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La grande frode (parte I)
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PARTE I
Formalmente, i CDS (Credit Default Swaps) sono prodotti finanziari che funzionano come polizze assicurative: quando uno speculatore acquista titoli di un’entità (impresa, banca, Stato) che ritiene possa fallire e dunque non pagare i suoi debiti, si assicura acquistando un CDS da un’altra entità finanziaria, che si obbliga, in caso di fallimento, a risarcire la perdita all’acquirente.

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Nella realtà, i CDS sono stati creati inizialmente per aggirare le norme bancarie internazionali, dettate da Basilea 2. Per esempio, la banca Lehmann Brothers (quarta banca d’affari USA, fallita nel 2008) aveva un’esposizione di 9 mila miliardi di dollari (9 trilioni) in derivati; una cifra astronomica, per la quale non aveva nemmeno lontanamente la quantità di capitali proprii prescritta da Basilea 2 (8%). La copertura con un CDS emesso dalla AIG, la colossale assicuratrice americana, consentì alla Lehman di ridurre la quantità di fondi propri dall’8% al 2% secondo le norme di Basilea 2. Dal momento che era assicurata contro i rischi, la Lehman ha potuto dunque prestare 4 volte di più.

La crisi dei subprime ha mostrato quanto valeva quella pretesa assicurazione: una cicca. Non solo Lehamn è fallita (è stata lasciata fallire dalla Federal Reserve e dal Tesoro USA, infarciti di personaggi che avevano operato nella Goldman Sachs, la concorrente), ma la AIG è stata destabilizzata ed ha dovuto ricorrere alle iniezioni dello Stato; e il crollo ha innescato l’attuale crisi mondiale finanziaria.

Ben presto i CDS sono stati totalmente sviati dalla loro vocazione originaria, per non essere altro che veicoli della speculazione finanziaria. Il loro ammontare, oggi è cinque volte più elevato dei crediti pretesamente assicurati. E nessuno risponde alla semplice domanda: in caso di fallimento, poniamo, di Grecia o Italia, o anche di una banca internazionale troppo grossa per fallire, gli assicuratori che hanno emesso CDS dispongono dei fondi per far fronte alla marea di richieste di risarcimento?

La risposta è no. Le vere compagnie di assicurazione devono per legge avere a disposizione ampie riserve, a copertura degli imprevisti; nessuna garanzia del genere viene richiesta agli emettitori di CDS.

La funzione speculativa è accentuata dall’emissione di CDS cosiddetti nudi (naked), il che significa: comprati da chi non possiede i titoli da assicurare contro l’insolvenza. Nel mondo dell’assicurazione vera, è come se Johnny Walker chiedesse di assicurare non la propria auto, ma quella del signor Jack Daniel. Il che significa che se l’auto di Jack Daniel va a fuoco, la Polizia avrà fondato motivo di sospettare il signor Walker, che ha incassato il risarcimento. Difatti, nel mondo assicurativo, ciò è vietato. Nel mondo della finanza, il compratore di CDS nudi ha tutto l’interesse, se può, di provocare il fallimento del titolo sottostante. Di fatto, giornalisti del Financial Times hanno identificato dei trader che spingono aziende al fallimento per intascare i premi dei CDS.

Goldman Sachs ha venduto i CDO (Collateralized debt obligations) della finanziaria Abacus ai suoi clienti, mentre per conto suo scommetteva contro puntando sull’insolvenza di Abacus. A peggiorare la cosa, è il fatto che i CDS non vengono venduti su mercati aperti noti a tutti, ma creati volta per volta, o in dark pool.

Basterebbe che i governi si accordassero ad applicare ai CDS le stesse leggi che applicano alle compagnie assicuratrici e alle loro polizze, per far sgonfiare questo malefico mercato e la sua particolare bolla. Chissà perchè, nè i governi, nè gli organi finanziari globali come il FMI e la Banca dei Regolamenti Internazionali avanzano questa proposta.

I dark pools sono dei mercati elettronici paralleli dove si scambiano azioni in tutta discrezione: ciò permette di comprare e vendere azioni senza che ciò influisca sui corsi di quelle azioni, che dipendono dal mercato ufficiale.

Si potrebbe pensare che i regolatori (Stati, Banche Centrali, Consob, SEC...) si affrettino a vietare tali borse oscure, almeno in nome della mitica trasparenza dei mercati, se non per le possibilità di aggiotaggio e insider trading che essi consentono, per non parlare del riparo che offrono ad ogni tentativo di tassazione delle transazioni finanziarie. Al contrario, i dark pool sono stati creati grazie a una direttiva europea del 2007, che ha eliminato il monopolio delle Borse, e consente di sfuggire alla già minima regolamentazione vigente nelle piazze ufficiali.

Nel 2010, già il 7% degli scambi in Europa, e oltre il 20% in America, passava per i dark pool. In caso di crisi grave, questo mercato oscuro sarà il primo a crollare, per la mancanza di fiducia degli operatori che vi regna. Ma quando il mare è calmo, essi permettono alla finanza di fare profitti stellari. È grazie a questi profitti che l’alta finanza s’è distribuita bonus incredibili (145 miliardi nel 2009) e ha indotto il gran volo degli alti redditi: in USA, l’1% della popolazione concentra nelle sue mani il 24% del reddito nazionale.

Il trading ad alta frequenza ( High Frequency Trading) è un altro dei discutibili metodi che ha preso piede: a condurre il gioco sono dei supercomputer posseduti dalle grandi banche d’affari, che impiegano algoritmi sofisticatissimi per analizzare le quotazioni; essi prendono migliaia di posizioni ogni secondo, posizioni che tengono solo per qualche secondo per poi, con la stessa rapidità della luce, scaricarle. Ciò per decine di migliaia di volte al giorno. I profitti si realizzano per grandi volumi.

In USA, attualmente, il 70% dei volumi scambiati dipende da questi trading meccanizzati ad altissima frequenza; in Europa, almeno il 40%. Il che sconsiglia le persone normali ad entrare ormai nei mercati azionari, in cui non si può competere senza il possesso di supercomputer Cray e stuoli di ingegneri informatici.

Il trading ad alta frequenza, oltre che distorcere il mercato, facilitare le manipolazioni dei corsi e mascherare le frodi, provoca ogni tanto crolli abissali ed inspiegabili: il 6 maggio 2010, il Dow Jones s’è inabissato del 10% in dieci minuti, in quanto i supercomputrer, alimentati da software simili, davano tutti insieme gli stessi ordini di vendita.

Già prima del crack Lehman, per diversificare gli investimenti, la speculazione ha invaso i mercati delle materie prime: tra il 2001 e il 2009 i fondi che la speculazione ha dedicato a questi mercati è passata da 10 a 250 miliardi. La speculazione ha portato in questi mercati – un tempo riservati agli acquirenti e venditori fisici di materie prime, che terminava con la consegna fisica del carico di merce – i suoi propri metodi: per esempio, facendo aumentare i prezzi di grano, petrolio e rame , visto che è possibile acquistare a termine anticipando solo il 15% della somma. La speculazione guadagna da rialzi che ha essa stessa provocato – a credito. Oggi un singolo barile di petrolio passa per 35 mani prima di essere effettivamente consumato.

I profitti sono accresciuti grazie a un enorme effetto leva (in pratica: la speculazione moltiplca le sue giocate indebitandosi) che oggi paghiamo tutti.

Abbiamo visto la prima fase: gli speculatori acquistano degli attivi rischiosi a credito, ciò che ha portato in alto i valori di questi attivi, ciò che ha permesso alla speculazione di intascare grassi profitti grazie all’effetto-leva. Ora stiamo subendo la seconda fase, quando gli attivi evaporano, e i debiti si addensano, diventano pesanti come macigni, imponendo un deleveraging (dis- indebitamento) selvaggio generale, di aziende, banche, Stati, famiglie, e dunque la recessione.

(Fine prima parte)

La grande frode (parte II)



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