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L’Europa è morta. E adesso?
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Avete capito che cosa si sono detti e cosa hanno deciso i dirigenti dei Paesi UE il primo marzo a Bruxelles? Se avete letto i giornali italiani, probabilmente no. Sui giornali francesi, trovo qualcosa di più: s’è parlato del rischio di bancarotta di alcuni Stati della zona euro, e della possibile necessità della loro uscita dalla moneta unica. Insomma, della morte dell’Europa cresciuta senza democrazia, a forza di fatti compiuti dietro le quinte.

Le Monde dice: la forbice dei tassi d’interesse dei debiti pubblici dei differenti Stati che adottano l’euro non sono mai stati così elevati (i BOT italiani devono offrire un interesse più alto di quelli tedeschi, ad esempio). Conseguenza?

«Il rischio di un un default sui pagamenti d’uno Stato della UE o della zona (i Paesi dell’Est) non è da escludere», traduce Bruno Cavalier, economista di una società finanziaria francese, Bourse Oddo (1).

Ovviamente, il governatore della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet, ripete che non c’è alcun pericolo della implosione della zona euro. E l’eurocrazia continua a spingere per accelerare l’entrata nella zona euro ai Paesi dell’Est che, così, porteranno a noi i loro problemi di insolvenza.

Ma proprio l’euro ha creato gran parte dei nostri problemi. Primo fra tutti, l’incapacità di reagire alla crisi economica mondiale. Il patto di stabilità impone regole rigide, incomplete e inadatte alla crisi. Esso obbliga alla convergenza di alcuni indicatori (inflazione, tassi d’interesse, deficit e debito); obblighi a cui si può soddisfare solo a prezzo di fortissimi squilibri dentro la UE: per esempio la crescita dell’indebitamento privato che ha generato un boom fasullo, a prezzo di grossi deficit delle bilance di pagamento in Grecia, Spagna e Portogallo.

Il rischio più imminente riguarda la Grecia (si sono sussurrati lorsignori il primo marzo), sottoposta a durissime misure di riduzione dei disavanzi di bilancio, che tuttavia non sono bastati a sanare la situazione di un Paese povero e relativamente poco produttivo.

Con l’euro che è salito a 1,60 sul dollaro, ed oggi è ancora a 1,25, l’economia greca perde ogni competitività (ciò vale anche per l’Italia, come sappiamo); la moneta forte (in pratica il marco tedesco) non corrisponde alla realtà del Paese. La BCE è responsabile di questo strangolamento: nel giugno 2008 ha addirittura rincarato i tassi primari, rafforzando l’euro (dunque rendendolo sempre meno competitivo) mentre l’Europa era già entrata in recessione, e gli USA e la Gran Bretagna tagliavano i loro tassi quasi a zero, praticamente derubandoci dei nostri mercati. Di fatto, Gran Bretagna e USA, con le loro monete indebolite, hanno conosciuto in piena crisi persino un piccolo booom dell’export.

Ora, i capintesta sperano che la BCE – su cui non hanno alcun potere, se non se lo prendono a forza – si degni di abbassare i tassi all’1,5%, il prossimo 5 marzo. Naturalmente, ancora una volta, troppo poco e troppo tardi: dovrebbe ridurre i tassi a 1%, in modo che l’euro cali ad almeno 1,10 sul dollaro, altrimenti la recessione in Europa continuerà e sarà più atroce che in USA.

E naturalmente, a questo punto, nemmeno questo basterebbe. La crisi globale riduce il lavoro e la produzione, i salari e i redditi e i capitali disponibili, proprio nei Paesi come la Grecia, e dunque gli introiti fiscali. Sicchè i deficit di questi Paesi sono destinati ad aumentare, anche per i costi astronomici dei salvataggi bancari in corso. Gli Stati si prendono in carico gli «asset negativi» delle banche, e questo pone le finanze pubbliche in una situazione insostenibile.

Dunque effettivamente alcuni Paesi saranno costretti a fare fallimento – a sospendere il rimborso del loro debito pubblico – ciò che potrebbe spingerli ad uscire dalla moneta unica e tornare a una moneta nazionale svalutatissima. In ciò aiuta la speculazione finanziaria – che non è ancora stata punita e ridotta all’impossibilità di nuocere: volano i prezzi dei Credit Default Swaps (CDS), i derivati con cui la speculazione pretende di «assicurare» contro i rischi di default di certi Stati, Irlanda, Austria, Italia, Portogallo, Spagna, Belgio.

Naturalmente non assicurano nulla (chi li emette non ha nemmeno lontanamente i fondi per pagare il «premio assicurativo» in caso di default di uno Stato), ma divaricano ancor più la forbice tra i BOT dei Paesi deboli e dei Paesi (presunti) forti. I CDS dovrebbero essere semplicemente vietati per legge, e dichiarati vuoti e nulli i loro contratti. Non lo si fa, e dunque il rischio di una spaccatura europea diventa inevitabile.

Di questo si è parlato in Europa. Ci si è chinati sulle disgrazie dell’Austria, un caso estremo, perchè le sue banche hanno prestato dissennatamente a Paesi dell’Est: ed hanno prestato in divise estere, euro, franchi svizzeri. Siccome le monete di Paesi come Bulgaria, Ungheria e Romania si sono brutalmente svalutate rispetto all’euro e al franco, i debitori romeni o bulgari non riescono più a rimborsare le rate – che sono raddoppiate in moneta locale. Basta che un terzo dei prestiti non sia rimborsato, perchè l’Austria perda l’8-9% del suo prodotto interno lordo: cifra enorme, impossibile. Francia e Germania, per confronto, possono perdere in questo caso l’1% del PIL.

Colpa delle banche, delle Banche Centrali e della BCE (ma questo i governanti europei non se lo sono detti) che hanno mancato di vigilare, e non hanno impedito l’espansione mostruosa del credito bancario all’estero.

In Irlanda, per esempio, paesello di pochi milioni di abitanti, il sistema bancario pesa il 900% del prodotto interno lordo, nove volte la ricchezza che la nazione può produrre (banche di Germania e Francia; «soltanto» 300-400%). Ci si consola dicendosi che i rischi delle banche irlandesi sono più diversificati di quelli delle banche austriache, concentrati sull’Est. Sì, sono «diversificati» verso gli USA, sai che prosperità. L’Irlanda rischia il default come l’Austria e la Grecia.

Per scongiurare il peggio, occorrerebbe una più spiccata solidarietà intra-europea. Il modello dovrebbe essere quello federale tedesco esteso all’Europa, dove una parte delle imposte sul reddito, sulle società e dell’IVA vengono direttamente redistribuiti ai Laender, sulla base del reddito per abitante. Se in Europa esistesse questo meccanismo, non si parlerebbe della vulnerabilità della Grecia o dell’Italia. La UE non sarebbe uno spazio monetario ma una regione economica, dove tutti i cittadini dovrebbero avere un livello di vita paragonabile. Il miglioramento dei livelli di vita nei Paesi sfavoriti aumenterebbe, alla lunga, la crescita di tutta la zona, a vantaggio di tutti i Paesi.

Ma a breve termine, tale meccanismo si tradurrebbe in questo: che la Germania, in piena crisi, dovrebbe finanziare il livello di vita dei greci e degli italiani con le tasse dei suoi contribuenti, e senza poter dire la sua sul modo in cui Grecia e Italia sono sgovernate.

(Forse, in cambio del sostegno fiscale tedesco, potremmo lasciarci mettere in amministrazione controllata dal governo tedesco? Forse potremmo dare come pegno qualche regione – un nome a caso, la Calabria – perchè la risanino e ne estraggano la ricchezza che, sotto lo stivale germanico, potrebbe produrre, anzichè produrre malavita, mazzette, frane e morti in ospedale? Ma questa è solo ironia).

Il federalismo tedesco dovrebbe essere adottato in toto: per esempio i Laender sono «autonomi» in fatto di bilancio, ma non possono emettere debito proprio, se non per finanziare investimenti che accrescono la ricchezza futura (pensate ai Comuni e alle Regioni italiane, che si sono indebitate come Stati sovrani, emettendo BOC – Buoni del Tesoro Comunali – ed acquistando derivati-truffa con l’incoscienza di compratori del Colosseo, sapendo che – tanto – alla fine a pagare per le loro follie sarà lo Stato, ossia il contribuente).

Si parla di una emissione di debito «europeo». La BCE, o un’agenzia ad hoc, emetterebbe BOT europei, e i mercati sarebbero invitati a comprare il debito europeo, anzichè di questo o di quel Paese – i tassi sarebbero uguali per tutti, e la distribuzione tra Germania e Grecia (o Italia) avverrebbe da sè.

Ma per questo, occorre un goveno europeo. E qui gli eurocrati e gli euro-fili sono pronti a incolpare i popoli: colpa vostra, cittadini, che avete votato no ai referendum, e impedito l’integrazione politica...

E’ un’accusa falsa. Quel che occorre qui, è un «governo europeo» di un tipo che gli eurocrati non hanno mai pensato: un governo dove appunto i tedeschi (che pagano) possano dirigere i greci e gli italiani (che prendono), imporre i loro risanamenti, le loro istituzioni e controlli della spesa pubblica, e la loro amministrazione.

E’ una cosa che non si riesce a fare in Italia, dove il Nord copre i debiti della Sicilia e della Campania, ma non può non si dice metterle in amministrazione controllata, ma nemmeno criticarle per come spendono i suoi soldi.

Inoltre, vale l’argomento principe che vale contro il mondialismo: cosa ci garantisce che un governo sovrannazionale agisca meglio di un governo nazionale, che è sotto il controllo dell’opinione pubblica? L’Europa non ha dato prova di capacità amministrative, previsionali e decisionali sensate fino ad oggi. Perchè dovrebbe cambiare domani?

L’aggravamento della crisi europea è proprio dovuta alle «regole» imposte via via dagli eurocrati fin dai tempi del loro gran maestro Jean Monnet, surrettiziamente («nell’ombra», diceva lui ). Regole che, prevedeva cinicamente Milton Friedman (il padre del monetarismo) sarebbero saltate in aria alla prima recessione.

La grande prova è arrivata, e l’Europa salta.

La Merkel ha già risposto picche alle richieste di solidarietà europea, ha detto che si interverrrà caso per caso. Sarà ottusa, ma dopotutto è difficile darle torto. Perchè la Germania dovrebbe pagare per le malversazioni della Calabria, senza avere il potere di raddrizzarla?

Sicchè, conclude Le Monde, «Grecia Spagna o Italia potrebbero essere tentate – o forzate – ad abbandonare l’euro per ritrovare più margine di manovra», ossia svalutare. Il dramma nella tragicommedia è che la UE non ha, fra le sue infinite «regole», una previsione di questo genere, una clausola di uscita – che consentirebbe una qualche uscita ordinata. L’uscita sarà in catastrofe (2).

Il sopra citato Bruno Cavalier evoca questo scenario per la Grecia: se la Grecia tornasse alla dracma, «il Paese si troverebbe di colpo in una crisi dei cambi, a pagare tassi d’interesse altissimi e a una crisi bancaria, sotto l’effetto di fuga dei depositi, con conseguenze sociali ed economiche drammatiche. La Grecia dovrebbe mendicare un prestito al Fondo Monetario Internazionale e sottomettersi alle sue “ricette di risanamento” (letali, nota del redattore), e non ristorerebbe la sua credibilità (come debitore) per lungo tempo». Inoltre, la «svalutazione non risolve tutti i problemi. Al contrario li aggraverebbe con una più forte inflazione e un costo del denaro più alto. Il Paese dovrebbe rimborsare il suo debito in euro, cosa impossibile con la dracma svalutata, o convertirlo in dracme, il che porterebbe a un default dei pagamenti di tipo argentino».

Questo scenario-catastrofe vale anche per l’Italia?

Sì, ma io credo in misura minore. L’Italia ha un mercato interno più grande della Grecia, e meno debiti delle famiglie. Lo scenario terroristico di Cavalier dimostra solo una cosa: che l’uscita dall’euro (certo, grave di conseguenze, e pugno di ferro contro la fuga dei capitali) deve coincidere con il ripudio del debito sovrano. Metà del nostro debito in BOT è detenuto da stranieri, che si succhierebbero dunque metà della perdita. E una volta liberati dal peso di 80 miliardi di euro annui da pagare ai creditori, gli altri mali ventilati da Cavalier sono cose con cui noi italiani abbiamo convissuto dal dopoguerra fino agli anni ’80: costo del denaro alto, inflazione alta, interessi sui BOT altissimi. Tutte cose bruttissime, che non hanno impedito periodi di crescita economica; con il nostro ritmo, secondo la realtà del Paese.

Così si spiega perchè la prospettiva spaventi soprattutto gli altri.

«Bisogna fare tutto per evitare una uscita», dice Marc Touati (analista francese alla Bourse Global Equity), perchè «se la crisi dura troppo e diventa crisi sociale, un Paese come la Grecia può essere forzato a scegliere fra la peste e il colera». Ossia uscire dall’euro, a qualunque prezzo, sulla pressione popolare.

Per l’Italia, questa peste sarebbe in forma più lieve. E porterebbe via mercati alla Germania, che ha puntato troppo sull’export (come la Cina, i Paesi e i settori esportatori sono i più colpiti: in Italia, i meno colpiti sono i settori che si occupano del mercato interno, mentre il Made in Italy va a pallino).

Sicchè, ammette Le Monde, «gli Stati della zona euro non hanno niente da guadagnare a lasciarne uscire un loro partner. Se un Paese è in difficoltà, gli altri 15 hanno interesse ad aiutarlo, siamo tutti nella stessa barca».

Solo che lorsignori non pensano alla impossibile (per volontà tedesca) soluzione di cui sopra, in cui di fatto la Commissione Europea onorerebbe i debiti di uno degli Stati pericolanti. Pensano invece ad «aiuti» degli altri Stati su quello, garanzie sui prestiti, intervento coordinato col Fondo Monetario… insomma il colera invece della peste.

La Banca Centrale Europea non può (come ha ventilato di fare la Federal Reserve) acquistare direttamente il debito (i BOT) emessi da uno Stato della zona euro. Le sue «regole» glielo vietano. Potrebbe scavalcare il divieto comprando titoli di debito pubblico sul mercato; ma non lo fa, è «contrario allo spirito di Maastricht». Potrebbe comprare titoli privati, e forse lo farà – chissà perchè, qui lo spirito di Maastricht non è contrariato.

Tutto è affidato alla speranza di una «evoluzione del modo di interpretare le regole europee», ossia di forzarle senza dirlo. In un modo o nell’altro, l’Europa non è messa bene.

Si tratta della difficoltà di pensare fuori dagli schemi. Cosa che sembra – non sorprende – più difficile in Europa che in USA. Lì, almeno qualcuno sta cominciando ad esprimersi fuori dagli schemi: davanti all’immane aumento della spesa pubblica a debito, Richard Cock – un economista che è stato analista di passati governi – evoca la possibilità di emanare una «debt-free money» (3).

Le banche (a cominciare dalla Banca Centrale) creano moneta indebitando Stato e privati. E’ l’unico modo con cui si riesce a pensare, oggi, l’espansione monetaria; ma nelle attuali condizioni, gli interessi spengono ogni ripresa possibile (4).

«Ma c’è stato un tempo nella storia americana in cui si conoscevano altri modi di creare moneta, per esempio durante la guerra civile, quando il Congresso autorizzò Lincoln a creare, spendendoli, i Greenbacks» (dollari di Stato). Naturalmente le banche odiavano i Greenbacks, così indussero il Congresso a varare il National Banking Act del 1863, che fu il preludio della privatizzazione monetaria compiuta con la creazione della Federal Reserve nel 1913.

Un altro esempio portato da Cook per introdurre moneta senza-debito nell’economia è «attraverso un dividendo, come quello dell’Alaska Permanent Fund». Apprendo così che l’Alaska incamera una parte degli introiti petroliferi in un Fondo, che ben amministrato, dà un dividendo a tutti i cittadini alaskani. Nel 2008, ogni residente ha avuto 3.269 dollari, un «dividendo» dallo sfruttamento delle risorse dello Stato. E’ possibile, dice Cook, che ogni Stato possa pagare un simile dividendo.

Ciò porta Cook a proporre una «Dividend Economics»: l’emissione di «buoni» (vouchers) del valore di mille dollari mensili, da emettere dal Tesoro e da dare ad ogni cittadino adulto. I vouchers sarebbero normalmente tassati in cumulo con altri eventuali redditi (chi avesse solo quelli, sarebbe ben poco tassato). Secondo il piano, i buoni dovrebbero essere accettati come depositi da nuove casse di risparmio strettamente legate alle comunità locali, ma in rete fra loro, che presterebbero all’1% di interessi a consumatori, botteghe, studenti, fabbrichette locali e aziende agricole familiari.

«Questo inietterebbe 2,3 trilioni di dollari di “moneta-non-gravata da debito” nell’economia, perchè i Buoni sarebbero emessi direttamente dal Tesoro senza ricorrere alla tassazione o all’indebitamento. E non sarebbero inflazionati, perchè sostituirebbero il denaro creato dai prestiti bancari, anzi creerebbero nuovi beni e servizi all’interno del suolo statunitense (Cook si allarma che qualunque rilancio americano a debito favorirebbe gli Stati esteri esportatori, dato che l’America – de-industrializzata dalla globalizzazione – produce poco all’interno, e invece compra i beni da fuori): vedremmo una rinascita di attività economiche locali e regionali che finirebbero per trasformare l’economia nazionale».

Cook si proccupa di rispondere a un’obiezione molto americana: la sua proposta non sarebbe un «dar via i soldi»?

Risponde: «Se le banche possono creare moneta dal nulla, prestandola per trilioni di dollari, perchè lo Stato non potrebbe crearla per il popolo?  In questo momento, il governo USA sta prendendo a prestito trilioni da dare alle banche, nel tentativo di gonfiare di nuovo la bolla, anzi l’economia della bolla che è propria del capitalismo terminale. Potrebbe darli alla gente, invece. Il programma di rilancio di Obama costa 225 mila dollari per ogni nuovo posto di lavoro che spera di creare, e che forse non riuscirà a creare. Dare 12 mila dollari annui in Buoni a ciascun adulto americano costa meno, e la gente può usare il denaro per sopravvivere durante la attuale emergenza, e creare nuovi posti di lavoro».

Mi pare che Cook proponga una sotto-moneta locale, tipo SCEC, ma emessa dal Tesoro, in qualche modo svincolata dalle vicissitudini disastrose del dollaro. Non se se sia fattibile in Italia – ci sono lettori più esperti di me su questo tema, e aspetto le loro osservazioni.

Ma mi sento di rispondere ad una obiezione italiana: quella di Cook non è la stessa cosa di quel che propone Franceschini, «un assegno per i disoccupati». Franceschini vuole che questi soldi vengano fuori da nuove tasse (patrimoniali e sugli «evasori») e dalla «riforma» (leggi taglio) delle pensioni, ma in definitiva da un aumento del debito pubblico. Non è «debt-free-money», moneta di Stato.

Pensare fuori dagli schemi non è facile…


1) Adrien de Tricornot, «La crise financière menace la cohésion européenne». Le Monde, 2 marzo 2009.
2) Adrien de Tricornot, «Quitter la monnaie unique: un scénario à éviter», Le Monde, 2 marzo 2009.
3) Richard C. Cook, «The Last Picture Show»: Obama’s Fiscal Year 2010 Budget», GlobalResearch, 2 marzo 2009.
4) Con il varo dell’ultimo salvataggio, il contribuente USA ha sulle spalle un debito di 9,5 trilioni di dollari. Ossia più che il prodotto interno lordo sommato di Russia, Italia, Canada, Spagna, India, Brasile e altri 167 Paesi che seguono. Il debito che pesa sugli americani oggi è pari al PIL mondiale, sottratti i PIL delle cinque maggiori economie.


 

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