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La scienza politica tomistica
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Politica e metafisica

La morale sociale o politica si fonda sulla metafisica «che ci fa conoscere:

a) la vera natura dell’uomo, creatura spirituale e immortale (metafisica psicologica), e quindi il fine ultimo (Atto puro) al quale è destinato (metafisica ontologica), per rapporto al quale gli atti umani sono moralmente buoni o cattivi, secondo che vi conducano o no (etica generale);

b) l’esistenza di un Dio personale e trascendente il mondo, maestro, legislatore e giudice dell’umanità, autore della legge morale oggettiva e obbligatoria» (teologia naturale) (2). Onde da una determinata filosofia speculativa o teoretica (materialismo, individualismo) ne segue una determinata filosofia morale (comunismo, liberalismo). Se la filosofia teoretica dalla quale discendono la politica o scienza economica è falsa, anche queste due ultime lo saranno. Ora il comunismo deriva dal materialismo storico e dialettico, che nega l’esistenza dell’anima; il liberal-liberismo deriva dall’individualismo sensista, che riduce la conoscenza umana a quella dei bruti e nega la natura socievole dell’uomo, rendendo lo Stato o Società civile un ente privato e non più morale (3). Quindi comunismo e liberalismo-liberista sono due errori opposti per eccesso e per difetto, che sprofondano come due burroni, a «sinistra» e a «destra», sotto la vetta di una montagna, la quale è la vera filosofia del «buon senso» comune a tutti gli uomini dotati di retta ragione, eretto a scienza filosofica, ossia l’«aris-tomismo».

 

Politica come «scienza architettonica»

«Da Aristotele in poi si parla di polìtica come di una scienza architettonica, che (...) regge, coordina e dirige tutte le altre scienze pratiche, quali il diritto, l’economia, la medicina, l’edilizia, l’arte e così via, che essa applica per regolamentare l’effettiva convivenza della comunità» (4). Onde risulta lampante la contraddittorietà tra la metafisica e l’etica aristotelico-tomistica con il liberismo, che vorrebbe un’economia del tutto «libera» (facendo erroneamente della libertà un fine e non un mezzo) per agire libero da ogni intervento dello Stato o della Polis e della morale; mentre Aristotele e San Tommaso ordinano e subordinano sia il diritto che l’economia alla morale sociale o politica. I teo-conservatori nostrani, che si erigono a paladini delle radici cristiane europee dovrebbero «ire ad Thomam», come consigliava Pio XI nell’enciclica «Studiorum Ducem», invece di ire ad Popper, Myses, Hayek o Burke-Kirk, come invece fanno, scambiando dei rivoli inquinati dal liberalismo sensista inglese, per la fonte pura della metafisica dell’essere, sotto pena di divenire paladini delle radici giudaico-calviniste dell’ «Am-europa». Attenzione a non lasciarsi fuorviare dai prezzolati dal Mammona iniquitatis (il «dio quat-trino» del teo-conservatorismo) e prendere «lucciole per lanterne» in materia di filosofia politica, scambiando Locke con San Tommaso.

 

Bene privato e pubblico

San Tommaso insegna anche che «la prudenza non s’interessa soltanto del bene privato di un singolo uomo, ma anche del bene di tutta la collettività (…), così la prudenza in rapporto al bene comune si chiama politica» (5). La prudenza è una virtù cardinale, anzi è l’auriga di tutte le virtù cardinali, che ci aiuta a scegliere i mezzi migliori per ottenere il bene comune, ossia vivere virtuosamente, subordinatamente all’ordine soprannaturale. Padre Tito Sante Centi O. P. scrive: «Basterebbe quest’affermazione per fare della morale tomistica una regola di vita eminentemente sociale» (6).

 

Politica e «partitica»

Come si vede la politica non ha nulla a che fare con la «partitica». Il cristiano e l’essere umano non può non fare politica, ma non deve essere neppure un «demo(nio)-cristiano» («Noi non possiamo non fare politica», diceva San Pio X. «La politica confina con l’altare», affermava Pio XI), poiché egli è un animale sociale per natura; inoltre è stato elevato all’ordine soprannaturale e deve occuparsi non solo del suo proprio bene, ma anche di quello comune, in vista del fine «ultimo-prossimo» o naturale (benessere comune temporale) subordinato a quello «ultimo-remoto» o soprannaturale (Dio). In primo luogo perché il bene proprio non può sussistere senza il bene comune della famiglia (chi avesse una famiglia disastrata, condurrebbe una vita disgraziata o perlomeno molto difficile; oppure un padre che non si occupasse dei figli, un marito che trascurasse la moglie e pensasse solo a sé, da perfetto liberal-liberista-libertario-libertino, sarebbe un pessimo marito e padre), e a maggior ragione della città e dello Stato (chi dovesse vivere in una città ove regna l’anarchia o la tirannia, avrebbe una vita dura davanti a sé, anche se è un liberista puro; infatti «nessun uomo è un’isola» e, perciò, dovrebbe soffrire i disordini della dis-società che lo circonda e nella quale vive realmente anche se teoricamente pensa di essere un «isolato d’oro», come il ricco povero Creso), poiché la famiglia (che è una società imperfetta) non può fornire a tutti i suoi membri, tutto il necessario per vivere bene naturalmente (salute, scienza, sicurezza, moralità) ed ha bisogno ex natura rerum di unirsi ad altre famiglie, che così formano una città e poi varie città unite formeranno uno Stato (società perfetta nell’ordine temporale). In secondo luogo perché l’uomo, essendo una parte della famiglia e dello Stato, nel valutare il proprio bene grazie alla virtù di prudenza, deve farlo subordinatamente al bene della comunità; infatti «una parte che non armonizza col tutto è deforme» (7), un piede slogato o un dito moncato, non sta bene lui e non fa sentir bene tutta la persona. Il liberismo è il piede slogato o l’organo deforme della società civile con la quale non vuol vivere in armonia, data la filosofia individualista alla quale si rifà e che lo rende auto-lesionista o masochista, slogato, s-locato, doloroso e addolorante gli altri.

 

Monastica, economia e politica

Nello stabilire la gerarchia della prudenza pubblica, l’Angelico distingue specificatamente tra loro e mette al primo posto «la politica, che è ordinata al bene comune dello Stato, Poi l’economia, che si occupa del bene comune della casa o della famiglia e quindi all’ultimo posto la monastica che si occupa del bene di una singola persona» (8). Padre Centi commenta: «E’ evidente che l’Angelico aveva un concetto molto serio della politica» (9). Nel Commento alla Politica di Aristotele, San Tommaso approfondisce la questione ed insegna che la politica è una scienza necessaria, poiché scienza della città in quanto oggetto di riflessione filosofica, finalizzata a dare un’organizzazione agli uomini. Infatti la disorganizzazione produce disordine e lotta continua, mentre la pace interna è la «tranquillità dell’ordine» (Sant’Agostino). Essa è una scienza morale o pratica (conoscere per agire bene) e non una tecnica empirica, ossia il politico non è il politicante-praticone o galoppino porta-borse; anzi essa ha un ruolo architettonico nei confronti delle altre scienze morali, poiché la città rappresenta la realtà più importante di tutte quelle che la ragione umana è in grado di produrre, perciò essa occupa il primo posto tra tutte le scienze pratiche (come l’architetto e il capomastro dirigono tutti gli altri operai) (10). Indi l’Aquinate, seguendo lo Stagirita, distingue l’economia o amministrazione della famiglia (ricavare anche col risparmio le ricchezze necessarie per mantenere convenientemente un focolare domestico, ove i mezzi sono ordinati al fine, la ricchezza alla tranquillità temporale), dalla crematistica-pecuniativa (o finanziaria-affaristica, in cui la ricchezza, ottenuta anche con l’indebitamento, è il fine e non il mezzo, sino a che potrà pagare i mutui…), che consiste nel produrre e nell’accumulare il massimo di ricchezza possibile, senza porre limiti pecuniativi né morali alla libera iniziativa, una sorta di idolatria del denaro o culto dell’oro, non più del dollaro, che oggi è in «libera» caduta («w la libertà!»). San Tommaso la condanna in quanto scambia i mezzi (le ricchezze) per il fine (il bene) e questa è la natura del peccato. (11). Onde il liberismo economico è un peccato né più e né meno come il liberalismo filosofico, che fa della libertà il fine e non il mezzo per raggiungere Dio vero Fine ultimo-remoto dell’uomo.

 

Luomo è animale sociale

«Il singolo non basta a sé per vivere» (San Tommaso, De regimine principum, Lib. I, cap. 1).

L’uomo è composto di anima e di corpo. Essendo la sua anima razionale, egli è fatto per vivere a contatto con gli altri; non è un animale silvestre e solìvago, un autistico o alienato (tranne casi patologici). Ad esempio, la famiglia, che è una società imperfetta, suppone il corpo dell’uomo, orientato alla generazione, fine primario del matrimonio; ma essa deve essere seguita dall’educazione, che sorpassa la vita animale e corporea e riguarda quella razionale e spirituale. Lo stesso dicasi per la Società civile o Stato. San Tommaso spiega che «agli animali la natura ha dato i peli, i denti, le corna, la velocità per fuggire. L’uomo, invece, dalla natura non è stato formato con nessuno di questi mezzi (12) già pronti; ma al posto di quelli gli è stata data la ragione, per mezzo della quale può procurarsi tutte queste difese (13). Ma per far ciò non basta il lavoro di un solo uomo, perché il singolo non basta a sé per vivere. Perciò è naturale all’uomo vivere in società (...) affinché uno aiuti l’altro, e diversi uomini siano occupati nella ricerca di cognizioni diverse» (14).
La società civile è l’unione morale e stabile di più famiglie, che tendono al benessere comune temporale subordinato a quello spirituale. Essa nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire il fine ultimo prossimo e remoto, che non potrebbe ottenere se vivesse isolato.

 

Il diritto naturale

Per cogliere il fine ci vuole una strada che conduca ad esso: essa è il diritto naturale (15), che Sofia Vanni-Rovighi definisce «il complesso di ciò che si deve rispettare perché un uomo sia e resti autenticamente uomo» (16). Dunque un diritto naturale come règola suprema delle leggi civili, significa il dovere di subordinare ogni attività umana alla finalità morale, ossia al fine dell’uomo. Perciò, se una legge umana non contrasta con la legge morale o il diritto naturale, osservarla è doveroso moralmente («chi vuole il fine, prende i mezzi»). Mentre la legge ingiusta se è contraria al diritto naturale non deve essere obbedita (per esempio aborto, divorzio, eutanasia, bruciare l’incenso agli idoli); invece se esige dall’individuo un sacrificio non necessario al bene comune ma superfluo, come quando il capo impone ai sudditi leggi o imposte troppo onerose (17) e che non giovano al bene pubblico, esse non obbligano in coscienza, ma per evitare uno scandalo o una sedizione, si possono ottemperare.

 

Conclusione

1) Nobiltà della politica:

La politica è una virtù, non una passione o peggio un vizio, anzi la più nobile delle virtù cardinali-morali, che riguarda il ben agire dell’uomo in campo sociale, poiché l’uomo è stato creato da Dio come animale socievole e non deve disinteressarsi della res publica, societas o polis.

 

2) Necessità della politica:

E’ una scienza («scire per causas») e non una «mascherata» o «grande abbuffata». Una scienza architettonica, che serve a coordinare tutte le altre scienze pratiche, affinché nella società regni l’ordine e non il caos.

 

3) Errori da evitare:

a) L’errore per difetto: essere «a-politici», che significa essere «a-sociali» ossia «a-normali».

b) L’errore per eccesso: per la Chiesa e gli ecclesiastici, la «partitica». Infatti partito viene da «parte» e la Chiesa e l’ecclesiastico cattolico debbono essere madre e padre di tutti. La Chiesa dà i principi della scienza politica, interviene ratione peccati quando il governante erra, ma non si infeuda in nessun partito o parte, essendo essa cattolica ossia universale. Tuttavia attenzione al peccato di catto-liberalismo, il quale consiste nel volere che la Chiesa pensi solo alle singole anime e non alla forma politica data alla società, dalla quale, se buona, dipende la salvezza di molte anime, invece - se cattiva - la perdizione (Pio XII).

 

4) Falsi sistemi politici:
a) Il collettivismo social-comunista: è erroneo, in quanto l’uomo è un individuo razionale e libero creato ad «immagine e somiglianza di Dio» e perciò è ontologicamente superiore alla collettività,
mentre moralmente o nell’agire pratico ne è parte integrante, dovendone rispettare le regole, tuttavia mantenendo sempre la sua natura individuale, ossia «ens indivisum in se et divisum a quolibet alio».
Non è dunque una anonima rotella del grande ingranaggio che si chiama Stato, contro ogni collettivismo social-comunista, ma un essere intelligente e libero, distinto da ogni altro uomo e dallo Stato, ordinato a conoscere il Sommo Vero e ad amare il Sommo Bene, vivendo onestamente e moralmente in società, contro ogni individualismo liberal-liberista.

 

b) L’individualismo liberale: è falso, poiché Dio ha creato la natura umana come socievole e fatta per vivere non isolata, ma assieme agli altri. Menenio Agrippa nel suo celeberrimo apologo spiega nella maniera più semplice e ricca di buon senso che in un corpo umano (analogamente alla società civile) la testa non può disprezzare i piedi, le mani e credersi autosufficiente; sarebbe una testa liberisticamente folle, poiché condannata a restare chiusa in se stessa; così come il piede non può fare a meno della testa; sarebbe un piede socialisticamente pazzo ed incapace di camminare. Ma il liberisti anglosassoni ed americani e i socialcomunisti sovietici hanno dimenticato e smarrito il buon senso comune al mondo greco-romano/antico e cristiano/pre-conciliare.

Per gentile autorizzazione di don Curzio Nitoglia a EFFEDIEFFE.com

www.doncurzionitoglia.com


1) In Ethicorum Aristotelis, lib. I, lect. 1ª, n° 3.

2) H. Collins, Manuel de philosophie thomiste, vol. III, Téqui, Paris, 1927, pagina 183.

3) Proprio come i liberisti pratico-pratici o «praticoni» erigono delle società, che de jure appaiono come associazioni morali, cioè composte da più persone fisiche, ma che de facto sono associazioni private a delinquere di un singolo individuo «assoluto» (dal latino «ab-solutus»), ossia «sciolto da» da ogni regola etica, perché liberisticamente l’etica non deve interferire con l’economia o meglio affaristica, il quale si serve dei nomi (essendo anche «nominalista» come ogni buon liberale) degli altri poveri associati imbrogliati per far apparire la sua entità privata come fosse una società morale, mentre in realtà essa è al 98% privata e individuale, a-sociale e a-morale.

4) V. O. Benetollo O.P., «Morale e società, principii di etica sociale», ESD, Bologna, 1999, pagina 56.

5) S. T., II-II, q. 47, a. 10, in corpore.

6) La Somma Teologica di San. Tommaso d’Aquino, Commento a cura dei Domenicani italiani, Firenze, Salani, 1966, volume XVI, pagina 242, nota 2.

7) Sant’Agostino, «Confessioni», lib. III, capitolo 8.

8) S. T., II-II, q. 47, a. 11, sed contra.

9) Ivi, pagina 245, nota 1.

10) Confronta San Tommaso d’Aquino, «Commento alla Politica di Aristotele», Bologna, ESD, 1996, pagine 38-39.

11) Ivi, pagina 74-75.

12) Tranne certe spiacevoli volte, le «corna morali» per le quali il liberalismo ha trovato come rimedio il «libero divorzio», che è divenuto così l’arma dei «liberi cornuti»

13) Per evitare le «corna» e il divorzio.

14) De regimine principum, Libro I, capitolo 1.

15) Confronta H. Rommen, «L’eterno ritorno del diritto naturale», Studium, Roma, 1965.

16) S. Vanni Rovighi, opera citata, pagina 239.

17) «Dal punto di vista amministrativo si distinguono le imposte indirette, che colpiscono alcuni oggetti di consumo: essi non devono essere oggetti necessari, come il pane o la carne, altrimenti l’imposta sarebbe ingiusta, specialmente per le famiglie numerose; mentre i super-alcolici o le sigarette, per esempio, sono tassabili. E le imposte dirette che colpiscono delle situazioni permanenti; ad esempio le imposte sulla proprietà, l’imposta sul guadagno, che per piccoli guadagni è ingiusta. Normalmente l’imposta è proporzionale, vale a dire che mantiene una proporzione costante sul guadagno ingente, per esempio il 5%; e sarebbe ingiusta sui piccoli guadagni. Oppure può essere progressiva (ma si preferisce comunemente la proporzione costante), aumentando proporzionalmente con il guadagno, per esempio il 5% sino a un guadagno di 150.000 euro; 10% sino a un guadagno di 1.500.000 euro; 20% sino a un guadagno di 15.000.000 euro» (H. Collins, «Manuel de philosophie thomiste», Téqui, Paris, volume III, pagina 359). I moralisti in genere insegnano che l’imposta giusta, a proporzione costante, non deve superare circa il 10% -20% del salario. «Bisogna riconoscere che in pratica gli Stati abusano del loro diritto di imporre i tributi, elevandoli a dismisura, senza un’adeguata ragione di bene comune, per cui facilmente i cittadini si convincono della poca giustizia dei tributi (...). Per questo oggi i teologi parlano di rieducazione dello Stato e dei cittadini alle proprie responsabilità (imporre imposte giuste, e dovere di pagare le imposte giuste, nda) ...» (Enciclopedia Cattolica, volume XII, 1954, Città del Vaticano, col. 512).
Confronta B. H. Merkelbach O.P., «Summa Theologiae moralis», tomo II, «De virtutibus moralis», edizione IV, Desclée, Parigi, 1942, numeri 623-625. Confronta Pio XII, «Allocuzione al Congresso dell’Associazione fiscale internazionale», 2 ottobre 1956, in «La pace interna delle nazioni. Insegnamenti pontifici», a cura dei monaci di Solesmes, 2ª edizione, Paoline, Roma, 1962, pagine 677-679.

 

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