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La festa del 26 aprile
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Da oggi, celebriamo la grande festa del 26 aprile. La festa della liberazione: precisamente, la festa che ci ha liberato dal 25 aprile. La resistenza e la sua retorica ufficiale, con gran partecipazione di grasse autorità della casta, è stata abolita.

A seppellirla - bisogna dargliene atto - è stato Berlusconi. L’ha cancellata semplicemente partecipandovi. Vi ha partecipato non una, ma due volte, all’altare della patria e ad Onna, terremotata oggi, e teatro della «barbarie nazi-fascista» 70 anni fa.

Ha anche lui «reso omaggio» ai partigiani, persino ai capi comunisti di allora, perchè stavano «dalla parte giusta», mentre i repubblichini stavano «dalla parte sbagliata». Ha sostato a capo chino davanti alla corona rituale tenute da CC in alta uniforme, s’è fatto fotografare con il fazzoletto partigiano tricolore su doppiopetto Caraceni blù. E infine - colpo da maestro dello spettacolo - proponendo di cambiare il nome: da «festa della liberazione» a «festa delle libertà».

Persino a sinistra se ne sono accorti: quello ci sta prendendo per il c… ancora una volta. Basta leggere i commenti sui loro giornali, per vedere quanto sono gonfi di dispetto e rabbia. Ma non possono dirlo, naturalmente. E’ stato Franceschini a sfidarlo a celebrare il 25, e lui l’ha fatto; anzi strafatto. Il presidente-operaio, il presidente-soccorritore, il presidente-architetto ed ora, ecco, anche il presidente-partigiano della Libertà. Dunque, ormai intoccabile.

Franceschini, resosi conto di aver pestato - usiamo l’alto linguaggio della politica - una cacca enorme, e sentendosi già al collo la corda dei «compagni» pronti a impiccarlo (come hanno già fatto a Prodi e a Veltroni), non ha trovato di meglio che dire: nessuna equiparazione tra partigiani e repubblichini, Berlusconi neghi la pensione ai reduci di Salò. Ossia, vuole negare la pensione di guerra a una quarantina di novantenni, gli ultimi rimasti. Che figura meschina, in confronto al Cavaliere-liberatore.

Geniale, ancora una volta. In francese, questa azione distruttiva si chiama «surenchère» («caricare», esagerare), non so come si chiami a Mediaset. Ma è un altro stupendo colpo di scena in diretta-TV, con cui il Cav si è confermato padrone assoluto del palinsesto-Italia. S’intende, da questo momento ogni futuro 25 aprile non avrà più senso alcuno. Antifascisti? Ma certo, e chi non lo è? Resistenti? Anche noi, anche noi. Democratici? Noi di più.

«Finalmente» ha detto l’Endemol supremo, «si può costruire un sentimento nazionale unitario, e farlo tutti insieme quale che sia l’appartenenza politica». E come può, la sinistra, dire di no? Ma il 25 aprile era proprio la «festa» della divisione perpetua, della lacerazione nazionale ritualmente rinnovata.

«Farla tutti insieme», anche con le ministre che sono ex-veline nate dopo il 1970, significa farla finire. In vacca o, se preferite, in varietà televisivo per famiglie, tipo «Domenica In».

E’ la trasmissione della smemoratezza, firmata Mediaset.

E pensare che la sinistra sta ancora gridando o ringhiando che questo governo decisionista è il nuovo fascismo. L’abbiamo detto anche noi - fascismo televisivo, format per docu-fiction - ma ci dobbiamo correggere. La realtà è forse, che in Italia, una leadership «popolare», per affernarsi, deve avere certi caratteri ricorrenti: una buona dose d’improvvisazione, e uno svelto senso dello spettacolo, delle luci, e del posizionamenti delle telecamere per conquistare i TG. In questo sì, Berlusconi somiglia a Mussolini, e qualunque altro leader «popolare» avrà gli stessi caratteri. Ma naturalmente, lo spettacolismo, in sè, non è il fascismo.

Lo dimostra meglio di ogni altra considerazione la ridotta ideologica a cui si sono ridotti gli avversari del Cavaliere: l’insistenza rabbiosa sul fatto che i repubblichini «erano dalla parte sbagliata». Che c’era un «giusto» e uno «sbagliato» nel 1943-44.

Come mi è capitato già di dire invano (dunque repetita juvant), la scelta di coloro che scelsero Salò fu una tragedia: nel senso alto e proprio del nome, una tragedia greca. Il nucleo di tutte le antiche tragedie greche consisteva in questo: che l’eroe si dibatteva fra due scelte, entrambe obbligatorie per il suo onore, ma poste dal Fato in modo tale che obbedire all’una, significava violare l’altra; disonorarsi per onore, diventare fuorilegge per il diritto. E in questa scelta l’eroe si lacerava. E il pubblico si lacerava con lui,  incapace di dire che cosa era «giusto» e cosa «sbagliato».

Lo scopo della tragedia greca - spettacolo di pedagogia civile a cui i cittadini, ricordiamo, erano obbligati ad assistere, ricevevano perfino un gettone di presenza - era proprio questo: finirla con la guerra civile permanente e le sue memorie di sangue, forzare i partigiani dell’una e dell’altra parte a piangere insieme, a chinare il capo davanti al Fato. Edipo è un re giusto e fortunato; poi scopre che ha ucciso suo padre, e che la donna con cui va a letto è sua madre, e i figli che ha generato con lei sono impuri, prole d’incesto. Oreste ha ammazzato sua madre Clitennestra, ma essa aveva tradito e ammazzato suo marito Agamennone: chi ha ragione? Chi è sacrilego? Solo la dea, Pallade, potrà sancirlo: con supremo arbitrio.

Ma la forma più chiara si trova nell’Antigone. E’ accaduta a Tebe una guerra civile, i fratelli di Antigone hanno levato le spade contro la città, sono sconfitti ed uccisi. Il nuovo capo, Creonte, sancisce: che i cadaveri restino insepolti, a monito per tutti: ecco cosa accade a chi si mette dalla parte sbagliata.

Antigone seppellisce i suoi fratelli, viola dunque la legge; Creonte ordina l’esecuzione della ragazza.

Chi ha torto? Chi ha ragione? E qui la similitudine con la tragedia italiana del ‘43 si fa luminosa.

Il coro canta:

«A te piace, Creonte, decidere chi ama Tebe e chi non l’ama. L’arma delle legge è tua: usarla è tuo diritto, sempre, per i morti e per noi tutti i vivi».

Antigone dunque va verso l’esecuzione - sarà sepolta viva - piangendo sulla sua verginità che non diventerà mai maternità, sulla tomba che è il suo talamo. ... «E tuttavia - grida - mi segue in questo viaggio la ferma fiducia di giungere laggiù degna d’amore», perchè ha sepolto i fratelli, ha usato la pietas cui una sorella è obbligata.

Il coro piange. Ha smesso di provare a giudicare, ha solo pietà per la sciagura, che è insita nelle cose umane: «Legge è questa per l’uomo: non ascende mai nostra vita mortale esente da dolore».

E’ questa la «catarsi», che placa i morti insepolti e pacifica la città-Stato, dove la guerra civile è sempre presenta in potenza. Difatti, a Creonte che resta duro dalla «parte della ragione», Tiresia profetizza: non passerà molto, e

«anche tu un morto

dalle viscere tue dovrai staccarti

ed offrirlo in riscatto di morti
».

Insomma, la guerra civile continuerà, vedrai altri figli uccisi, perchè sei sordo al dolore comune.

Questi erano i ragazzi di Salò, come gli ultimi rinserrati volontariamente nel bunker di Hitler; la nera signora Goebbels che uccide i suoi bambini, era questo, respirarono, per l’ultima volta in Europa, la tragedia di Sofocle. Di questo tipo d’uomini ce ne furono di più nelle brigate nere: gente che riteneva di dover salvare l’onore dell’Italia disonorata, tenendo fede all’alleanza contratta coi tedeschi. Non si trattava più di vincere, ma di onorare il patto. Non c’era, da quella parte, la prospettiva di seggi parlamentari a 18 mila euro mensili, o di buoni posti negli enti pubblici. Solo uccidere altri italiani, e finire trucidati da italiani.

Dall’altra parte ci furono più calcolatori, o gente che approfittò della tragedia per le sue vendette private e per rubare oro in case altrui, o prosciutti e forme di grana. Delinquenti. Ma c’erano anche da quella parte persone d’altro tipo.

Molti anni fa chiesi a un ufficiale, reduce d’Africa, come mai fosse entrato nella resistenza. La sua risposta mi stupì: «Noi ufficiali avevamo giurato al re, mica a una repubblica». Ma il re vi aveva tradito! L’8 settembre se l’era filata con Badoglio, lasciandovi senza ordini! «Ma noi avevamo giurato fedeltà a lui, non a Mussolini», replicò duro.

Basta questo per capire quanto siamo scesi di livello. L’aria della tragedia, della grande tragedia europea, non riusciamo nemmeno a comprenderla, noi che viviamo la commedia. Gente che tiene fede a un giuramento, a costo della vita! O come ha detto Berlusconi a proposito di ragazzi di Salò, «sacrificando la propria vita ad una causa già perduta», ossia in cui non c’è niente da guadagnare.  Che coglioni, è sottinteso.

Meno male che li fucilarono, impiccarono e bruciarono. Pensate, se vivessero oggi fra noi, che rompiballe sarebbero, col loro «onore» e con la loro «fedeltà al giuramento»; pensate che molestia sarebbero per il venerato rubacchiatore sulle note-spese, per tutti i politici che se la spassano coi soldi nostri, finalmente scarichi dall’onore e disinvoltamente liberi dalla parola data: la loro e nostra vera, autentica «liberazione» è questa, da ogni fardello ed obbligo verso la patria.

Evviva il 26 aprile.

Nessuna Antigone ha sepolto quei morti di Salò, ma non c’è da temere la profezia di Tiresia. Li abbiamo tacitati in modo più definitivo che una sepoltura; abbiamo smesso di mandarli in onda.

Fanno parte di un altro palinsesto, interrotto per mancanza di «audience». Forse, chissà, vivono là dove dovrebbe andare Emilio Fede: sul satellite, dove - in ogni caso - nessuno li vede più.

Evviva il 26 aprile, festa della definitiva liberazione. Tramonta il dolente modo di dire dei vecchi, che la vita è una tragedia. La vita, oggi lo sappiamo, è tutta un quiz. Con ricchi premi in gettoni d’oro. Grazie, Berlusconi.



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