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Noi, schiavi del grande spreco
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Zosimo, storico del V secolo, racconta: «Costantino (imperatore) impose un tributo in oro e argento a tutti coloro che facevano commercio, anche ai più piccoli. (...) La frusta e la tortura erano impiegate contro quelli che, per troppa povertà, non potevano far fronte a questa tassa ingiusta. Le madri vendevano i figli, i padri prostituivano le figlie, forzati com’erano a procurarsi il denaro per soddisfare gli esattori. Quelli che vivono d’imposta sono più numerosi di quelli che la pagano».

Come ci si era ridotti a quello? Quelli così angariati erano ancora – in teoria – cittadini romani. Persone libere. Il grande diritto romano era ancora vigente e garantiva loro l’inviolabilità personale e la proprietà privata, in teoria. E invece funzionari del fisco li bastonavano e torturavano, li obbligavano a vendere i figli per procurarsi oro e argento che non avevano. Come mai erano giunti a farsi passivamente bastonare da impiegati pubblici che teoricamente avrebbero dovuto essere al loro servizio? Magari l’ultima frase vi ricorda qualcosa: Quelli che vivono d’imposta sono più numerosi di quelli che la pagano».

Sulla eccezionale «efficienza» della burocrazia fiscale ci informa Lattanzio, vissuto appunto ai tempi di Costantino (250-317 circa):

«I percettori vanno dappertutto; si misurano i campi zolla per zolla; si conta il numero delle viti e degli alberi, si registrano gli animali di ogni specie e si prende nota degli uomini per testa» (De Mortibus Persecutorum, capitolo 8).Come si vede, la «guerra all’evasione» era all’apice dell’accanimento, minuziosa, spietata, essendogli esattori dotati di poteri d’eccezione.

Poiché qualcosa ci dice che il popolo italiano è sull’orlo dello stesso collasso, anzi forse c’è già dentro, vediamo le cause dell’autodistruzione romana, nella speranza che se possa ancora scongiurarla per noi. Le idee che seguono, come le citazioni classiche di cui sopra, sono di Bruno Rizzi (La rovina antica e l’età feudale) (1) (1901-1977), ingegnere di formazione, comunista trotzkista e geniale economista «selvaggio» come fu Silvius Gesell, l’ideatore della moneta deperibile: quel genere di pensatori da cui vengono le soluzioni che i cattedratici nemmeno riescono a immaginare.

Ebbene: per Rizzi, la classe dirigente romana, patrizi, senatori, ricchi, latifondisti, si rese colpevole di un’ immensa dissipazione di capitale. Invece di mettere a frutto le ricchezze conquistate ed estratte alle provincie in attività produttive, le sciupano e sprecano in lussi e spese improduttive. Nel periodo d’oro, sul finire della repubblica, «la vita dei ricchi è favolosa, i plebei caduti in miseria possono esser mantenuti dallo Stato» con le distribuzioni di grano, la previdenza sociale dell’epoca di cui godevano 200 mila cittadini e più. L’oro monetato finiva in Asia in cambio delle importazioni di lusso, gioielli, spezie, sete (sono state trovate monete auree romane nel delta del Mekong), o in Africa per comprare leoni, giraffe ed elefanti per il circo; l’argento era risucchiato dallo stato insaziabile per pagare i legionari. I patrizi «si mangiano i patrimoni in tre o quattro generazioni». Dall’inizio del terzo secolo scompare la classe dei cavalieri, i cui capitali liquidi talora furono impiegati in manifatture: solo che gli operai erano i loro schiavi, che hanno sostituito (e rovinato) gli artigiani salariati. E a chi vendono gli oggetti industriali che fabbricano, se non ci sono più salariati col potere d’acquisto per comprarli? Le «imprese manifatturiere» tentate dai cavalieri, classe che potremmo assimilare alla classe media benestante, presto falliscono... la classe media sparisce dalla storia. Restano i grandi appaltatori che forniscono alle legioni rifornimenti alimentari e materiali: pseudo-imprenditori perché lavorano per un solo cliente e grande consumatore, lo stato, e non certo in regime di libera concorrenza (non occorre sforzare la fantasia per indovinare come ottenevano i lucrosi appalti: mazzette, come oggi).

«In una economia mercantile-schiavistica in cui per giunta mancava un adeguato export [l’India non importava nulla dei prodotti romani] il mercato doveva estinguersi man mano che lo schiavismo dilagava, proprio perché lo schiavo è un consumatore quasi nullo di merci», scrive Rizzi. In breve, i ricchi e potenti «non erano più una classe efficiente, la loro economia andava a rotoli».

Già nel secondo secolo, accade qualcosa di terribile: «il capitale mobile scompare.. Non c’è quasi più circolante. Il poco che resta lo risucchia lo stato». Scomparso il capitale liquido, scompare anche il mercato. Il processo è graduale, sicché i contemporanei non capiscono cosa sta accadendo.

Già tre secoli prima di Zosimo e Lattanzio, il senatore Plinio il giovane (62-112 d.C.), proprietario terriero non privo di umanità, descrive bene il male a cui non sa dare un nome.

«Nel contratto d’affitto testé spirato – scrive in una delle sue lettere (IX, 37) – ho dovuto concedere forti abbuoni ai fittavoli. Nonostante ciò, essi non hanno potuto liberarsi dal debito. [E] non sperando più di estinguere il debito, non si curano nemmeno di diminuirlo [...].Non affitterò più in denaro, ma partecipando ai frutti».

Coltivatori che hanno fatto debiti tali, da non poter più ripagarli?

Un banchiere della Bundesbank sarebbe pronto a dire, col ditino alzato, che «hanno vissuto al disopra dei propri mezzi», e devono ridurre i consumi per pagare i creditori. Plinio, più umano, ha condonato loro gran parte del debito, rinunciando a riscuotere gli affitti e consentendo a un parziale default dei suoi fittavoli.

E tuttavia non basta. Il loro debito aumenta (come quello pubblico d’Italia d’oggi), perché – come l’Italia d’oggi quanto al Pil – è la loro produzione di ricchezza che cala. Anche la soluzione trovata da Plinio non fa che aggravare il male. «Non affitterò più in denaro ma partecipando ai frutti», ossia facendosi pagare l’affitto invece che i sesterzi in natura, in pollame, ortaggi e grano? Ben presto i proprietari terrieri si accorgeranno che non sanno che farsi di queste produzioni in eccesso che non riescono a vendere; e cominceranno a chiedere ai contadini pagamento in servizi, in lavoro per i loro campi da arare, i canali padronali da pulire, le staccionate da rifare e case del padrone da sistemare... insomma l’origine dei servi della gleba, obbligati a sfiancare le loro scarse forze in corvées (2), ossia prestazioni gratuite al padrone. Altrettanto ovviamente, la produzione agricola cala al minimo necessario per i consumi interni all’azienda agricola. Si consuma ciò che si produce, e sul posto: è l’economia curtense, le ville di campagna autosufficienti, ovviamente ad un grado bassissimo di sofisticazione tecnica.

Vivono sopra i propri mezzi, i contadini tanto indebitati? In realtà, la rarità (tendente alla sparizione)del denaro circolante li costringe a indebitarsi anche per comprare un abito usato o un po’ di sale. La «attività finanziaria» principale, dilagante ed onnipresente, dei miliardari che hanno (ancora)capitale, è l’usura. I falegnami si vedono chiedere, per comprare a credito due assi di legna, il 30 % al mese. Gli osti comprano a credito un’anfora di vino. Bruto, il patrizio uccisore di Cesare e laudato come eroico oppositore della «tirannide», prestava al 48%... L’usura fu «una imposta esorbitante strappata dai capitalisti ai poveri e ai bisognosi, una rovina per il popolo. Meno si fa commercio, più l’usura è eccessiva». Forzatamente, stroncò sul nascere ogni capacità e velleità imprenditoriale, ogni possibilità di accumulo: e quale mai impresa può restituire alla banca creditrice il 48%, e an cora prosperare?

Resta il capitale immobiliare, i terreni, i latifondi, le grandi aziende agricole. I senatori latifondisti si sentono ancora ricchi... fino a quando non constatano che questo capitale «immobile», è appunto non mobilizzabile, illiquido. E che non vale quanto loro credevano.

Plinio: «La povertà dei fittavoli e la difficoltà delle colture hanno fatto abbassare dappertutto i prezzi delle terre. Questo podere che valeva 500 mila sesterzi oggi ne vale 300 mila» (III, 19).

Vi ricorda qualcosa? È in atto oggi, nel 21 secolo, la stessa caduta dei prezzi degli immobili. Quel «mattone» che sembrava «sicuro» si sta rivelando il ben noto cattivo affare: deprezzato insieme dalla mancanza di mutui (e quindi di compratori), e dal fisco rapace che lo tassa su un valore alto che ormai ha perso, diventa la tagliola con cui lo Stato vi (ci) espropria, obbligandoci a «prostituire le figlie» per dargli i soldi che il mattone, in sé, è incapace di produrre in un mercato senza circolante.

Dite che esagero? Che ancora non siamo obbligati a «prostituire le figlie»? Guardate meglio, il fenomeno è incipiente ma già vistoso. Mamme parioline che sanno e chiudono gli occhi sui soldoni che portano a casa le figlie quindicenni, famiglie che spingono le belle figliole diciottenni a accettare gli inviti alle seratine eleganti di Berlusconi «perché quello paga», giovinette che si propongono la breve carriera di escorts, sapendo che il loro unico «capitale» l’hanno non nella testa (nessuno in Italia paga l’intelligenza e la competenza) bensì tra le gambe, ed è deperibile come una lattuga... Come dice Rizzi, la sparizione del capitale circolante e del mercato «spiega tutto, anche l’orgia» del basso impero: «si dilapida un sovrappiù che non si sa come impiegare». (Date un’occhiata a Dagospia, alle incessanti feste «cafonal» romane che illustra, vedete il party di lusso del comandante e omicida e vigliacco Schettino, e poi ditevi che da noi, le orge di Nerone non avvengono).

Domandiamoci dunque se anche da noi, nell’Italia del 21° secolo, la crisi che ci colpisce non sia l’esito già avanzato di una immensa dissipazione del capitale. Frutto maligno di decenni di sciupìo, di dilapidazioni di fondi.

La risposta l’avete sotto gli occhi. Pensate solo ai 50 miliardi di euro annui che da decenni, il sistema succhia dall’area lombardo-veneta e romagnola (sottraendolo ad impieghi produttivi, ad investimenti industriali), per riversarlo nel pozzo senza fondo del parassitismo pubblico, e – come un liquore prezioso – nel lavandino delle Regioni meridionali, dove si perde senza alcun beneficio per la popolazione, e senza aver mai innescato nessuna ripresa produttiva o capacità d’intrapresa. Capitale sprecato. Da venti, trent’anni. Capitale che non torna più.

Ma non dimentichiamo i «privati», i «capitalisti», gli italici «imprenditori». Da sempre «capitalisti senza capitale» (Agnelli e Pirelli se lo facevano dare a condizioni di favore della Mediobanca di Cuccia: ed era denaro pubblico), a Rovelli a De Benedetti, è difficile trovare nel mondo dilapidatori di capitale di pari stupidità ed arroganza dei nostri. Pensate ai «capitani coraggiosi» che, da Berlusconi, si sono visti regalare Alitalia depurata da debiti i 4 miliardi , e non sono stati capaci di farci nulla.

Hanno perso mercati, hanno sciupato enormi liquidità, hanno degradato il valore delle loro stesse aziende: pensate solo alla Montecatini, alla Olivetti, alle auto Fiat. Pensate alla famiglie Benetton che ha cessato di imprendere e rischiare, per aggiudicarsi le «autostrade», una rendita sicura e monopolista. Pensate, da ultimo, ai Loro Piana che si sono venduti la loro azienda di successo, che faceva utili enormi, ai francesi del Gruppo Arnault. Pensate ai Merloni che hanno venduto il loro gruppo ai concorrenti americani della Whirlpool. S’erano stufati di imprendere, ossia di lavorare, e adesso vivranno di rendita. Hanno preso 2 miliardi di euro gli uni, 780 milioni gli altri; come i senatori e patrizi romani, nel giro di due otre generazioni li avranno forse persi; in ogni caso, sono capitali che non s’impiegheranno in Italia, andranno a Wall Street, ma qui sono usciti.

E non ci s’illuda che oggi, la sparizione romana di capitale e mercato non può avvenire, perché «siamo nell’euro», perché «la finanza globale è stracolma di capitali» (come ci fanno credere).

Il Governo italiano ripete che «vuole attrarre investimenti esteri»: risibile proposito, con un fisco rapace ed arbitrario che hanno creato, una burocrazia ostile che mette solo bastoni fra le ruote, un paese in declino d’intelligenze e competenze dove i costi sono aumentati da inefficienze mostruose – e mai eliminate.   Delittuosamente, il settore pubblico e la politica (i parassiti che ci divorano) stanno per fare le ultime «privatizzazioni», cioè svendita del patrimonio, del capitale storico accumulato dal fascismo (IRI) fino al miracolo economico: poi, non ci resterà più niente, è «lo speziale che si mangia lo zucchero», come diceva il proverbio.

Il demanio ha messo in vendita l’isola di Poveglia, nella laguna veneta, sperava di ricavare chissà cosa. Come Plinio, ha avuto l’amara sorpresa: non s’è presentato che un imprenditore locale, il quale ha offerto 513 mila euro, il prezzo di un bell’appartamento a Milano. Stranieri miliardari non se ne sono presentati, e ci si è chiesti perché. Possiamo spiegarvelo noi: gli stranieri sanno che se comprano in Italia una casa o una villa, sono obbligati a riferire alla nostra valorosa Agenzia delle Entrate tutti i beni immobili che, eventualmente, hanno in giro per il mondo. E’ una belle idea di Befera, una genialata del tutto inutile (non potendo il nostro fisco colpire case in Florida, o magioni a Dubai, anche se vorrebbe), che tiene alla larga i capitalisti esteri. I quali hanno già visto che i loro yacht, conviene tenerli in Croazia o Costa Azzurra, perché da noi i noli sono supertassati. E poi vogliamo attirare i capitali esteri. Non facciamo ridere.

La finanza globale non si precipiterà in Italia se non per partecipare alla predazione, perché sa troppo bene che qui il capitale è stato ed è sprecato o saccheggiato. E inoltre, perché la finanza globale stessa sta riproducendo a livello planetario l’enorme risucchio «romano» dal basso all’alto, che impoverì i plebei fino a togliere loro il potere d’acquisto, e accumulò i profitti in alto in sempre più poche mani, il famoso 1% che non sa più come impiegarlo e lo spreca e dilapida in speculazioni che non fecondano l’economia reale, indebitando sempre più le masse occidentali – fino all’insolvenza, come ha già rivelato la crisi dei subprime del 2008.  Capitali veri,, da lì, non ne verranno. Quelli tedeschi, aspetta e spera.

E siamo finiti, perché  nostri, capitali, li abbiamo scialacquati. Al ritmo di 50 miliardi l’anno, il Nord Italia ha perso e visto versare nel lavello dei parassiti e   nel cesso del Sud regionale almeno mille miliardi. Di euro. I nostri politici, col nostro assenso a volte entusiasta, ci hanno fatto «entrare nell’euro» perché così potevano indebitarsi ancora, onde mantenere ancora le loro clientele improduttive e i loro emolumenti indebiti e colossali, qualche annodi più. Non potevano capire – stupidi come sono – che proprio questo ha manifestato il male che nascondevano. L’adozione di una moneta straniera, che dobbiamo guadagnare con l’export e le vendite di nostri prodotti e non possiamo stampare né svalutare, ha coinciso con il nostro declino economico come nazione.

Abbiamo perso esattamente da allora competitività, anno dopo anno, ineluttabilmente, sprecando capitali e vedendoli emorragicamente dileguare. E tale declino, è anche, declino di creatività, di arte e di cultura, di attività, di volontà, di prospettive. La stessa cosa accadde nel basso impero, persino la lingua divenne più piatta e rozza e volgare.

Ufficialmente, gli economisti al servizio del politici (e sindacati, e parassiti), lamentano «il calo dei consumi». Contemporaneamente, annunciano nuove tasse e adesso persino un taglio delle pensioni sui 3 mila euro mensili: ovviamente, pensioni con cui i nonni sostengono «i consumi» dei nipoti disoccupati cronici. La loro decurtazione non farà che collassare ancor più i consumi. Fin quasi al livello dello schiavo romano, «non consumatore» per eccellenza.  Andando avanti così, i funzionari pubblici da 500 mila euro annui ci verranno a bastonare per estrarci le catenine, gli anelli e i denti d’oro: in nome della «lotta all’evasione». Ci faranno servi della gleba (i precari (3) già vi sono avviati), finiremo per offrire servizi non pagati a chi ci dà protezione e il vitto, come nell’età feudale? Tutte le ricette austeritarie e burocratiche vengono adottate, tranne l’unica necessaria.

L’importante, per lorsignori, è che noi non raggiungiamo mai la coscienza collettiva del vero problema: che «Quelli che vivono d’imposta sono più numerosi di quelli che la pagano».





1) Tra i fondatori nel 1921 del Partito Comunista d’Italia, Rizzi non tardò ad accorgersi della mutamento della rivoluzione bolscevica in Urss in una «dittatura burocratica». Espulso perciò dal PC d’I, Rizzi entra in contatto con Lev Trotzki, con cui intratterrà una corrispondenza che fornirà i materiali per la sua prima opera importante, La Bureaucratisation du Monde, un’analisi serrata sulla deriva di ogni regime (anche fascista, anche il «democratico» statunitense) verso una tecnocrazia e burocrazia universale: opera letta in precisi ambienti culturali  apparentemente diversi, da George Orwell a Guy Debord, da Daniel Bell a Guido Ceronetti, da Bettino Craxi a Luciano Pellicania Paolo Flores d’Arcais. Il massimo esponente del trotzkismo americano, James Burnham (poi diventato un destrorso) non si peritò di plagiare l’opera di Rizzi – di cui lesse il brogliaccio in possesso a Trotzki – per il suo saggio di rinomanza internazionale, «The managerial revolution», appunto sull’emergere della tecnocrazia. Per Rizzi, «quando il mercato si estingue, la civiltà regredisce e l’arte, l’economia, l’architettura, la poesia, la politica e ogni altra manifestazione del progresso umano sprofonda negli abissi della barbarie. Sia che il mercato muoia per cause non previste, come avvenne in seguito alla diffusione della schiavitù nella civiltà antica, sia che muoia per una scelta deliberata rispondente a un preciso disegno politico, come in Urss, gli effetti sono sempre gli stessi: la nascita di una classe parassitaria di burocrati che assume, con la proprietà dei mezzi di produzione, il controllo degli individui». Le considerazioni di cui in questo articolo mi sono state suggerite dalla lettura di La rovina antica e l’età feudale, di Bruno Rizzi, appassionatamente e  scrupolosamente curata – e in un certo senso completata con le note – dell’amico Paolo Sensini e B. Chiorrini Dezi, Marco Editore, Cosenza 2006.
2) A partire dal secolo III-IV, i coloni, che si trovavano in una condizione di semi-schiavitù, erano obbligati, oltre al pagamento di un canone annuale, a lavorare gratuitamente le terre del proprietario terriero per un certo numero di giornate all’anno.
3) La tarda romanità inaugurò infatti, guarda caso, il «precarium»:  istituzione in base a cui un padrone concedeva l’uso di un suo terreno ad un miserabile, stra-indebitato (oboeratus) e senza reddito, ma solo a patto che costui gli rivolgesse una umile preghiera (da cui il nome: precare). La concessione era dunque non un affitto nemmeno gratuito, ma un beneficio, un favore che poteva essere revocato in qualunque momento, senza che il poveretto potesse reclamare un qualunque diritto.  Il miserabile e la sua famiglia, con l’istituto del precarium, si consegnavano mani e piedi al proprietario.




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