonare le offese, amare il prossimo come sé stessi, astenersi dalla rapina, essere casti, abbracciare la propria sofferenza, la propria privata croce, come occasione d’espiazione, insomma fare il contrario di quel che comanda la natura scaduta a «regno della necessità», senza avere in vista la Vita superiore, eterna ed ulteriore.

D’altra parte, non mi sento di mal giudicare la testimone di Geova che spera di potersi tuffare ancora nel mare – gioia in cui tutti noi nuotatori ci riconosciamo. Il cardinal Biffi spera di mangiare tortellini buoni come non ne ha mangiati mai in Paradiso. Paolo VI ventilò che possiamo rivedere i nostri animali amati: «Anch’essi creature di Dio, che nella loro muta sofferenza sono un segno dell’universale stigma del peccato e dell’universale attesa della redenzione finale, secondo le misteriose parole dell’apostolo Paolo». Giustamente Benedetto XVI ha poi ricordato che «per le altre creature la morte è soltanto la fine dell’esistenza terrena», contro i sentimentalismi fanatici animalisti. Ma tutto ciò coglie un’intuizione profonda: non soltanto che tutta la creazione che geme e sospira, sarà liberata dalla schiavitù della corruzione. Dice anche che nella Beatitudine, nulla di ciò che è stato buono, bello e vero nell’aldiquà umano, sarà escluso nel Regno.

Personalmente, mi spiacerebbe se non fosse «salvata» la Commedia di Dante, o «Il Maestro e Margherita» di Bulgakov, ed anche «Il dottor Faust» di Thomas Mann a cui tante ore devo di gioia, tanta dose di sapienza e bellezza – e verità. Il Paradiso non sarebbe completo.

La protesta del Replicante che muore, nel film più teologico della storia: «..e tutti questi momenti che ho vissuto andranno perduti come lacrime nella pioggia» esprime la profondissima offesa dell’uomo affondato nel regno della necessità: le mia lacrime non sono pioggia, la mia esperienza, i miei dolori, non sono natura impersonale, insensata; non devi mescolarle alla pioggia... con questa protesta l’androide si rivela un uomo, uno di noi, non un robot ma un fratello di tragedia. E sappiamo che la sua protesta viene ascoltata: ogni lacrima sarà asciugata, ci è promesso. Non solo non si perderanno Il Maestro e Margherita, ma persino le mai esistite «navi di combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione», perché le ha ammirate una fantasia umana, che da questa immagine è stata condotta più vicina alla Verità. E «Sono Io la Via, la Verità e la Vita».

Immaginarsi il Regno, i suoi «corpi spirituali», lo possiamo fare all’infinito, ma naturalmente si tratta di «opinioni». Viene a proposito quel che Buddha rispondeva a chi lo interrogava sulla natura del nirvana (è cosciente o incosciente? Esiste ancora il Risvegliato dopo la morte?): «Ciò non è stato dichiarato dal Sublime perché non conduce al rinnegamento, non al distacco, non alla cessazione, non alla calma, non alla conoscenza trascendente, non all’illuminazione, non all’estinzione». Ossia: non state a immaginare, discutere e opinare; sforzatevi di entrare. Dove, è detto: «Questa non è ’opinione’; questa è Visione, nel Beato».

Dovrebbe spiacerci solo una cosa: di non essere lì, proprio noi, a godere della comprensione del glorioso, ingegnoso e sorprendente, piano di Cristo di cui oggi vediamo gli eventi prodursi nella storia senza concatenarli, a capire e ammirare la sua vittoria; ringraziarlo in eterno, vederlo Re-Eroe circondato dagli eroi, vedere nella loro bellezza definitiva padre Kolbe e padre Pio – che io credo, scopriremo in veste di guerrieri, nelle loro armature d’oro – la piccola Giacinta di Fatima, le infinite schiere dei più luminosi nella luce della comprensione assoluta, la spettacolare comprensione e Visione. Anche da un’infinita distanza da quegli astri che ci hanno corredento, in un corpo di poca luce (1), sarebbe terribile non esserci, anche negli ultimi posti, a vedere la Festa di Nozze che si svolgerà dietro le porte chiuse, ed essere fra quelli che – per un quarto d’ora di piaceri, di superbia, di possesso – sono «nelle tenebre esteriori dove non è che pianto e stridor di denti».



 



1) «I corpi dei santi non avranno tutti lo stesso splendore», attesta il Catechismo di San Pio V, citando ancora una volta Paolo ai Corinti: «Altra è la chiarezza del sole, altra della luna, altra qulla delle stelle; c’è differenza tra stella e stella nella chiarezza, e così sarà nella resurrezione dei morti» (I Cor. 15,41-42).




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